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POLITICA DEBOLE, PERCHE'?
25 Maggio 2007

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 25 Maggio 2007
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l'azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
tel. 338-2422592 - fax 0461-944880
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 4°
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SOMMARIO:

o UN LIBRO, per cominciare: Max Weber, “Politik als Beruf”
o DEMOCRAZIA E DINOSAURI di Tito Boeri
o LA CURA PER L'ANTIPOLITICA COMINCIA DA UNA POLITICA FORTE di Stefano Folli
o IL PROBLEMA È LA DEBOLEZZA DELLA POLITICA, NON I COSTI di Claudia Mancina
Documenti-testimonianze
LA LEZIONE DI SCIENZE DEL RIFORMISTA BLAIR

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UN LIBRO, per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Max Weber
o Titolo: “Politik als Beruf”
o Anabasi ed., Milano.

a cura di Nicola Zoller ( in "Breviario di politica mite" 2006)

La politica vien fatta con la testa, non con altre parti del corpo e dell’animo. Eppure la dedizione ad essa, se non si tratta di mero o frivolo gioco intellettuale, ma di autentico agire umano, può essere generata ed alimentata solo dalla passione


“Politik als Beruf”: il titolo originario di questo saggio di Max Weber - tratto da una serie di lezioni tenute nell’inverno 1918 - 1919 a giovani militari rientrati dalla Grande guerra - rimanda al doppio significato del temine tedesco “Beruf”: professione ma anche vocazione.
Si era, allora, in una fase rivoluzionaria, quando la politica aveva una “tragica grandezza”, mentre oggi sembrerebbe “declinante”, annota il curatore italiano della pubblicazione, Carlo Donolo. Epperò si resta colpiti dalle affinità tra passato e presente e dalle analogie che interessano tutte le fasi di trapasso, più o meno, rivoluzionarie. C’è “il desiderio di voler costruire un mondo nuovo”, e ci sono “le trappole in cui facilmente si cade”. C’è la voglia di “darsi alla politica nella forma dell’impegno personale”, e c’è anche la ricerca più prosaica del “possibile sbocco di una precarietà esistenziale”, del “procacciarsi da vivere spesso con mezzi eticamente discutibili”.
La giovane democrazia americana - in una certa fase - avrebbe sbrigativamente risolto il dilemma dando per scontato il disprezzo verso i politici, ma assicurandosi con il voto un potere di controllo mancante nello scenario europeo: “preferiamo avere come funzionari gente su cui sputiamo piuttosto che, come da voi, una casta di funzionari che sputa su di noi”.
Ma Weber constata che ora tale situazione non viene comunque più tollerata e tornerebbe dunque d’attualità generale il contrasto fra la politica come professione con la politica come vocazione, intendendo quest’ultima “come perseguimento del potere allo scopo di realizzare fini”.
Weber allora - ritenendo “irresolubile” questa tensione (ci sarà sempre chi vive ‘ di’ politica e contemporaneamente ‘ per’ la politica) - sposta l’attenzione sulle modalità di raggiungere i fini. Si viene dunque all’altro dilemma vero: l’azione politica è attraversata dal contrasto di principio tra etica della r esponsabilità ed etica dell’ intenzione. Quest’ultima è un’etica assoluta, che si affida a “princìpi” intangibili e non si preoccupa delle conseguenze. Weber esemplifica :”Avete voglia a spiegare a un militante sindacalista convinto seguace dell’etica dell’intenzione che le conseguenze del suo fare saranno l’aumento delle possibilità della reazione, aumento della repressione della sua classe, freno al miglioramento della sua condizione. Non gli farete nessun effetto. Se le conseguenze di un agire in base a pura intenzione sono cattive, ritiene responsabile di ciò non chi agisce, ma il mondo, la stupidità degli altri uomini, oppure la volontà del dio che lo ha creato così”.
Seguendo invece l’etica della responsabilità, si è - appunto - “responsabili delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire”, e - facendo i conti con i difetti medi dell’uomo - non ci si prende il diritto di rovesciare su altri le conseguenze del proprio agire.
L’etica dell’ intenzione - aggiunge Weber - ha veramente solo una possibilità logica: rifiutare ogni agire che impieghi mezzi eticamente pericolosi. “Ma nel mondo reale - scrive il nostro autore - facciamo continuamente l’esperienza che l’etico dell’intenzione si trasforma in profeta chiliastico”: chi predica “amore contro violenza” o “bene contro male”, l’attimo dopo chiama alla violenza, anzi, all’ultima violenza, che porterà poi all’annientamento di ogni ricorso alla violenza. La storia è piena di questi “pacifici sanguinari” e di “incorruttibili” propugnatori di giustizia trasformatisi in disumani giustizieri. Ed anche quando la loro fede sarà soggettivamente ‘seria’, essi avranno uno stuolo di seguaci che cercheranno solo la “legittimazione etica della voglia di vendetta, di potere, di bottino, di prebende”.
Come uscirne, visto che il desiderio di abbandonarsi alla ‘causa’ per cui si parteggia è sempre ardente?
La vocazione politica si manifesta con la capacità di reggere la tensione ineluttabile tra intenzione e responsabilità. La politica vien fatta con la testa, non con altre parti del corpo o dell’animo. Eppure la dedizione ad essa, se non si tratta di mero e frivolo gioco intellettuale, ma di autentico agire umano, può essere generata ed alimentata solo dalla passione.
Così Weber descrive il “politico appassionato”, il quale si distingue dal mero dilettante politico “sterilmente eccitato”, perché ha la capacità - nella calma del raccoglimento interiore - di valutare le cose e gli uomini e di assumersi la responsabilità verso i risultati generati dalla sua passione per la ‘causa’. La vocazione per la politica sta qui: tenere sotto controllo le due ottiche - e responsabilità - con un maturo baricentro interno, fatto di passione e precisione insieme.


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DEMOCRAZIA E DINOSAURI

• da La Stampa del 24 maggio 2007, pag. 1
di Tito Boeri

Si sente accerchiata e sembra sull’orlo di una crisi di nervi quando teme che il referendum elettorale diventi un plebiscito contro i partiti. Ma non arretra. Al contrario la politica si espande, occupa nuo-vi terreni. La spesa pubblica ha raggiunto un massimo storico nel 2006 e continua a galoppare come rivelano i dati del fabbisogno (nei saldi il tesoretto non c’è). Non c’è stato alcun passo indietro nella vicenda Telecom.
Sembra forte anche il condizionamento esercitato dalla politica su di una fusione, quella fra Unicre-dit e Capitalia, destinata a creare una superbanca (chiamata italiana anche se non sappiamo quanto lo sia davvero) che direttamente o indirettamente oggi ha un peso rilevante nel controllo delle più grandi imprese italiane.
Non arretra perché non capisce che, per sopravvivere, ogni tanto conviene arretrare. Per capirlo la classe politica dovrebbe essere più istruita, più consapevole di quanto conti la credibilità personale e delle istituzioni. Solo cambiando le regole di cooptazione nella classe politica si potrà evitare un plebiscito contro la politica, che rischia come sempre di travolgere tutto, anche ciò che di meglio è stato fatto per migliorare le nostre istituzioni dopo la Prima Repubblica.
Oggi la parola chiave è meritocrazia. Non c’è convegno in cui non venga invocata, non c’è editoria-le in cui non faccia capolino. Meritocrazia vuol dire accedere a incarichi pubblici o cariche di go-verno in base a criteri di merito. Ma i pulpiti che invocano la meritocrazia sono semmai espressione della gerontocrazia, l’affidamento sistematico del potere a chi è più vecchio: lo confermano l’Istat e le polemiche intorno al Partito democratico. L’età dei detentori di potere pubblico aumenta molto più rapidamente di quella della popolazione e degli elettori. È più alta che nelle altre democrazie occidentali, anche dove i giovani sono meno politicizzati.
Il nostro presidente del Consiglio ha 67 anni, tanti quanti il presidente della Camera. Il Presidente della Repubblica ha 81 anni, 74 la seconda carica dello Stato, mentre il capo dell’opposizione ha da poco ultimato il settimo giro di boa. Si può pensare che siano bravi e che perciò resistano a lungo in sella. Ma sia Berlusconi che Prodi sono diventati premier per la prima volta a 57 anni, mentre Blair ha iniziato il suo decennio a 43 anni, Zapatero è diventato premier a 45 anni, De Villepin e Angela Merkel a 51 anni, tra uno e due anni in meno dei contendenti al secondo turno delle elezioni presi-denziali francesi. L’età media dei nostri ministri è 58 anni contro i 52 della Francia, i 53 della Spa-gna e i 54 del Regno Unito. Non è colpa dei giovani che si disinteressano della politica: negli Stati Uniti la partecipazione al voto di chi ha più di 65 anni è quattro volte quella di chi è under 24, in Italia l’astensionismo tra i giovani è la metà di quello fra chi ha più di 65 anni.
Questa gerontocrazia è il frutto di una selezione della classe politica basata sulla posizione nella li-sta d'attesa di qualche leader o sulla fedeltà a qualche organizzazione collaterale, detentrice di voti. Sembra un metodo ideato per allontanare quelli che hanno migliori opportunità altrove, i più bravi e aggiornati. Qualcosa stava lentamente cambiando con il sistema maggioritario, in cui contano più le persone che gli schieramenti. Tra gli eletti con il maggioritario c’erano più persone con una laurea o una precedente esperienza di governo a livello locale che nel proporzionale, dove conta soprattutto l’età. Alle ultime elezioni non abbiamo potuto neanche esprimere preferenze, scegliere chi mandare a Palazzo Madama o a Montecitorio. Eccoci allora consegnato un Parlamento ancora più vecchio. Il 22% dei deputati ha più di 60 anni (il doppio che nella XII e XIII Legislatura). Tra i senatori gli o-ver 70 hanno superato il 10 per cento, quasi 4 su 10 hanno più di 60 anni, rispetto ai 3 su 10 della legislatura precedente. In Europa solo la House of Lords composta da membri a vita, ereditari e ve-scovi, ha una composizione per età comparabile. Ma la House of Lords non vota la riforma delle pensioni.
L’invecchiamento della classe politica è un problema di concorrenza che non c'è anche al di fuori del palazzo. Per rendersene conto basta comparare l'età dei manager pubblici con quella dei privati. Nelle grandi imprese partecipate dal Tesoro, l’età media degli amministratori delegati è 62 anni. Nelle 40 più grandi imprese private italiane della graduatoria di Forbes, l’età media dei managers è di 5 anni più bassa e nel manifatturiero (dove c’è più concorrenza) l’età scende verso i 50 anni.
Certo arrivare tardi al potere permette anche di acquisire esperienze importanti sul campo. Ma an-che quando un ultra 65enne ha lo stesso dinamismo di chi è nato 20 o 30 anni dopo, ha inevitabil-mente orizzonti più brevi. Le riforme vere, quelle che servono, hanno costi immediati e benefici che si vedono solo molto tempo dopo. Chi ha la prospettiva di rimanere in carica per poco, non ha in-tenzione di chiedere un nuovo mandato, ha tutti gli incentivi per rimandare ai posteri queste scelte difficili. Lo fa magari inconsapevolmente. Anche quando si sforza di pensare ai giovani, concepisce solo politiche di breve respiro, quelle che danno frutti subito, che non investono sul futuro ma sull’immediato. Meglio aspettare a riformare sul serio la scuola e l’università sfidando le corpora-zioni di insegnanti e docenti, meglio evitare di sfidare i sindacati dei trasporti pubblici, permettendo agli immigrati di lavorare e tenendoli in funzione fino alle due o tre di notte il sabato sera per per-mettere a chi va in discoteca di tornare a casa senza guidare, meglio rimandare le riforme del merca-to del lavoro e della previdenza, pur di evitare lo scontro con chi rappresenta i lavoratori più pros-simi al pensionamento.
Per dimostrare di stare dalla parte dei giovani, di pensare al futuro, si ricorre ai gesti simbolici, co-me il bonus figli che dura lo spazio di un mattino, non ti dà neanche il tempo di concepire un figlio. Vogliono i politici over 65 dimostrarci che gli orizzonti non contano? Hanno tutte le opportunità per farlo ai tavoli aperti su lavoro e pensioni. Finché non lo faranno continueremo a pensare che la ge-rontocrazia è un meccanismo di spartizione del potere perfettamente in grado di perpetuare se stes-so: figlio della mancata concorrenza, non fa nulla, ma proprio nulla, per favorire quella meritocrazia di cui tanto parla.

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IL PROBLEMA È LA DEBOLEZZA DELLA POLITICA, NON I COSTI

• da Il Riformista del 25 maggio 2007, pag. 1
di Claudia Mancina

C’è qualcosa di inquietante nel dibattito sulla crisi della politica. È inquietante che l’evocazione del 1992 diventi un luogo comune. Ma il 1992 non è stata una qualsiasi crisi della politica: è stata una tragedia nazionale; una vicenda che non è stata del tutto superata, e ancora condiziona lo scenario politico. Nei molti articoli letti in questi giorni si percepisce quasi una retorica della ripetizione, senza che ci si chieda davvero se quella stagione potrebbe ripresentarsi. Anche indicare nei costi il principale peccato della politica, sulla scorta di un paio di libri fortunati, è segno di una pigrizia mentale che non aiuta affatto a capire che cosa stia succedendo, ma è parte del problema. Costi e privilegi, infatti, ci sono e devono essere ridimensionati; ma chi pensa di cominciare da lì la riforma della politica, o si illude o è in mala fede. Il problema essenziale della politica italiana, quello da cui dipendono tutti gli altri, è la sua debolezza, e quindi la sua incapacità di decidere. Se la sfiducia au-menta non è per i costi, e neanche per i privilegi. La polemica su questi aspetti certo è un condimen-to piccante; ma non scherziamo, in tutti i paesi democratici esiste la rabbia verso la politica e il di-sprezzo verso i politici. In tutti i paesi democratici i politici sono considerati, nella vox populi, inte-ressati e disonesti. È un tratto ineliminabile della politica contemporanea, da quando ha abbandona-to l’originario carattere elitario e si è pienamente democratizzata. La democrazia non è certo priva di aspetti negativi: tra questi sono sia la corruttibilità dei politici, sia il populismo moralistico delle opinioni pubbliche. Di solito queste sono tendenze presenti, ma tenute sullo sfondo dal sistema di controlli reciproci che è proprio del processo democratico.
La differenza specifica, nel nostro paese, è che la politica appare inefficiente e inutile. Imprigionata da decenni nelle stesse eterne discussioni sugli stessi problemi: la riforma delle pensioni, l’aggiornamento della costituzione, la razionalizzazione dell’amministrazione pubblica, le quote ro-sa (e non parliamo di alta velocità, ponti, strade, rifiuti). La politica in questo paese - di destra o di sinistra - non riesce ad assolvere una funzione di governo. Questa è la ragione della sfiducia, della disaffezione, dei venti populistici che increspano la superficie. Per questo è vero che la formazione del Partito democratico può essere una risposta, dato che dovrebbe avere l’effetto di rafforzare la capacità di governo dello schieramento di centrosinistra. Ma ciò potrà avvenire solo se i fondatori del Pd, da Prodi in giù, si renderanno conto che non basterà qualche taglio di auto blu a recuperare la fiducia. Bisognerebbe invece agire - con decisione, con chiarezza, con volontà ferma e disponibi-lità a correre qualche rischio - in due direzioni. La prima è quella della legge elettorale, che è la causa prossima e tutt’altro che secondaria dell’aggravamento della situazione. La dannosità della legge in vigore è ormai chiara a tutti: evitare che si torni a votare con lo stesso sistema, ritornare a un sistema che assicuri non solo il bipolarismo, ma anche un corretto rapporto elettori-eletti, è un imperativo superiore a qualunque altra esigenza, anche quella della durata del governo. Il tema non può più essere affrontato con i tatticismi e le furbizie. La seconda direzione è quella dei comporta-menti soggettivi. Se si vuole riconquistare la fiducia, si deve smettere di inseguire il consenso del momento con promesse e dichiarazioni puntualmente disattese. Non si può parlare di diminuzione dei parlamentari, o di abbassamento dei costi della politica, se non si è disposti ad affrontare una battaglia all’ultimo sangue per realizzarla. Non si può continuare a parlare di donne e poi presentare un comitato promotore (o, peggio, un governo) in cui le donne sono largamente al di sotto delle at-tese. È il tema della credibilità, giustamente sollevato da D’Alema. Ma per essere credibili ci vuole un minimo di respiro: guardare al domani e non solo all’oggi. Guardare alla sostanza dei problemi e non solo alle posizioni reciproche. Avere degli obiettivi, non degli slogan.
Non credo che ci sarà un nuovo 1992. È abbastanza certo però che se il centrosinistra fallirà la pro-va di questa legislatura non solo il Pd, ma anche i suoi soci fondatori saranno spazzati via.

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Documenti-testimonianze

LA LEZIONE DI SCIENZE DEL RIFORMISTA BLAIR

• da Il Riformista del 24 maggio 2007, pag. 3
di Anna Meldolesi

Il lungo addio di Tony Blair è una buona occasione per guardarsi allo specchio e tornare a riflettere sulle sfide del riformismo. Una volta esaurito il filone dei commenti sull’avventura britannica in I-raq, dunque, varrebbe la pena di passare a parlare dei punti di forza del premier uscente, a comincia-re dal suo rapporto con la modernità e dalla passione con cui ha reinventato il rapporto tra politica e scienza. L’impegno profuso in questa direzione per dieci anni, infatti, gli ha conquistato la gratitu-dine unanime della comunità scientifica di casa e diffuse simpatie nei laboratori di tutto il continen-te.
«La scienza è per molti versi la success story segreta del governo», ha detto Blair lo scorso novem-bre davanti alla Royal Society, che è un po’ l’equivalente dell’Accademia dei Lincei, solo in ver-sione più agguerrita e meno celebratoria. Blair è andato a parlare più di una volta agli scienziati del Regno e non lo ha mai fatto con parole di circostanza. Si è sempre schierato a favore della libertà di ricerca, anche quando significava scontentare ecologisti, animalisti o leader religiosi. E alle parole sono seguiti sempre i fatti, con investimenti crescenti e riforme coraggiose. Non soltanto quelle di cui è giunta eco in Italia, in materia di fecondazione assistita e clonazione.
Quando è arrivato a Downing Street nel 1997 i laboratori erano stati messi a dura prova da diciotto anni di governi conservatori e Blair ha invertito la tendenza da subito. Il budget per la ricerca ha a-vuto un balzo del 15% nei primi tre anni e oggi arriva a 3,4 miliardi di sterline, più del doppio (in termini reali) rispetto a dieci anni fa. Ma il premier non si è limitato a mettere mano alle casse, ha anche lavorato per restituire autorevolezza alla scienza sulla scena pubblica. C’erano da curare le ferite lasciate dalla gestione maldestra dell’epidemia di Bse (mucca pazza) da parte dei conservato-ri, perché l’opinione pubblica aveva finito per attribuire alla scienza colpe che erano in realtà “della cattiva politica e della cattiva agricoltura”. E bisognava farlo mentre nuove emergenze bussavano alla porta. Nel 1998, infatti, in Gran Bretagna è scoppiato lo scandalo Frankenfood - innescato dalla bufala delle patate killer - e le proteste anti-Ogm d’oltremanica sono state ben più infuocate di quel-le nostrane. Lo stesso anno il governo britannico ha dovuto affrontare un altro scandalo che, per for-tuna, non ha mai raggiunto l’Italia: la campagna contro il vaccino trivalente MMR (per morbillo, parotite e rosolia) che ha convinto molti genitori a non vaccinare i propri figli, portando la copertura nazionale sotto i livelli di guardia. Quindi nel 2000 il comparto agricolo è stato sconvolto dall’epidemia di afta epizootica. Ma Blair ha sempre lavorato per placare gli allarmismi e costruire ponti. Ha fatto spazio in tutti i dipartimenti per consulenti scientifici autorevoli e ha varato policies evidence-based, pensate per funzionare anziché per compiacere i gruppi di pressione. Ha persino ipotizzato di sottoporre gli atti del governo in campo scientifico, ambientale, alimentare a una sorta di benchmarking esterno. La filosofia è sempre stata quella che ora sta portando Londra verso il via libera al trasferimento di nuclei umani in ovuli animali (le cosiddette chimere): ogni scelta deve es-sere fatta in modo trasparente, sulla base dei dati anziché sull’onda delle emozioni, perché l’eticità delle ricerche può essere efficacemente garantita da un quadro di regole stringenti senza ricorrere ai divieti assoluti. «Voglio fare della Gran Bretagna una calamita per gli scienziati» ha detto Blair e in molti campi c’è riuscito.
La comunità scientifica gli è riconoscente anche per la fermezza dimostrata in difesa delle speri-mentazioni su cavie animali. Gli oppositori usano il termine dispregiativo “vivisezione”, anche se si tratta di esperimenti spesso irrinunciabili per il progresso delle conoscenze biomediche. Comunque in Gran Bretagna questa campagna ha toccato punte drammatiche, tra minacce e profanazioni di tombe, tanto che nel 2003 e nel 2004 Cambridge e Oxford hanno rinunciato alla costruzione di nuo-vi laboratori. Downing Street però ha risposto approvando leggi più severe contro gli ecoterroristi e aumentando le attività della polizia. Questo mese, per esempio, sono stati eseguiti trenta arresti.
L’impegno a favore della scienza si spiega, ovviamente, con la volontà di rendere il paese più com-petitivo sul fronte dell’“economia della conoscenza”, come testimonia la forza crescente del com-parto biotech e farmaceutico britannico. Ma Blair ha raccontato anche di essere mosso da una forte attrazione intellettuale: «Le mie vecchie insegnanti sarebbero meravigliate di sapere quanta passio-ne nutro per la scienza oggi. Nelle materie scientifiche non ero solo scarso, ero negato». Gli piace ricordare che i tre regali più grandi che la Gran Bretagna ha fatto all’umanità sono stati Darwin, Newton e Shakespeare. Difficilmente vedremo mai un premier italiano entusiasmarsi per Golgi e Fermi oltre che per Dante. Ma il quadro non sarebbe completo se non ricordassimo l’impegno di Blair per sanare la frattura atlantica sui cambiamenti climatici, con un accordo che serva a ridurre le emissioni di gas serra ma anche a investire in ricerca e sviluppo. Non c’è niente di speciale nella sua convinzione che per risolvere questo problema «non basterà negoziare e regolare. Ci sarà bisogno di una nuova generazione di specialisti» in sequestro dell’anidride carbonica, fissione nucleare, bio-masse, idrogeno e via continuando. Ciò che sorprende, però, è l’invito che ha rivolto di conseguen-za ai ragazzi del Regno: «Se siete giovani idealisti e volete cambiare il mondo, allora diventate scienziati».




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