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Il '68 rovesciato
25.2.2008

INFO SOCIALISTA 25 febbraio 2008
a cura di n.zoller@trentinoweb.it

- per la Costituente del PARTITO SOCIALISTA in Trentino-Alto Adige
collegata all'azione nazionale dei socialisti e del centro sinistra -
tel. 338-2422592 - fax 0461-944880 Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it
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Quindicinale - Anno 5°

o Un libro, per cominciare: "Il libretto rosso" di Mao Tse-Tung (il '68 rovesciato)
o IL PARTITO SOCIALISTA. UTILE ALL'ITALIA - di Enrico Boselli
o I socialisti dal 1892 a oggi
o Il riformismo è socialista - di Matteo Salvetti

o ricerca - A proposito di fannulloni - di Nicola Zoller (MondOperaio n. 1/ 2008), recensione al libro di P.ICHINO

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UN LIBRO, per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Mao Tse-Tung
o Titolo: "Il libretto rosso"
o Ed.Newton Compton, 2008

Il '68 rovesciato: "UNA BOIATA PAZZESCA"
di Dario Fertilio - Corriere della Sera del 22 febbraio 2008

Pare sia stato - informa Federico Rampini nella presentazione - il secondo bestseller
di tutti i tempi dopo la Bibbia. Non è la "Divina Commedia", ma il "Il libretto rosso"
di Mao Tse-Tung.In 40 anni i pensieri ispirati dal Grande Timoniere sono stati diffusi
in cinque miliardi di esemplari e le copertine rosse sventolate sulla piazza Tienanmen
soni sembrate ad alcuni "una prateria piena di farfalle". In Europa, il culto quasi
religioso contagiò alla grande gli intellettuali, ma tutto passa, e così riaprendo il
libretto ci si imbatte in banalità del tipo "la rivoluzione non è un pranzo di gala" o, peggio,
in un "siamo per l'abolizione della guerra,ma la guerra può essere abolita solo con la guerra.
Perchè non vi siano più fucili, bisogna impugnare il fucile". Il tempo, ammoniva Marguerite
Yourcenar, è grande giudice: non c'è ventenne di oggi che non definirebbe il libretto "una
boiata pazzesca".

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IL PARTITO SOCIALISTA. UTILE ALL'ITALIA

Il Partito Socialista si presenta alle elezioni del 13 aprile con il suo simbolo. Laico ed
europeo, è l'espressione più coerente della sinistra riformista. In Europa, ovunque c'è un Partito socialista. Solo in Italia vorrebbero che non ci fosse più. Siamo stati i primi ad aver dato voce, fin dal 1892, all' Italia che lavora e che produce. Questi valori, a cui si sono sempre ispirati i socialisti, non si cancellano: tutela dei diritti del mondo del lavoro, scuola pubblica, laicità dello Stato e allargamento dei diritti civili, a cominciare dalla difesa della 194 sono questioni che riguardano da vicino la vita delle persone. Chi non vuole disperdere il proprio voto, voti socialista. Sarà utile all'Italia.

Enrico Boselli

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La storia
I socialisti dal 1892 a oggi
Una storia che prosegue da oltre cent’anni

Il PS trae la sua origine storica e ideologica dal Partito Socialista Italiano, nato a Genova nel 1892. Esso fondava in sé l'esperienza socialista sia di ispirazione riformista che marxista. I principali promotori della formazione del PSI furono, tra gli altri, Filippo Turati, Claudio Treves e Leonida Bissolati.
La prima scissione del PSI avviene nel Congresso di Livorno del 1921. Dopo che Lenin aveva invitato il PSI a conformarsi ai dettami dei 14 punti dell’Internazionale Socialista e ad espellere la corrente riformista di Turati, i comunisti di Bordiga e Gramsci, in minoranza, escono dal Congresso e fondano il Partito Comunista .
Nel 1922 la corrente riformista di Turati viene espulsa dal Partito per la collaborazione data ai partiti borghesi nel risolvere la crisi di Governo del 22’, che aprirà le porte al Fascismo. Turati fonda il PSU (Partito Socialista Unitario), che nel 1930, in Francia, nel pieno dell’esilio fascista, si riunificherà con i massimalisti, guidati dal giovane Pietro Nenni. Nel 1943 rinasce a Roma il Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP) che raggruppa una parte consistente di personalità influenti della sinistra italiana antifascista, come il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il nuovo segretario sarà Pietro Nenni.
Il PSIUP durante la Resistenza partecipa attivamente al Comitato di Liberazione Nazionale e si avvicina in particolare al Partito Comunista Italiano con una politica di unità d'azione volta a modificare le istituzioni in senso socialista. Questa politica viene osteggiata dalla destra del partito guidata da Giuseppe Saragat, preoccupato che le divisioni interne alla classe operaia potessero favorire l'ascesa di movimenti di destra autoritaria, come era avvenuto nel primo dopoguerra con il fascismo.
In occasione del referendum istituzionale del 2 giugno del 1946, il PSIUP è uno dei partiti più impegnati sul fronte repubblicano, al punto da venire identificato come "il partito della Repubblica".
Il 10 gennaio 1947 il PSIUP riprende la denominazione di Partito Socialista Italiano (PSI). Il cambio di nome avviene nel contesto della scissione della corrente socialdemocratica guidata da Giuseppe Saragat (scissione di palazzo Barberini), il quale darà vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), e marcherà una profonda distanza dai comunisti (ormai definitivamente agganciati allo stalinismo sovietico). Il PSI invece, proseguirà sulla strada delle intese con il PCI, e con quest'ultimo deciderà anche di fare un fronte comune, il Fronte Democratico Popolare, in vista delle elezioni dell'aprile 1948.
Dopo la sconfitta elettorale del 1948, la lista del Fronte Democratico Popolare non verrà più riproposta, ma il PSI resta alleato col PCI, all'opposizione, per ancora molti anni.
Una svolta importante nella storia del PSI è costituita dal Congresso di Venezia del 1957, quando, in seguito all'invasione sovietica dell'Ungheria e alla rottura col PCI, il partito comincia a guardare favorevolmente all'alleanza con i moderati: si rafforza il nesso socialismo-democrazia e il PSI abbandona i legami con il blocco sovietico.
Nel 1963 il PSI entra definitivamente al Governo, con l'esecutivo guidato da Aldo Moro, dando avvio alla stagione del “centrosinistra”.
Dopo lo squilibrio elettorale alle amministrative del 1972 tra PCI e PSI , la segreteria del Partito passa da De Martino a Bettino Craxi, vicesegretario e membro di punta della piccola corrente autonomista di Pietro Nenni. Nell’agosto del 78’, viene pubblicato "Il Vangelo Socialista", con il quale si sancisce la svolta ideologica, con lo smarcamento dal marxismo, appannaggio di un percorso culturale distinto da quello del PCI e che prende le mosse da Proudhon evolvendosi col socialismo liberale di Carlo Rosselli.
Nel 1985, dopo gli anni di partecipazione al Pentapartito, il PSI di Bettino Craxi rimuove la falce e il martello dal proprio simbolo per rimarcare la sua intenzione di costruire una sinistra alternativa e profondamente riformista guidata dal PSI e non più egemonizzata dal PCI. L'elettorato premia questa scelta: la percentuale di consensi infatti sale dal 9,8% ottenuto nel 1979 fino a toccare il picco del 14,3% nel 1987.
Con la caduta del muro di Berlino dell’89, reputando imminente una conseguente crisi del Partito Comunista Italiano, Craxi inaugura l'idea della "Unita Socialista" da costruire insieme con il fidato Psdi e nella quale coinvolgere anche ciò che nascerà dalle ceneri del PCI. Come previsto, infatti, il PCI viene sciolto e gli ex comunisti confluiranno nel più moderato e riformista PDS. I primi riscontri elettorali da parte del PSI paiono incoraggianti, poiché alle elezioni regionali del 1990 i socialisti si portano al 18% come media nazionale.
Nel 1992 coppia lo scandalo di Tangentopoli, che colpisce prevalentemente Bettino Craxi ma mette in crisi tutti i partiti della cosiddetta Prima Repubblica. Il partito cambia rapidamente molti segretari fino al definitivo sfaldamento in tante parti.
Schiacciato dall'offensiva giudiziaria e da una feroce campagna giornalistica, il PSI si scioglie definitivamente con il 47° congresso il 13 novembre 1994 presso l’Auditorium del Palazzo dei Congressi di Roma. Da quel giorno ha inizio la diaspora socialista in Italia.
Dopo anni di divisioni, nell’aprile 2007, a Fiuggi, il segretario dello Sdi Enrico Boselli, annuncia l’intenzione di dar vita al Partito socialista assieme a personalità, esponenti e simpatizzanti provenienti anche da altri partiti.
Nel luglio 2007 con la Costituente socialista si avvia il processo che porterà il Partito socialista formato non solo dalla ricomposizione della diaspora socialista, ma anche da molte anime riformiste, laiche, democratiche della sinistra italiana che si richiama ai valori e ai principi del Partito socialista Europeo. Il comitato promotore del Partito, guidato da Enrico Boselli e Gavino Angius, è composto da: Roberto Barbieri, Franco Benaglia, Vittorio Craxi, Cinzia Dato, Mauro Del Bue, Gianni De Michelis, Rino Formica, Ada Girolamini, Franco Grillini, Ugo Intini, Pia Locatelli, Maria Rosaria Manieri, Alberto Nigra, Gianfranco Schietroma, Valdo Spini, Lanfranco Turci, Roberto Villetti, Saverio Zavettieri.
La prima scadenza elettorale che affronterà il PS saranno le elezioni amministrative e politiche del 13/14 aprile 2008.

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IL RIFORMISMO è SOCIALISTA

Mentre perfino Eugenio Scalfari su “Repubblica” si chiede tra le righe se il Pd possa ancora essere annoverato tra i partiti della sinistra, quest’ultimo, in modo alquanto dispotico, decide di auto-candidarsi come unica alternativa possibile utile a scongiurare il ritorno al potere di Berlusconi e della sua corte politica.
Il partito democratico corre da solo e nella corsa vorrebbe inglobare uomini, simboli, storie politiche differenti senza amalgamare però bene il tutto. Da un punto di vista ideologico, il PD sembra essere diventato addirittura autosufficiente. A seconda delle situazioni sa essere disinvoltamente conservatore, cattolico, liberale, socialista e perfino comunista alla Berlinguer!
Franceschini non comprende come mai il rinato Partito socialista non voglia sciogliersi in questo partito democratico. La vera sinistra riformista, secondo lui, dovrebbe stare lì tra la Binetti e Veltroni. Si capisce bene come di fronte a una tale svendita dei valori più profondi della sinistra non rimanga altra scelta al PS che quella di presentarsi da solo, purtroppo lontano anche dalla Sinistra arcobaleno.
Non si può accettare l’idea che ogni voto negato a Veltroni e alla sua compagine rappresenti un favore fatto a Berlusconi: se così fosse, per quale motivo mettere in piedi libere elezioni? Qualunque cittadino si riconosca nel progetto di sinistra riformista presentato nel manifesto dei valori del PS consultabile in internet dovrebbe invece sentirsi libero di aderirvi e fiero di contribuire così al rinnovamento del proprio Paese indipendentemente dagli esiti elettorali peraltro affatto scontati.

Matteo Salvetti
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Ricerca: recensione al libro di Pietro Ichino, “I NULLAFACENTI"

A PROPOSITO DI FANNULLONI - da MondOperaio - rivista nazionale dei Socialisti - n.1/2008 - p.116-118

di Nicola Zoller

“BEPPE, SINDACALISTA CGIL, UNO DEI MIGLIORI LAVORATORI DI QUELL’AZIENDA… SOPRATTUTTO NON DIFENDEVA I FANNULLONI. IO GLI DISSI UNA VOLTA: ‘BEPPE, SE LA SINISTRA FOSSE TUTTA COME TE, AVREMMO IL 70% DEI VOTI’. PURTROPPO NON È COSÌ”. Danilo, impiegato

Le nostre amministrazioni stanno in piedi perché c’è una parte cospicua dei loro dipendenti che ama il proprio lavoro e supplisce con la dedizione personale a infinite carenze strutturali e orga-nizzative, senza per questo ricevere una lira in più del magro stipendio uguale per tutti. Poi c’è un’altra parte che gioca al ribasso, ma si impegna pur sempre a garantire un minimo di efficienza e di utilità effettiva della prestazione, riconosciuto come irrinunciabile. Infine ci sono, protervi, i nullafacenti: quelli che vengono al lavoro solo quando fa loro comodo, o non ci vengono proprio, per-ché ne hanno un altro, in nero, molto più redditizio; e quando vengono, lavorano così poco e male che non si può affidar loro nulla di importante. Gli appartenenti a quest’ultima categoria sono, in genere, una piccola minoranza; ma è raro che una struttura pubblica ne sia del tutto priva.
E’ questo il risultato della radiografia fatta dal professore Pietro Ichino - chiarissimo giusla-vorista, editorialista del Corriere della Sera, già deputato del Pci e dirigente della Cgil – nel suo li-bro dal titolo tranciante “I nullafacenti” e con un sottotitolo dal proponimento esplicito: “Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica”.
IL RUOLO DEL SINDACATO
Già, perché – spiega Ichino - tutti i dipendenti pubblici seri sono vittime di un sistema inca-pace di distinguere tra chi lavora bene e chi no; essi hanno un preciso interesse a rompere i circoli viziosi che condannano l’amministrazione pubblica all’inefficienza. E ammonisce: se finora i di-pendenti pubblici seri non si sono mossi è solo perché è prevalsa l’idea che romperli non sia possi-bile; ma il giorno in cui incominceranno a convincersi del contrario, se il sindacato non cambia linea rischia che gli si rivoltino contro.
Dunque c’è il problema del ruolo del sindacato (già analizzato in generale da Ichino nella sua opera precedente “A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino”, da noi già commentata su Mondoperaio del gennaio-febbraio 2007). Ora è chiaro - sottolinea l’autore - che non si può imputare al sindacato il fatto che esso difenda i lavora-tori più deboli, i meno produttivi, poiché questo rientra nella sua funzione essenziale e ineliminabile. Ma l’accusa - proveniente non solo dal mondo imprenditoriale - che il sindacato si riduca “a difensore dei fannulloni”, comporta un rischio mortale: che il sindacato finisca per sostenere “solo” i lavoratori meno produttivi, lasciando gli altri lavoratori di fatto privi di rappresentanza. E’ questo un rischio – annota Ichino – che il sindacato sta correndo in modo sempre più grave ed evidente. Soprattutto nel settore pubblico, dove la disponibilità ad una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell’efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale – manifestata genericamente dai sindacati confederali – è vistosamente contraddetta dai loro comportamenti effettivi non appena si tratta di passare alle misure concrete. Per Ichino il sindacato dovrebbe invece curare - con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi – che il proprio naturale e dove-roso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi col riconoscimento e la difesa anche dell’interesse della parte più professionale e più produttiva; altrimenti, prima o poi quest’ultima si ribella. E’ già accaduto nel 1980 con la “marcia dei 40.000”: gli errori del sindacato che hanno generato allora quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi; soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e quindi più capace di imporre la propria legge.
L’opera di Ichino riproduce nella parte centrale una serie di “testimonianze in diretta” tratte dal forum aperto nell’agosto 2006 dal Corriere delle Sera proprio su problemi sollevati dal nostro autore. Testimonianze non tenere col sindacato nelle sue relazioni coi “nullafacenti”. Ne riportiamo alcune. Scrive Daniele, elettore di sinistra: “Finalmente qualcuno che ha il coraggio di affrontare il tema delle risorse drenate dall’amministrazione pubblica che non si traducono affatto in beni e servizi pubblici, ma in beneficio per ben protette frange di ‘inefficienti’ dipendenti pubblici… I sindacati difendono molto bene chi un posto di lavoro già ce l’ha, dimenticandosi di chi, giovane e di buone speranze, è da anni alle prese con una precarietà figlia anche di queste barricate sindacali. Se la nostra sinistra non si libera di questa zavorra culturale non potrà promuovere più moderne forme di governo dove davvero lo sforzo comune si traduca in benessere pubblico”. Un altro elettore di centro-sinistra, iscritto al sindacato, aggiunge a proposito di una dichiarazione di Paolo Nerozzi del-la segreteria Cgil: “Leggere che secondo Nerozzi ‘non esistono i nullafacenti’ è veramente indegno. Ma questa gente dove vive?”. Continua Luca: “Mi ha fatto veramente molto arrabbiare (ma non mi ha stupito) l’affermazione di Nerozzi ‘Non esistono nullafacenti’. E’ esattamente da qui che nasco-no tutti i mali: i nullafacenti sono protetti. Mi ricordo che quando si è cominciato a parlare di mafia, qualcuno ha detto ‘la mafia non esiste’… E’ ora che si parli di licenziamento dei dipendenti pubbli-ci che non lavorano. Il velo di omertà va alzato”. Ecco la testimonianza di Stefano: “Sono un dipen-dente pubblico ed elettore della sinistra. Leggere le parole di Ichino mi ha fatto un piacere enorme: sono tutti i giorni a stretto contatto con persone impreparate e nullafacenti che arrecano danni ai col-leghi che lavorano, ma anche agli utenti (in questo caso alunni delle scuole medie, e si consideri che questo mestiere è così delicato nella formazione degli uomini di domani). Spero che Prodi e il Governo vogliano ascoltare la maggioranza del Paese, e non solo i sindacati, che non capisco chi pro-teggano, nel momento in cui non proteggono i lavoratori”. Passiamo a Nicola: “ Porto a esempio la mia esperienza di obiettore presso la Provincia di Reggio Emilia (area Territorio e Mobilità) e posso tranquillamente dire di aver visto, per tutti i 10 mesi di servizio almeno una impiegata rubare conti-nuamente lo stipendio. Che non si possa far nulla mi sembra un insulto a chi, all’interno dell’area stessa, lavora sul serio. Che i sindacati non vengano a raccontarmi che pure il più inetto e svogliato ‘lavoratore’ abbia diritto a uno ‘stipendio’; se i personaggi in questione non fossero dipendenti pub-blici verrebbero messi alla porta all’istante”. Lasciamo ora la parola ad Alessandro: “Quando l’assessore al personale (di sinistra) del comune in cui vivo ha osato introdurre una forma di valu-tazione dei dipendenti (la quale al massimo poteva comportare una riduzione del ‘premio di produ-zione’ che attualmente – e ditemi voi che senso ha – viene dato a tutti indipendentemente da efficienza e bravura), ed un orario più funzionale (non più lungo), i sindacati hanno indetto lo sciopero”.
Potremmo continuare con la segnalazione degli interventi (il forum ne ha ospitati più di 1500), ma in generale non cambierebbe l’orientamento che abbiamo evidenziato; anzi, chi vorrà leggere il libro del prof. Ichino trarrà da queste testimonianze uno scuotimento tale da poter invocare i rimedi più radicali. Citiamo ancora l’impiegata pubblica di un Comune del sud – si firma G.G. - “il cui problema principale è di cercare di far passare il tempo perché non ha niente da fare…, caffè, giornale, internet, telefonate agli amici, di nuovo caffè, sigaretta e così via fino alle 14 di ogni gior-no”. Ma non va meglio al nord. Scrive Gabri: “Mi ritrovo a sopravvivere per settimane e settimane, con il cervello ormai quasi agonizzante e i gomiti appoggiati a una scrivania desolatamente vuota! Tanto simile a quella di tanti altri colleghi! Una doverosa precisazione: ‘lavoro’ in una bella ed effi-ciente amministrazione della laboriosa Lombardia”. Ecco Giampiero: “Sono figlio e fratello di im-piegati dello Stato ma svolgo un’attività libero professionale. Durante il servizio militare ho svolto il mio lavoro presso un ministero e devo dire che lì ho preso la decisione che mai e poi mai avrei seguito le orme di famiglia. Osservavo questi uffici del ministero perennemente vuoti, con persone immancabilmente a prendere il caffè, a chiacchierare per gran parte del tempo dei massimi sistemi e/o dei fatti di altri colleghi, il tutto con tassi di depressione da paura (la noia è madre di molti di-sturbi)”. Sì, la noia. E la malattia? Ecco come viene descritto l’abuso infamante del sacrosanto dirit-to di curarsi. Scrive Erminia che nella sua scuola “è molto radicata l’idea che sia normale che ogni insegnante faccia 30 giorni di malattia ogni anno. Una collega che a fine anno ne aveva fatti ancora solo 10, mi dice che è incerta sul come utilizzare gli altri 20 che ‘le avanzano’. Mi vede perplessa; in effetti, un po’ perplessa sono perché io vedo lei sana come un pesce; e allora mi dice: ‘Ma gli al-tri 20, che dovrei farne? Regalarglieli?’”. Conferma Rocco: “La malattia! ‘Ho preso un mese di malattia’, ma che vuol dire? Il tuo capo sa che non sei malato ma non importa, rientra nella normali-tà che un dipendente della p.a. sia malato per ‘almeno’ un mese all’anno”.
Come uscire da questo tunnel di dissipazione e disperazione? Pietro Ichino insiste sul dove-roso obbligo del sindacato di darsi un “codice etico”. C’è una testimonianza formidabile nel forum. Scrive Danilo: “Ho lavorato anni in una nota multinazionale: era molto sindacalizzata e quasi tutti iscritti alla Cgil. Che strano, mi chiedevo guardandomi intorno, visto che l’immaginario voleva i ‘Cgilellini’ un po’ dei ‘cipputi’ incavolati…Poi conobbi il rappresentante sindacale Cgil: Beppe, uno dei migliori lavoratori di quell’azienda (e i dirigenti lo sapevano e lo rispettavano). Con lui ri-solvemmo migliaia di beghe, era un infaticabile ‘empowerizzatore’ di energie positive, mai polemi-co, e, soprattutto, non difendeva i fannulloni. Io gli dissi una volta: ‘Beppe, se la Sinistra fosse tutta come te, avremmo il 70% dei voti’. Purtroppo non è così”
IL COMPITO DEI DIRIGENTI
Ecco, l’impegno etico del sindacato è di difendere i lavoratori, non i fannulloni, in primo luogo assumendo una linea d’azione generalizzata similare a quella appena evocata nell’esperienza del sindacalista Beppe. Ma anche accettando in ciascun comparto dell’impiego pubblico la presenza di “organi indipendenti” – istituiti per legge – che valutino l’efficienza e l’utilità di ciascun ufficio. Sulla base di tali valutazioni si potrà procedere al blocco della retribuzione incentivante, e anche al-la riduzione degli organici in caso di efficienza e produttività nulla o irrilevanti. Recentemente il prof. Ichino sul Corriere della Sera ha lanciato però questa avvertenza: “Licenziare i nullafacenti colposi o dolosi è necessario per il buon funzionamento delle amministrazioni pubbliche, ma non è certo sufficiente. Più ancora che le sanzioni contro chi non fa il proprio dovere sono indispensabili gli incentivi giusti per stimolare tutti i dipendenti pubblici a svolgere nel modo migliore la propria funzione, al servizio dei cittadini. Questo è il compito dei dirigenti, ai quali bisogna restituire i po-teri effettivi necessari per svolgerlo: poteri di valutazione e di differenziazione dei trattamenti in ba-se al merito. E piena responsabilità al proposito…”. C’è ancora una lettera illuminante nel forum a cui più volte ci siamo riferiti. Scrive Paolo. “Lavorando in un ente pubblico e avendo sotto gli occhi la situazione quotidianamente, posso aggiungere che, oltre ai dipendenti ‘semplici’ nullafacenti che certamente esistono e non sono casi isolati, vi sono anche i capi che non capeggiano, i coordinatori che non coordinano, i responsabili irresponsabili, i dirigenti che non dirigono. Vuoi per ignavia, vuoi perché a loro volta non hanno direttive chiare, vuoi perché ‘Chi si assume la responsabilità?’ , vuoi perché è più semplice tirare a campare, vuoi perché ‘Chi me lo fa fare?’… è più semplice non fare nulla”. Uguali, identiche considerazioni sono state rese in forma più compiuta da una analisi del prof. Vito Tenore, magistrato della Corte dei Conti, sul n. 4/2006 della Rivista italiana di diritto del lavoro: “ Il problema è quello della stasi della pubblica dirigenza, motore dell’azione disciplina-re sistematicamente inerte a fronte di comportamenti di scarso rendimento dei propri subordinati per varie motivazioni extragiuridiche: indifferenza verso il fenomeno, scarso interesse alla pur sbandie-rata logica dei risultati nella p.a., umana pavidità per timori di ritorsioni (spesso dei vertici. politici, gestionali e sindacali, referenti del ‘nullafacente’), retaggi culturali buonisti (‘ho famiglia, anche il nullafacente in fin dei conti ha famiglia’), interesse a non turbare equilibri interni, etc.”. Cosa si deve fare allora? Il prof. Ichino parla chiaro: “La legge prevede espressamente il licenziamento del dirigente pubblico nel caso di grave difetto nel raggiungimento degli obiettivi di efficienza del comparto che gli è affidato. E’ da lì che occorre incominciare.
LA BUONA POLITICA
Dunque, abbiamo considerato come importanti il recupero del ruolo etico del sindacato e della responsabilità dei dirigenti; ma serve anche la “buona politica”. Al proposito il prof. Michele Salvati – considerando “sacrosante le cose predicate da Ichino”, dichiara ( e con questo conclu-diamo): “Bisogna creare un meccanismo a livello dirigenziale per cui i fannulloni non possano esi-stere: questo è largamente responsabilità dell’alta dirigenza, dei sindacati del pubblico impiego, e anche e soprattutto della politica. Se in Sicilia assumono autisti che non hanno la patente, solo per premiare gli amici degli amici, è ovvio che questi diventano fannulloni, ma è colpa della politica. Le aziende che funzionano sono quelle in cui il capo ci guarda dentro, in cui il suo obiettivo è che i clienti siano soddisfatti dai suoi dipendenti. Se la politica invece pensa: chissenefrega se i cittadini sono ben serviti, perché tanto i voti li ottengo in altro modo, allora le cose non vanno, diventa la fabbrica dei fannulloni. Ma sono gli stessi cittadini che dovrebbero punire queste pubbliche ammi-nistrazioni alle elezioni, giudicando il loro operato concreto, invece di farsi irretire dagli slogan generici della politica”.

Il libro
Pietro Ichino, “I NULLAFACENTI - Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica”, Mondadori, Milano, 2006, pg. 135

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