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Montaigne, maestro e fratello - 20 dicembre 2016

Ricordi di un estate con Montaigne
LA MODERNA LEZIONE DEL CAMPIONE DI SCETTICISMO
(della dotta ignoranza, della morte, delle religioni, del vivere senza fretta)
-di Nicola Zoller*
giornale “TRENTINO” – martedì 20 dicembre 2016, p.1-12

“Un’estate con Montaigne” è un libro di Antoine Compagnon che commenta «quaranta brevi passi» dei “Saggi ” di Michel de Montaigne (1533 - 1592) trasmessi da una radio francese in una trascorsa estate e da lì trasferiti in una pubblicazione di grande successo, poi edita in Italia da Adelphi. Una lettura a cui non ho potuto rinunciare neanch'io e sempre d’estate naturalmente, nel corrente 2016: si tratta infatti di un «incantevole vademecum» al pensiero del grande filosofo, scrittore e politico francese ad opera di un illustre professore del Collège de France come Compagnon. Ne avrei tratto ora una nota che qui propongo.
Commentare in maniera concisa alcune delle annotazioni di quest’ultimo - ripercorrerne insomma a modo nostro le parole – non ci deve imbarazzare: è stato lo stesso Montaigne a spalancarci questa via, che sarà poi percorsa da un’infinità di intellettuali, senza problemi nell’affermare che quello che loro pensavano era già stato stampato da altri. L’autorevole Montaigne - che invece beffardamente racconterà di nascondere le proprie fonti («l’autore, il luogo, le parole e le altre contingenze li dimentico all’istante») – dichiarerà esplicitamente: «Il mio giudizio ha tratto profitto solamente dai ragionamenti e dalle idee di cui si è impregnato». E per ben impregnarsi aveva avuto fortuna Michel Eyquem de Montaigne, discendente di ricchi mercanti, con un’immensa biblioteca a sua disposizione! La sua grandezza deriva dai giudizi sintetici che sa proporci da tante sconfinate letture: e lo fa con una levità sconcertante, rimandandoci sempre all’arte del dubbio, nella convinzione che ogni sapere è fragile: lui, che «ha attraversato tutti i saperi e si è reso conto che erano solo parziali», può ben affermare che non c’è niente di peggio al mondo di coloro che credono di sapere. E fa l’elogio di Socrate «che sa di non sapere», per poi ricostruire sulla «dotta ignoranza» la sua visione scettica, la sua propensione e l’invito a non prenderci troppo sul serio.
Irride anche la morte e il supremo dubbio sul dovere di pensare a quella fatalità: tanti intellettuali - osserva - a differenza del volgo pensano spesso alla morte per «spogliare questo nemico della sua stranezza». Ma poi gli sovviene un dubbio: «Come si vive meglio? Pensando sempre alla morte, come vorrebbero Cicerone e gli stoici, oppure pensandoci il meno possibile come Socrate e i contadini?». Montaigne è titubante, ma poi conclude parteggiando per chi non ci pensa molto: «Vorrei che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare cavoli».
Moderno campione di problematica e sapiente incredulità, si professerà cattolico osservante per dichiarare subito dopo di essere pronto a cambiare idea, su tutto, e dunque anche sulla fede. Siamo cristiani perché «ci siamo trovati a nascere in un paese dov’era in uso tale religione, e così rispettiamo la sua antichità, o l’autorità degli uomini che l’hanno tenuta in vita». Ma subito dopo si chiede: «Che verità è mai quella che non va oltre queste montagne ed è menzogna per quelli che vivono dell’altra parte?». E conclude in modo eversivo: «Si è cristiani come si è perigordini [della regione francese del Périgord] o tedeschi» con tanti saluti per la verità e l’universalità della Chiesa cattolica. Nondimeno, le conclusioni di tali pensieri ribelli si risolvono in un sarcastico conservatorismo: se tutto è relativo, se i nostri convincimenti dipendono dal luogo in cui si nasce e dalle tradizioni lì operanti, «tanto vale attenersi ad esse, né migliori né peggiori di altre: è regola delle regole e legge generale delle leggi che ognuno osservi quelle del luogo in cui si trova».
È il caso che governa le nostre vite e che ci fa nascere francesi piuttosto che cinesi, cristiani piuttosto che buddisti: osserviamo dunque le regole passateci dal caso, «astenendoci però dall’attribuire loro valore universale, certezza assoluta» raccomanda in sintesi Montaigne come ci ricorda lo storico Massimo Firpo.
A queste conclusioni - insieme miti e sferzanti - attingeranno tanti liberi pensatori nel corso del tempo, e quanto sarebbero utili e benefiche anche oggi se fossero praticate e predicate dagli invece eccitati cultori di vecchi e nuovi integralismi. Montaigne dunque ci insegna a non essere esagitati, nella vita pubblica e privata: prendiamoci il tempo per vivere, seguiamo la natura, godiamo del momento presente, non acceleriamo se non c’è motivo. Festine lente, ovvero affrettati lentamente. Scrive icasticamente Montaigne nella ''irriverentissima chiusa'' dei suoi Saggi: «Se il maestro di Esopo pisciava camminando, dovremo allora cacare correndo?». E conclude: «Cerchiamo di amministrare bene il nostro tempo, ce ne resta molto di ozioso e male impiegato».
Il miglior tempo Montaigne lo trova nella lettura e nella scrittura, attività che svolgeva senza l’irruenza del cacciatore che ama solo la cattura; queste caccie spirituali verranno godute mano a mano, con soddisfazioni accumulate durante il cammino: importante è condurle con speranza e desiderio, altrimenti non c’è vita, «il nostro andare perde completamente d’interesse». Adieu Monsieur de Montaigne, nostro maestro, nostro fratello.
*collaboratore di “Mondoperaio”, storica rivista fondata da Pietro Nenni



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