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Mani pulite: Venticinque anni dopo- febbraio '17

Mani pulite: Venti (cinque) anni dopo
-Nicola Zoller (rivista MONDOPERAIO, n.2/2017)

Alexandre Dumas si prese vent’anni per riproporre l’epopea dei tre moschettieri. Piercamillo Davigo ed Antonio Di Pietro, invece, hanno aspettato un quarto di secolo per riproporre la loro, cominciata il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa. Stando alle cronache, per loro il successo di pubblico («…tolti gli 8 relatori e 11 giornalisti, c’erano appena 32 persone nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano al convegno sull’eredità di Mani pulite 25 anni dopo» riporta la cronaca del “Corriere della Sera” dell’8 febbraio 2017) è stato molto inferiore a quello ottenuto dal grande romanziere francese. Ma visto che hanno voluto comunque celebrare un anniversario, può essere utile non la-sciarne inaudita altera parte la celebrazione.
Riferisce lo scrittore e diplomatico Sergio Romano (1) di un paese che aveva dato «entusiastica adesione al fascismo», lasciando ad una minoranza l’onere dell’opposizione. Emblematico il caso del mondo universitario: qui, su oltre mille docenti, solo tredici in tut-ta la nazione rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Ma di fronte alla sconfitta, gli Ita-liani si sbarazzarono in un attimo del loro passato e ne misero interamente la responsabili-tà sulle spalle di un uomo, Mussolini. Inconsolabile ma scanzonato, Sergio Romano così conclude, riferendosi - mutatis mutandis - a tempi successivi: «Intravedo all’orizzonte un’altra menzogna: gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qual-che centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cede-ranno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo da questo pec-cato. E dopo, temo, avranno un’altra ragione per disprezzarsi».
Non diversamente lo storico Ernesto Galli della Loggia in piena campagna giudizia-ria 'Mani pulite' aveva scritto sul “Corriere della Sera” del 22 aprile 1993: «La seconda Re-pubblica sta nascendo su una bugia: come del resto su una bugia consimile nacque a suo tempo la prima Repubblica. Allora la bugia fu la supposta rivolta – morale prima, armata poi – di tutto il popolo contro il fascismo, la 'rivoluzione antifascista'. Oggi la nuova bugia parla anch’essa di rivoluzione – non più antifascista ma antiburocratica – che sarebbe in at-to e che vedrebbe protagonisti gli italiani per così dire rigenerati, fatti moralmente nuovi. Ma come si può credere ad una qualunque nuova sostanza morale di massa dietro la cosid-detta rivoluzione italiana, quando non risulta che siano mutati di un ette i comportamenti 'morali' e 'immorali' di massa degli italiani?».
È il giovane storico Andrea Spiri (2) a ricordarci quest’ultime valutazioni, ma ancora più disarmante è il suo rimando ad una riflessione del grande filosofo Norberto Bobbio su “la Stampa” del 20 gennaio 1993: «La prima Repubblica è proprio finita. Non lo dico, co-me la maggior parte degli italiani, con un sospiro di sollievo o addirittura con aria di trion-fo. Lo dico con un senso di amarezza, non perché creda che non meriti di fare la fine inglo-riosa che ha fatto o sta facendo, ma perché una conclusione così miseranda è l’espressione del fallimento di tutta intera la nazione, e non solo della classe politica che è ormai conti-nuamente e rabbiosamente messa sotto accusa da parte di coloro che per anni l’hanno so-stenuta e le hanno offerto il consenso necessario per governare. Come paese democratico, come Stato di liberi cittadini, abbiamo fatto, bisogna riconoscerlo, una pessima prova».
Ma poi nel corso di oltre un ventennio, dov’è finita tutta la «gente», tutta la cosid-detta «società civile» con la pretesa - ironizza Spiri - di essere così «antropologicamente differente» dai politici detronizzati? È passata di mano in mano da un demagogo populista all’altro, scoprendo volta a volta – dai leghisti pretenziosamente senza macchia, ai neofa-scisti ribaldi rifatti, dal tycoon Berlusconi agli ex-comunisti affaccendati in banche e assicu-razioni, dai giustizialisti retini a quelli dei girotondi fino ai cangianti grillini – che si mette-va in mani sempre peggiori.
D’altro canto è la storia che ce lo insegna, ma quanti conoscono la storia, e se an-che la conoscono, quanti la meditano? Vale comunque sempre la pena di riandare ad un’opera scritta dal sociologo Francesca Alberoni proprio nel bel mezzo dell’operazione 'Tangentopoli'. In Valori (3) il professore Alberoni rammenta che per la maggior parte del-la gente la morale non significa virtù, bontà, valore, elevazione. Significa sdegno, condan-na peccato, rimprovero, punizione. Ecco, li vedete tutti costoro sfilare nel corso della sto-ria cupi, accigliati, collerici, intransigenti che urlano, che accusano, che chiedono giustizia, che esigono punizioni esemplari per i malvagi, per gli iniqui, per i corrotti! Ciascuno pren-de un sasso per lapidare l’adultera, ciascuno si getta sul reo per linciarlo. Così si tagliano le mani ai ladri, si torturano, si martoriano, si crocifiggono i criminali, si bruciano gli eretici, si spezzano le ossa e si squartano i banditi. Quanta giustizia è stata fatta in questo modo! La storia è stata un succedersi ininterrotto di atti di giustizia. Così nel passato e così in epoca recente nella lotta politica, dichiara Alberoni. Perché tutti vivono il loro avversario come un essere repellente, crudele, spietato. Mentre vivono se stessi come virtuosi e giu-sti, costretti a difendersi. La lotta politica è praticamente tutta combattuta con accuse di immoralità. Ma perché confondere la morale con la lotta politica? E’ incredibile - aggiunge Alberoni - che la gente non capisca, non voglia capire che quando in un movimento, in un partito politico, il capo, il demagogo urla: «Facciamo giustizia», di solito non ha nemmeno lontanamente in mente la giustizia morale. Il suo vero scopo è minare la legittimità di chi è al potere per rovesciarlo e prendere il suo posto. La calunnia, la diffamazione, il linciaggio morale, sono stati e sono strumenti abituali di conquista del potere. In tale logica, la mo-rale come «giudizio di condanna» è rivolta all’esterno, agli altri. Tende ad ignorare noi stessi, la nostra immoralità. Per questo essa vede sempre il male degli altri, e non vede il proprio. Perché in realtà non è un sentimento morale, ma una manifestazione dell’aggressività individuale e collettiva, personale e politica.
Sembra il sermone di un gentile filantropo: ma è la storia che scandisce gli esempi sempre ricorrenti. Al proposito il politologo Angelo Panebianco, commentando il 7 ottobre 2016 sul “Corriere della Sera” il libro di Paolo Mieli In guerra con il passato. Le falsificazio-ni della storia (4), scrive: «Non si è mai estinto il vizio di mettere in piedi processi per cor-ruzione o sottrazione di denaro pubblico contro gli avversari politici». Cita un caso antico ma efficacemente emblematico: «Il processo contro Verre, ex propretore il Sicilia, che die-de tanto lustro al suo inflessibile accusatore Marco Tullio Cicerone, non sarebbe stato im-bastito se Verre non fosse stato legato alla fazione politica perdente, quella di Silla». E conclude in maniera che sarà considerata dissacrante dai moralisti mendaci che hanno in-festato la vita pubblica tra fine ‘900 e inizio secolo: «Nelle cronache degli ultimi decenni, qui in Italia, anche se non solo, possiamo trovare diversi casi che hanno affinità con quella vicenda storica». Dall’antichità all’età contemporanea è detto parecchio in poche parole, svelando un meccanismo che regola spesso la contesa pubblica.
All’inizio del 2016 Mattia Feltri ha scritto un libro di memorie sul Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite (5) con questo incipit: «Quella che sembrava un’epoca di catarsi e rinascita si è rivelata un periodo cupo, meschino, di furori e di paure, di follia collettiva, in cui una cultura politica era stata spazzata via in modo dissennato». Dominata da mass-media legati a poteri economico-finanziari irresponsabili, da politici e tecnici riciclati, da esponenti di partiti e movimenti finora esclusi dall’area governativa, da arrivisti nuovisti, e soprattutto da «una magistratura che si sentiva a capo di un moto rivoluzionario», l’Italia è precipitata in un arido ventennio privo di speranze esaudite.
Terribile il bilancio - annotiamo noi - a partire dalla pretesa moralizzazione, risoltasi in effetti opposti: il giurista Michele Ainis pochi anni orsono ha ricordato che «all’alba degli anni ’90 la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori – situava l’Italia al 33° posto nel mondo; ora siamo precipitati alla 69.a posizione». D’altronde cosa poteva esser successo fino ai primi anni ’90 in una situazione come quella italiana, che se appariva per alcuni versi problematica non era radicalmente dissimile dagli altri paesi progrediti d’Europa? Carla Collicelli, vicedirettore del Censis - rispondendo a Marco Travaglio e a Gian Carlo Caselli - ebbe a dichiarare, sulla scorta del fatto che il reddito nazionale era cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 collocando l’Italia fra i paesi a più elevato tenore di vita nel mondo, esattamente quanto segue: «Il periodo fino al 1992 indicato come più corrotto è anche quello nel quale l’Italia è cresciuta di più. Ora, siccome è senz’altro vero che è la corruzione a bloccare lo sviluppo nei paesi poveri, l’Italia non doveva essere poi così corrotta». Un in-vito alla riflessione, che avrebbe dovuto portare ad affrontare con una condivisa soluzione politica il problema sempre più emergente del finanziamento della politica, un problema anch’esso non solo italiano ma europeo. Ma mentre in Europa si seguì la strada del con-fronto politico, in Italia si preferì la via giudiziaria.
Al dunque, per un complesso di coincidenze interne e internazionali, le cifre e le considerazioni sopra descritte vennero ignorate e nei primi anni ’90 si saldarono interessi variegati volti a travolgere la vita democratica nazionale. Il capitalismo italiano e i poteri forti economico-finanziari internazionali, dopo la caduta del muro di Berlino si sentirono autorizzati a liberarsi dalla direzione di una politica democratica autorevole, che nel passa-to aveva difeso la libertà, ponendo anche delle regole per la crescita sociale di tutti: gran parte dei mezzi mediatici-giornalistici vennero diretti e coinvolti nell’opera di rimescola-mento delle vita politica nazionale. Quest’opera trovò un alleato potente e determinante nella magistratura, che intravide la possibilità di una riaffermazione del proprio ruolo, an-che al di sopra del quadro costituzionale: una ricerca curata dal giornalista de “L’Espresso”, Stefano Livadiotti e pubblicata da Bompiani nel 2009 con il titolo Magistrati, l’ultracasta (6) descrive le ambizioni incredibili di questo mondo, che aveva mal sopportato l’iniziativa referendaria promossa dai radicali e dai socialisti con il referendum sulla responsabilità ci-vile dei magistrati poi approvato - sull’onda del caso Tortora - dalla grande maggioranza degli italiani. Questi due poli, quello mediatico/finanziario - di cui inizialmente furono parte molto attiva le reti berlusconiane - e quello giudiziario, trovarono poi nella manovalanza politica disponibile degli utili interlocutori: dal ribellismo leghista al massimalismo giusti-zialista, fino al revanscismo fascio/comunista plasticamente rappresentato dalle comuni operazioni di piazza inscenate contro il capro espiatorio designato.
Per tornare al lavoro di Mattia Feltri, tra il 1991 e il 1994 il dado era tratto, spe-cialmente per la magistratura che si mosse sulla base di calcoli politici, come ai tempi di Verre/Cicerone. Annusò nell’aria le difficoltà della coalizione di centro-sinistra al governo, allora guidata da Craxi, Andreotti e Forlani, definita sbrigativamente CAF: prima con il re-ferendum sulla preferenza unica del 1991, vinto dai referendari nonostante la richiesta di disimpegno dal voto delle forze governative, poi con le elezioni dell’aprile 1992 che segna-rono una flessione, pur non drammatica, del quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI. Qualche anno dopo, nel 1998 il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio - il quale, a testi-monianza palmare della politicizzazione di quella magistratura, sarà poi eletto parlamenta-re nelle liste dei DS, Democratici di Sinistra, come peraltro il collega Di Pietro lo era stato del PDS su designazione del leader ex-comunista Massimo D’Alema - dichiarerà spavalda-mente : «Quando dopo le elezioni del 1992 capimmo che quel quadripartito non avrebbe raggiunto la maggioranza in Parlamento, intuimmo che era il momento di dare un’accelerazione all’inchiesta». Accelerarono dunque, tra arresti quotidiani e suicidi degli indagati, per giungere ai capi, ai Forlani e ai Craxi ora in difficoltà (Verre docet). Eppure il quadripartito nel 1992 aveva ottenuto la maggioranza dei seggi in Parlamento grazie a 19 milioni di voti, che consentirono - pur col sistema proporzionale ma col trascinamento del-la notevole massa elettorale - di superare il 50% dei rappresentanti: come ha ricordato spesso l’on. Ugo Intini, nel ventennio successivo mai nessuna coalizione vincente avrebbe ottenuto un risultato in voti popolari così elevato! Eppure allora - nonostante i 331 seggi al Camera dei Deputati su 630 componenti e 167 al Senato su 315 che poi portarono alla fiducia per il Governo Amato con complessivi 503 voti favorevoli contro 422 tra contrari e astenuti - una vasta campagna mediatica dichiarò delegittimato quel Parlamento e la famo-sa «accelerazione» delle inchieste fece il resto. Ecco perché di fronte a quei numeri eletto-rali e parlamentari, più di un commentatore ha potuto definire «golpe mediatico-giudiziario» quel complesso di eventi che portarono traumaticamente alla fine della prima Repubblica. Sul punto si veda anche l’agghiacciante resoconto di Daniel Soulez Larivière Il circo mediatico-giudiziario, (7), tanto che, anni dopo, un prestigioso studioso progressista come Michele Salvati ebbe a definire «un fatto unico in Europa» la scomparsa dei partiti democratici di governo, «un’esito che solitamente si associa a traumi ben più gravi, a guer-re e rivoluzioni» (8). Molti presunti inflessibili difensori della Costituzione repubblicana - che ancor oggi si atteggiano in tale veste - assistettero senza fiatare, anzi in molti casi as-secondarono, l’eliminazione delle forze politiche repubblicane che avevano provato a por-tare l’Italia sulla strada della libertà e della crescita sociale: i tratti dell’operazione furono sbrigativi e maneschi, a partire dall’uso della carcerazione preventiva a scopo confessorio, dimentichi del richiamo antico dell’illuminista Pietro Verri: “carcerari idest torqueri”, carce-rare è uguale a mettere sotto tortura, altro che mani pulite.
I leader democratici più emblematici della prima Repubblica vennero condannati e sistematicamente criminalizzati. Ci si accanì soprattutto con Bettino Craxi, rifugiatosi all’estero in Tunisia, come nella storia dovettero fare tanti altri 'fuoriusciti' di fronte alla spietatezza degli avversari: a chi non visse quella temperie vale rammentare anche l’implacabile apostrofe del candidato sindaco di Roma Francesco Rutelli che il 2 dicembre 1993, respingendo l’appoggio socialista che Craxi gli aveva pur offerto per la competizione contro l’ex-neofascista Gianfranco Fini, replicò sprezzante: «Voglio vedere Craxi consuma-re il rancio nelle patrie galere»! Quando il danno irreparabile alla persona e a quello che rappresentava era stato ormai fatto, proverà lo stesso citato magistrato D’Ambrosio a metterci una pezza, in un’intervista a “Il Foglio” del 22 febbraio 1996 dichiarando che «la molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica». Parole che dovevano es-ser dette prima, non dopo l’annientamento. Alla turba e ai nuovi capipopolo, convenne considerarlo - testualmente - un «criminale matricolato», dedito agli affari personali e ad una vita dorata: solo nel rovesciamento di regimi dispotici corrono frasari del genere, in-concepibili per una personalità democratica come Craxi, uno dei premier repubblicani più affermati, oltre che autorevole vicepresidente dell’Internazionale Socialista. Morirà espa-triato in Tunisia, in semplicità, fuori dagli agi e dagli ori immaginati dagli avversari. La sua sorte griderebbe ancora vendetta se un numero sempre maggiore di osservatori democra-tici non si fosse sempre più interrogato sulla «pessima prova» data dagli italiani nei primi anni ’90, secondo le accorate osservazioni di Norberto Bobbio. Porre rimedio a quella in-fausta «prova», cercare di non ripeterla, resta il compito di una politica mite e democrati-ca. Del resto qui abbiamo parlato di una storia, ma non come fosse un 'amarcord' inerte: no, nel segno di Benedetto Croce, sappiamo che la storia è sempre storia contemporanea e serve – come ribadisce il professore Panebianco - «a cercare lumi nel passato per com-prendere cosa sia meglio fare nel presente»

1 S. ROMANO, Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, 1995.
2 A. SPIRI, L’esilio del moderno principe, in “Mondoperaio”, n.6/7 2016.
3 F. ALBERONI, Valori, Rizzoli, 1993.
4 P. MIELI, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Rizzoli, 2016.
5 M. FELTRI, Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite, Marsilio, 2016.
6 S. LIVADIOTTI, Magistrati, l’ultracasta, Bompiani, 2009.
7 D. SOULEZ LARIVIERE, Il circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, 1994.
8 M. SALVATI, Tre pezzi facili sull’Italia, il Mulino, 2011



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