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La democrazia di Sartori
5 aprile 2017

La lezione di Sartori: l’unica democrazia è quella liberale. Attenzione a chi vanta una superiorità morale rispetto agli altri!

-di Nicola Zoller*

http://www.avantionline.it/2017/04/la-lezione-di-sartori-lunica-democrazia-e-quella-liberale/#.WOXn7OlMSP8




“La democrazia in trenta lezioni” è un libro scritto per la scuola dal prof. Giovanni Sartori, dal quale possiamo ricavare semplice e utili avvertimenti per la nostra vita collettiva, tutti di vibrante attualità. E’ con un commento a questo libro che proviamo a ricordare lo studioso appena scomparso.


Cos’è la democrazia e quali sono i pericoli che incontra? Innanzitutto è demoprotezione, “protezione del popolo dalla tirannide”; solo in secondo luogo è demopotere, “attribuzione al popolo di quote di effettivo potere”. Per diffondersi nel mondo in modo non contradditorio, la democrazia deve primariamente essere demoprotezione, badare quindi alle “strutture costituzionali”, essere “liberaldemocrazia”. Non deve cioè trasformarsi in “tirannide della maggioranza” sulla minoranza, in un sistema dove la democrazia “è necessariamente un dispotismo”, come ha osservato il padre dell’Illuminismo Immanel Kant. Il diritto della maggioranza a governare deve inserirsi in “un sistema costituzionale che lo disciplina e lo controlla”: dunque, la maggioranza deve esercitare il potere non in forma assoluta – come avveniva nelle democrazie delle polis antiche – ma in modo limitato e moderato. Facciamo un esempio chiaro: non può imporre la propria religione o le proprie credenze agli altri.


Demoprotezione vuol dire quindi garantire il pluralismo, che significa tolleranza, un principio basato su tre criteri. “Primo: rifiuto di ogni dogma e di ogni verità unica. Io devo sempre argomentare, dare ragioni per sostenere quel che sostengo. Secondo: rispetto del cosiddetto harm principle: Harm vuol dire ‘farmi male’, ‘farmi danno’. Il principio è allora che la tolleranza non comporta e non deve accettare che un altro mi danneggi. E viceversa, s’intende. Terzo: il criterio della reciprocità. Se io concedo a te, tu devi concedere a me: do ut des. Se non c’è reciprocità, allora il rapporto non è di tolleranza”. Col rifiuto di ogni potere monocratico e uniformante, il pluralismo difende il dissenso e così facendo lo rende meno dirompente, “lo civilizza, lo modera, lo trasforma in un lievito benefico o anche in una discordia che si trasforma, alla fine, in accordo e concordia: punta su una diversità che produce integrazione, non disintegrazione”. Il multiculturalismo invece promuove la separazione, “l’identità separata” di ogni gruppo, anziché la “diversità integrata” come fa il pluralismo. “Il risultato – conclude Sartori – è una società a compartimenti stagni e anche ostili, i cui gruppi sono molto identificati in se stessi, e quindi non hanno né desiderio né capacità di integrazione: il multiculturalismo non supera il pluralismo, lo distrugge”: ciò comporta un grave pericolo per la democrazia.


Un altro pericolo è che – in tempi di videocrazia – l’opinione pubblica venga distorta. Siccome in democrazia i risultati elettorali esprimono l’opinione pubblica, bisognerebbe che le elezioni per essere libere siano il risultato di opinioni effettivamente libere, cioè “liberamente formate”: se le opinioni sono imposte, le elezioni non possono essere libere. Il che significa che “le opinioni nel pubblico devono essere opinioni del pubblico, opinioni che in qualche modo e misura il pubblico si fa da sé”. Ma come può formarsi un’opinione “veritieramente” del pubblico? Secondo Sartori si può tendere solo ad una opinione pubblica “relativamente autonoma”, che sarebbe già una conquista. E cita Karl Deutsch, che ha immaginato i processi di formazione di un’opinione pubblica secondo il “modello cascata”, di “una cascata d’acqua con molte vasche successive nelle quali ogni volta le opinioni che scendono dall’alto si rimescolano e ricevono nuovi e diversi apporti”. Questo resta sempre un “costrutto fragile”, che ai detrattori della partecipazione popolare fa muovere da sempre l’obiezione che comunque “il popolo non sa” o non sa abbastanza, mentre per governare – asseriva Platone – si richiede “episteme”, vero sapere. Ma quella era una obiezione che poteva preoccupare maggiormente nella antica democrazia delle polis greche, dove era il popolo assiso in assemblea a decidere direttamente.


Ora – continua il ragionamento di Sartori – nella nostra democrazia elettiva, dove il demos si limita ad eleggere i propri rappresentanti, il problema è minore: qui - anche se l’opinione pubblica non è completamente autonoma, anche se è vero che il pubblico può essere disinformato e “non sapere granché di politica” - con le elezioni non si decidono le questioni ma si “decide chi deciderà le questioni: la patata bollente passa così dall’elettorato agli eletti, dal demos ai suoi rappresentanti”. Ma quest’ultimi – chiediamo – possederanno mai l’episteme, il vero sapere, oppure come pensava Platone dovremmo affidarci al “filosofo-re”, ai sapienti, ai competenti, ai tecnici in generale? E’ appunto una vecchia questione, che anticamente veniva scagliata contro il popolo e la democrazia “diretta” ed oggi contro quella “rappresentativa”. Però a quest’ultima - ci par di capire - secondo Sartori non ci sono valide alternative. Non possiamo accogliere “filosofi-re” senza che siano eletti. Ma non si può precipitare neanche nell’opposto, nell’ “infantilismo” di chi critica la democrazia rappresentativa perché “poco partecipata”, perché il cittadino dovrebbe “decidere in proprio le questioni, invece di affidarsi ai rappresentanti”: chiunque può comprendere che nelle democrazie moderne – che non sono antiche città-stato con poche migliaia di abitanti – non può essere praticabile una democrazia governante diretta. D’altronde – ad avviso di Sartori – diventa anche pericoloso – oltre che impraticabile – proporre la figura di un cittadino-militante “che vive per servire la democrazia, in luogo della democrazia che esiste per servire il cittadino”. E’ questo un perfezionismo che critica la democrazia rappresentativa in modo irresponsabile e immeritato: crea “una promessa troppo irraggiungibile per poter essere mantenuta”. Il pericolo sta nel finire per ripudiare “la democrazia che c’è” - quella rappresentativa - reclamando la “vera democrazia” che non c’è. E sovente chi la reclama altri non è che espressione di una élite che irretisce masse inermi e credule denunciando l’elitismo altrui.


Le masse irretite costituiscono un “problema” per la democrazia. Succede anche per i politici chi si ritengono di sinistra, vantando una superiorità morale rispetto agli altri: “sinistra è altruismo, è fare il bene altrui mentre destra è egoismo, è attendere al proprio bene”. Ma poi succede che “chi si fa vanto di moralità, di immoralità perisca”. Masse “tradite” dai politici, ma attenzione: un grandissimo pensatore spagnolo J. Ortega y Gasset nella sua opera preveggente scritta ancora negli anni ’30 del Novecento, “La ribellione delle masse”, parla di loro come di “un bambino viziato e ingrato che riceve in eredità benefici che non merita e che, di conseguenza, non apprezza”. La democrazia trova qui il pericolo più decisivo: è l’iperdemocrazia, l’emancipazione priva di assunzione di responsabilità. Per Ortega “la massa non capisce che se ora si può godere di certi vantaggi, ciò è dovuto al progresso, che è costato tanto sforzo delle persone impegnate, mentre le masse considerano il progresso come qualcosa di naturale, che non è costato alcun sforzo”. Così vengono meno le discussioni, i conseguenti creativi dissensi che non piacciono all’uomo-massa. Abbiamo un uomo “infiacchito”, “invertebrato” che si aspetta tutto dall’alto. Così rischia di cadere la democrazia, la democrazia liberale, l’unica democrazia “che c’è”.






Nicola Zoller*, collaboratore di “Mondoperaio”, storica rivista fondata da Pietro Nenni



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