<< indietro


Ricerca-Dalla pessima prova del '93 alla rinascita

COME UN PAESE PUÒ TORNARE INDIETRO DI MEZZO SECOLO E COME PUÒ RINASCERE

Presento una recente ricerca, nella quale si racconta come un paese può tornare indietro di mezzo secolo e si auspica di non rifare la “pessima prova” del recente passato: per poter fare meglio nel presente e perché la sinistra possa rinascere. Nicola Zoller

LA CADUTA DI TANGENTOPOLI (1993): COME UN PAESE PUÒ TORNARE INDIETRO DI MEZZO SECOLO

Premessa: Sollecitato dalle inusitate dichiarazioni di competenti commentatori in occasione delle elezioni politiche 2018, ho steso più speditamente questa concisa ricerca su “Tangentopoli”, costruita seguendo la traccia del libro di Mattia Feltri “Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite”. Letto appena pubblicato, ho ripreso in mano quel testo dopo che Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” del 7 febbraio 2018 ha scritto di considerare “la madre di tutte le fake news la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo” diffusa appunto nel “Novantatré” evocato da Feltri. Arriverà poi Pierluigi Battista a spiegare sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo 2018 che “una delle cose più stupide predicate in questi decenni è stata il disprezzo dei partiti”. Ecco, tanto è bastato per spronarmi maggiormente a scrivere questa nota, dichiarando in conclusione di aver provato a far luce - secondo il magistero degli storici – su qualche aspetto del passato “per comprendere cosa sia meglio fare nel presente”.

“NOVANTATRÉ. L’ANNO DEL TERRORE DI MANI PULITE”
Il professor Angelo Panebianco, commentando il 7 ottobre 2016 sul “Corriere della Sera” il libro di Paolo Mieli In guerra con il passato. Le falsifi-cazioni della storia (Rizzoli), scriveva: «Non si è mai estinto il vizio di mettere in piedi processi per corruzione o sottrazione di denaro pubblico contro gli avversari politici». Cita un caso antico ma efficacemente emblematico: «Il processo contro Verre, ex propretore il Sicilia, che diede tanto lustro al suo inflessibile accusatore Marco Tullio Cicerone, non sarebbe stato imbastito se Verre non fosse stato legato alla fazione politica perdente, quella di Silla». E conclude facendo meditare più d’uno che abbia partecipato alla vita pubbli-ca italiana tra fine ‘900 e inizio secolo: «Nelle cronache degli ultimi decenni, qui in Italia, anche se non solo, possiamo trovare diversi casi che hanno af-finità con quella vicenda storica». Dall’antichità all’età contemporanea è det-to parecchio in poche parole, svelando un meccanismo che regola spesso la contesa pubblica.

Queste considerazioni ci aiutano a capire meglio la caduta di Tangen-topoli (1993) - intesa come 'prima Repubblica' italiana - prendendo più di uno spunto dal libro di memorie sul Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite (Marsilio Editori), scritto da Mattia Feltri. Eccone l’incipit: «Quella che sembrava un’epoca di catarsi e rinascita si è rivelata un periodo cupo, me-schino, di furori e di paure, di follia collettiva, in cui una cultura politica era stata spazzata via in modo dissennato». Dominata da mass-media legati a poteri economico-finanziari irresponsabili, da politici e tecnici riciclati, da esponenti di partiti e movimenti finora esclusi dall’area governativa, da nuovi arrivisti, e soprattutto da «una magistratura che si sentiva a capo di un moto rivoluzionario», l’Italia è precipitata in un arido ventennio privo di speranze esaudite.
Esangue il bilancio - annotiamo noi - a partire dalla pretesa moralizza-zione, risoltasi in effetti opposti: il giurista Michele Ainis in un editoriale del 16 giugno 2014 ha ricordato che «all’alba degli anni ’90 la classifica di Transparency International - l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori - situava l’Italia al 33° posto nel mondo; ora siamo precipitati alla 69.a posizione» sui 180 Paesi considerati.
DAL 1950 AL 1990 L’ITALIA FRA I PAESI PIÙ SVILUPPATI NEL MON-DO
D’altronde cosa poteva esser successo fino ai primi anni ’90 in una si-tuazione come quella italiana che, se appariva per alcuni versi problematica, non era radicalmente dissimile dagli altri paesi progrediti d’Europa? Partia-mo dal conciso fatto rilevato da Carlo M. Cipolla - uno dei maggiori storici economici internazionali - riportato in un libro accessibile a tutti intitolato Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo ad oggi: «Il bilancio econo-mico del quarantennio postbellico è, in termini quantitativi, a dir poco lusin-ghiero. Certo, nulla di simile era stato - anche lontanamente - nelle speran-ze dei padri della Repubblica. Un reddito nazionale cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 colloca l’Italia fra i Paesi a più elevato tenore di vita nel mondo».
Anche sulla base di questi dati Carla Collicelli, vicedirettore del CENSIS - rispondendo a Marco Travaglio e a Gian Carlo Caselli - poteva dichiarare esattamente quanto segue: «Il periodo fino al 1992 indicato come più cor-rotto è anche quello nel quale l’Italia è cresciuta di più. Ora, siccome è senz’altro vero che è la corruzione a bloccare lo sviluppo nei paesi poveri, l’Italia non doveva essere poi così corrotta» (cfr. giornale “l’Adige” del 22 agosto 2002). Molti anni dopo, sul “Corriere della Sera” del 7 febbraio 2018, sempre l’accademico A. Panebianco, spiegherà ancor più convintamente: «Sul finire della prima Repubblica il vecchio sistema dei partiti entra in crisi. Arriva 'Mani pulite' ed è il diluvio. Il prestigio dei politici crolla ai minimi ter-mini (e non risalirà più). È allora che si diffonde quella che considero la ma-dre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo». Abbiamo visto poc’anzi che l’Italia si situava nella fascia medio-alta tra i ''Paesi migliori'', almeno fino ai primi anni ’90 dello scorso secolo.
Pure la situazione economica - come riportato - appariva positiva. An-che due competenti studiosi di Bankitalia, L. Federico Signorini e Ignazio Vi-sco, lo ribadivano nel saggio L’economia italiana (il Mulino,1997): «L’Italia è dunque una delle maggiori economie al mondo per dimensione del PIL; ha avuto anche negli ultimi venticinque anni una crescita soddisfacente rispet-to agli altri paesi industriali; ha un reddito pro capite elevato e una ricchez-za crescente». Ciò ha giovato a migliorare lo standard di vita. Nel 1993 la speranza di vita alla nascita era pari a 77,6 anni in Italia (contro i 76 di USA e Germania); in circa vent’anni la vita attesa si è allungata nel nostro Paese di quasi sei anni.
IL PROBLEMA DEL FINANZIAMENTO DELLA POLITICA
In questo quadro poteva dunque esserci più riflessione, per arrivare ad affrontare con una condivisa soluzione politica il problema sempre più emergente del finanziamento della politica, un problema anch’esso non solo italiano ma europeo. Ma mentre in Europa si seguì la strada del confronto politico, in Italia si preferì la via giudiziaria. Abbiamo citato l’Europa, ma an-drebbe almeno accennato per un’utile comparazione il caso degli Stati Uniti d’America, il più grande Paese democratico del mondo.
Qui il finanziamento della politica da parte dello Stato, dei privati e del-le aziende è immenso: secondo i dati forniti dall’istituto di ricerca indipen-dente “Center for Responsive Politics” i costi delle elezioni presidenziali del 2012 (ma potrebbero analogamente essere analizzati anche quelli del 2017, e via via di seguito) ammontarono ad oltre 6 miliardi di dollari, oltre 10.000 miliardi di vecchie lire, cifre incomparabili per la loro enormità con quelle del finanziamento regolare e irregolare della politica europea e italiana. Se pen-siamo che il finanziamento ai partiti italiani proveniente dal caso Enimont sa-rebbe ammontato a 150 miliardi di lire, abbiamo così 'fotografato' gli ambiti e i limiti della comparazione con l’America, benché quella Enimont sia stata definita addirittura «la madre di tutte le tangenti». Certamente si trattava di un finanziamento irregolare, e questo caso come tutti gli altri andava san-zionato, per trovare civilmente una via chiara e trasparente al finanziamento della politica, non per passare alla criminalizzazione dei partiti democratici.
FIACCARE LA POLITICA DEMOCRATICA AUTOREVOLE
Al dunque, per un complesso di coincidenze interne e internazionali, le cifre e le considerazioni sopra descritte vennero ignorate e nei primi anni ’90 si saldarono interessi variegati volti a travolgere la vita democratica na-zionale. Il capitalismo italiano e i poteri economico-finanziari internazionali, dopo la caduta del muro di Berlino, si sentirono autorizzati a liberarsi dalla direzione di una politica democratica autorevole, che nel passato aveva di-feso la libertà, ponendo anche delle regole per la crescita sociale di tutti: gran parte dei mezzi mediatico-giornalistici vennero così diretti e coinvolti nell’opera di rimescolamento delle vita politica nazionale.
Lo spiega fin troppo perentoriamente l’ex-condirettore de “l’Unità” Pie-ro Sansonetti in un’intervista a “Il Foglio” del 10 febbraio 2010 intitolata Cra-xi e la sera della politica: «L’inchiesta di 'Mani pulite' è stata utilizzata dall’economia per liberarsi della politica. Quando l’inchiesta si conclude, la politica è distrutta, rasa al suolo… mentre l’economia ottiene la subordina-zione della politica, la sconfitta dei sindacati, la fine dei contrappesi, l’aumento dei profitti, il controllo sociale. La svolta liberista in Italia si con-cretizza con 'Mani pulite' e con la sconfitta dell’autonomia della politica».
Il giudizio di Sansonetti - che viene pure riportato, assieme a quello di altri commentatori e pensatori nel saggio di Roberto Chiarini La memoria maledetta di Bettino Craxi (Casa editrice Le Lettere) - risulta ancor più signi-ficativo perché spiega a tanti ignavi compagni, seguaci del verbo giustiziali-sta, che la questione morale è stata utilizzata «non per mettere un freno all’invadenza della politica, ma per delegittimarla e privarla della sua funzio-ne». Altro che «normale operazione di pulizia»! La nuova antipolitica - come sopra richiamato - nasce da qui e non ci abbandonerà più.
LA DISTRUZIONE DEI PARTITI E IL RUOLO DELLA MAGISTRATURA
Come corollario seguirà la distruzione dei partiti. In un racconto po-stumo, il giornalista e scrittore Pierluigi Battista spiegherà: «Una delle cose più stupide predicate in questi decenni è stata il disprezzo dei partiti. I par-titi erano quel che erano… ma le sezioni dei partiti erano cose serie, lì ci si riuniva, si andava la sera, dopo il lavoro, si discuteva, ci si confrontava, si litigava. La sezione di partito era un corpo intermedio pieno di vita, un pun-to di riferimento, un luogo caro a cui appartenere» (“Corriere della Sera”, 8 marzo 2018). Poi tutto svanirà, avremo la solitudine di massa, una «folla so-litaria» come la definì il sociologo David Riesman. Tutto risulterà «disinter-mediato», senza corpi intermedi tra l’elettore e le istituzioni, tra il popolo e chi decide, insomma sedi reali di confronto per il cittadino. Sulla politica dominerà il mezzo televisivo, i dibattiti - col popolo solo ascoltante e guar-dante - si svolgeranno nei talk show; per quella folla solitaria resterà Inter-net «a collegare gli scontenti, ad alimentarli, a rinfocolarli» aggiunge Aldo Cazzullo (stesso giornale, stesso giorno).
Quest’opera trovò allora un alleato potente e determinante nella magi-stratura, che intravide la possibilità di una riaffermazione del proprio ruolo, anche al di sopra del quadro costituzionale: una ricerca curata dal giornali-sta de “L’Espresso”, Stefano Livadiotti e pubblicata da Bompiani nel 2009 con il titolo Magistrati, l’ultracasta descrive le ambizioni eccessive di questo mondo, che aveva mal sopportato l’iniziativa promossa dai radicali e dai so-cialisti con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati poi appro-vato - sull’onda del caso Tortora - dalla grande maggioranza degli italiani. Questi due poli, quello mediatico/finanziario - di cui inizialmente furono par-te molto attiva le reti berlusconiane - e quello giudiziario, trovarono poi nella manodopera politica disponibile degli utili interlocutori: dal ribellismo leghi-sta al massimalismo giustizialista, fino al revanscismo fascio/comunista pla-sticamente rappresentato dalle comuni operazioni di piazza contro il capro espiatorio designato, tra cui spicca il lancio di monetine contro Bettino Craxi il 30 aprile 1993, definito da parte della stampa «l'episodio simbolo di Mani Pulite» in cui «il leader del Psi viene affrontato da una folla inferocita che urlava 'Ladro'».
Successivamente l’ambasciatore e storico Sergio Romano, intraveden-do l’imporsi sempre più marcato di una menzogna, con tratto inconsolabile ma realistico scrisse in un saggio del 1995 intitolato meditatamente Finis Italiae: «Gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cederanno probabilmente alla tentazione di credervi per as-solversi in tal modo da questo peccato. E dopo, temo, avranno un’altra ra-gione per disprezzarsi».
COME AI TEMPI DI CICERONE
Per tornare al lavoro di Mattia Feltri, tra il 1991 e il 1994 il dado era tratto, specialmente per la magistratura che si mosse sulla base di calcoli politici, come ai tempi di Verre/Cicerone. Annusò nell’aria le difficoltà della coalizione di centro-sinistra al governo, allora guidata da Craxi, Andreotti e Forlani, definita sbrigativamente CAF: prima con il referendum sulla prefe-renza unica del 1991, vinto dai referendari nonostante la richiesta di disim-pegno dal voto delle forze governative, poi con le elezioni dell’aprile 1992 che segnarono una flessione, pur non drammatica, del quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI.
Qualche anno dopo, nel 1998 il procuratore aggiunto di Milano Gerar-do D’Ambrosio - il quale, a testimonianza palmare della politicizzazione di quella magistratura, sarà poi eletto parlamentare nelle liste dei Democratici di Sinistra, come peraltro il collega e animatore di 'Mani pulite' Antonio Di Pietro lo era stato del PDS nel 1987 su designazione del leader ex-comunista Massimo D’Alema - dichiarerà spavaldamente: «Quando dopo le elezioni del 1992 capimmo che quel quadripartito non avrebbe raggiunto la maggioranza in Parlamento, intuimmo che era il momento di dare un’accelerazione all’inchiesta».
Accelerarono dunque, tra arresti quotidiani e suicidi degli indagati, per giungere ai capi, ai Forlani e ai Craxi ora in difficoltà (Verre docet). Eppure il quadripartito nel 1992 aveva ottenuto la maggioranza dei seggi in Parla-mento grazie a 19 milioni di voti: come ha ricordato spesso l’on. Ugo Intini, nel ventennio successivo mai nessuna coalizione vincente avrebbe ottenuto un risultato in voti popolari così elevato! Eppure allora - nonostante i 331 seggi al Camera dei Deputati su 630 componenti e 167 al Senato su 315 che poi portarono alla fiducia per il Governo Amato con complessivi 503 voti fa-vorevoli contro 422 tra contrari e astenuti - una vasta campagna mediatica dichiarò delegittimato quel Parlamento e la famosa «accelerazione» delle in-chieste fece il resto.
IL FUNESTO CIRCO MEDIATICO-GIUDIZIARIO
Ecco perché di fronte a quei numeri elettorali e parlamentari, più di un commentatore ha potuto definire «golpe mediatico-giudiziario» quel com-plesso di eventi che portarono traumaticamente alla fine della 'prima Re-pubblica'. Sul punto si veda anche l’agghiacciante resoconto di Daniel Sou-lez Larivière Il circo mediatico-giudiziario (Liberilibri), tanto che, anni dopo, un prestigioso studioso progressista come Michele Salvati nel suo saggio Tre pezzi facili sull’Italia (il Mulino) - ebbe a definire «un fatto unico in Euro-pa» la scomparsa dei partiti democratici di governo, «un esito che solita-mente si associa a traumi ben più gravi, a guerre e rivoluzioni».
Molti presunti inflessibili difensori della Costituzione repubblicana assi-stettero senza fiatare, anzi in molti casi assecondarono, l’eliminazione delle forze politiche repubblicane che avevano provato a portare l’Italia sulla strada della libertà e della crescita sociale: i tratti dell’operazione furono sbrigativi e maneschi, a partire dall’uso della carcerazione preventiva a sco-po confessorio, dimentichi del richiamo antico dell’illuminista Pietro Verri: «carcerari idest torqueri», carcerare è uguale a mettere sotto tortura, altro che 'mani pulite'.
PEGGIORI DI HITLER
Qualcuno potrebbe giudicare sproporzionate queste parole se non avesse visto in diretta o esaminato bene quella transizione agitata. Ma per dire del clima dissennato di quel periodo basterà ricordare quanto scritto il 3 maggio 1995 sul “Corriere della Sera” da Giuliano Zincone: egli, denuncian-do l'inquietante clima politico- giudiziario che aleggiava sul nostro Paese, ri-ferirà di una inchiesta svolta presso gli studenti universitari di Perugia. Ri-chiesti di indicare il personaggio più odioso e ripugnante di tutta la storia dell'umanità, questi figli del sonno della ragione scartavano Giuda o Nerone, Caino o Pol Pot, Erode o Stalin: al primo posto collocavano l'ineffabile An-dreotti, al secondo Craxi, il cinghialone, buon terzo nella graduatoria dei mascalzoni ecco Adolf Hitler. Ma che giovani 'studiosi' aveva partorito il ven-to fustigatore dell'operazione denominata 'Mani pulite'? Tuttavia il problema non era solo dei giovani: anche un maturo pensatore come Gianfranco Mi-glio - giurista, politologo, docente universitario, al tempo ideologo della “Le-ga Nord” - dopo esser caduto in «bestialità terrificanti» come quella di so-stenere che ''Hitler commise degli errori di stile''- lo rammenta Gian Antonio Stella sulla rivista “Sette” del 22 marzo 2018 - «mentre scoppiava Tangen-topoli arriverà a dire che ''il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più al-to della parola''».
Così i leader democratici più emblematici della prima Repubblica ven-nero trascinati nella condanna e sistematicamente criminalizzati. Ci si accanì soprattutto con Bettino Craxi, rifugiatosi all’estero in Tunisia, come nella sto-ria dovettero fare tanti altri 'fuoriusciti' di fronte alla spietatezza degli avver-sari: a chi non visse quella temperie vale rammentare - sempre grazie al resoconto di Feltri - anche l’implacabile apostrofe del candidato sindaco di Roma Francesco Rutelli che il 2 dicembre 1993, respingendo l’appoggio so-cialista che Craxi gli aveva pur offerto per la competizione contro il missino Gianfranco Fini, replicò sprezzante: «Voglio vedere Craxi consumare il ran-cio nelle patrie galere»!
«LA MOLLA DI CRAXI NON ERA L’ARRICCHIMENTO PERSONALE, MA LA POLITICA». E UNA POLITICA DI SINISTRA
Quando il danno irreparabile alla persona e a quello che rappresenta-va era stato ormai fatto, proverà lo stesso citato magistrato D’Ambrosio a metterci una pezza con un’intervista a “Il Foglio” del 22 febbraio 1996, di-chiarando che «la molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica». Parole che dovevano esser dette prima, non dopo l’annientamento. Alla turba e ai nuovi capipopolo, convenne considerarlo - testualmente - un «criminale matricolato», dedito agli affari personali e ad una vita dorata: solo nel rovesciamento di regimi dispotici corrono frasari del genere, inconcepibili per una personalità democratica come Craxi, uno dei premier repubblicani più affermati, oltre che autorevole vicepresidente dell’Internazionale Socialista.
Craxi sarà bersagliato e infamato da neofascisti, leghisti e da risentiti giustizialisti, ma con particolare scherno da sinistri forcaioli che volevano di-sfarsi di un concorrente invadente. Sarà Piero Fassino, dapprima dirigente PCI e poi dei DS e del PD, a rimettere le cose a posto, a dramma consuma-to purtroppo. Nel suo libro del 2003 Per passione” (Rizzoli) definirà Craxi «uomo profondamente di sinistra», aggiungendo in schietta autocritica che «il Pci negli anni ’80 non appare capace di affrontare il tema della moderniz-zazione dell’Italia, spingendo così ceti innovatori e produttivi verso chi, co-me Craxi, dimostra di comprenderli». Altro che criminale! E tutt’altro che uomo pronto a porsi nella mani o addirittura alla guida di una deriva di de-stra, secondo l’affermazione di taluni; un altro ex dirigente comunista come Claudio Petruccioli la considererà solo una malevola insinuazione: in una in-tervista alla rivista “Mondoperaio” del gennaio 2012 dichiarerà che «Craxi è sempre stato e soprattutto si è sempre considerato un uomo della sinistra». E anche tra i più capaci: il suo governo - asserirà un leader storico del PCI come Emanuele Macaluso in una intervista a “La Stampa” del 21 gennaio 2006 - va considerato «fra i migliori che abbia avuto l’Italia».
Irriducibile nell’avversione a Craxi resterà Eugenio Scalfari: ma cosa ci si può aspettare da un famoso giornalista che su “la Repubblica” del 9 mar-zo 2018 all’interno di un commento sui pessimi risultati delle elezioni politi-che fisserà come punto di partenza e di merito testualmente quanto segue: «La sinistra moderna [sic!] cominciò con Tangentopoli nella Procura di Mila-no nel 1992. In cinque anni - continua Scalfari - venne smontato il sistema politico». Bel risultato, potremmo dire, se sotto quelle macerie è finita la tradizionale ma partecipata vita democratica del Paese, insomma «quella Repubblica» - scrive nello stesso mese lo storico Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” del 31 marzo 2018 - «che pure aveva dato agli ita-liani gli anni forse migliori della loro vita».
I MORALISTI CON L’ORO DI MOSCA IN TASCA
Riprendiamo il filo. Mattia Feltri nel resoconto su L’anno del Terrore ri-vela la sua desolazione vedendo interi spezzoni della politica italiana incatti-virsi nel lanciare ''il calcio dell’asino al leone ferito'', accanendosi nel soffiare sul fuoco della protesta accesa dal circuito mediatico-giudiziario. Di Rutelli abbiamo già detto; degli ex-comunisti, approdati nel 1991 al PDS, è intuibile l’ostilità verso il centro-sinistra storico: da Massimo D’Alema che invoca «una epurazione del ceto politico», al segretario Achille Occhetto che prova a smarcarsi da Primo Greganti, il famoso compagno G. procacciatore di tangenti, per rimarcare la loro estraneità al sistema di finanziamento irrego-lare; poi verrà la dichiarazione dell’insospettabile magistrato 'di sinistra' Ge-rardo D’Ambrosio: «I soldi li prendevano tutti» (“la Repubblica”, 27 ottobre 1999).
È significativo il caso del PCI e degli ex-comunisti, sostanzialmente graziati dall’inchiesta 'Mani pulite'. Eppure appartenevano all’area politica che intercettò il più largo finanziamento illecito (da loro pudicamente definito 'aggiuntivo') proveniente dalla sovietica casa-madre Russia, da cooperative italiane, assicurazioni, banche, aziende. Scrive al proposito Gianni Cervetti, responsabile amministrativo del PCI durante la segreteria di Berlinguer, dunque uno dei principali collaboratori del leader che pretese di legare il proprio nome alla 'questione morale': «Non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fonti per finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il con-trario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera super-ficiale e ingenua o, viceversa, insincera e ipocrita». Lo scrive in un libro dal titolo emblematico: L’oro di Mosca (Baldini&Castoldi). La tanto propagandata 'questione morale' di Berlinguer era servita: definita in pratica o superficiale o ipocrita. Rincarerà la dose Barbara Spinelli su “La Stampa” del 26 maggio 1993, aggiungendo che il finanziamento dei comunisti russi ai partiti 'fratelli' dell’Occidente è la vera colpa morale di quest’ultimi (altro che problemi «morali» da accollare agli altri): «Quelle decine di miliardi che ogni anno af-fluivano da Mosca erano tolti a popolazioni che non vivevano una povertà bella, ma un inferno di miseria senza fine».
IL GIUSTIZIALISMO DELLA “LEGA” E DEGLI EX-NEOFASCISTI
Tiriamo il fiato e accenniamo ora ad altri soggetti. Parliamo in primis della “Lega”, di quelli pronti a sventolare cappi da forca in Parlamento per poi squalificarsi con le operazioni in diamanti in Africa e con la laurea com-prata per il figlio del capo in Albania, proprio in una nazione tra le più vilipe-se dalla propaganda leghista. Erano passati nel frattempo dal fallimento CredieuroNord - banca di riferimento dei leghisti - a quello del mega villag-gio vacanze "Skipper Residence" in Croazia e via via a tanti processi aperti contro dirigenti e amministratori regionali e comunali: su Google la voce «processi contro amministratori della Lega nord» occupa pagine e pagine...
E cosa dire di un ex-neofascista come Gianfranco Fini, erede politico dei più esperti saccheggiatori pubblici del Novecento (si legga il capitolo Fa-scismo predone nel saggio di Sergio Turone Politica ladra - Storia della cor-ruzione in Italia. 1861-1992), diventato grande esaltatore dell’operazione 'Mani pulite', per poi finire sotto inchiesta a sua volta per una miserabile vi-cenda di interessi famigliari?
Più lugubre resta ovviamente la pretesa di conquistare il potere con inni martellanti al ''nuovo ordine dell’onestà'', un inneggiare che nella storia - mutatis mutandis - ha accompagnato l’inizio di qualsiasi tirannia. Ritorna-no alla mente gli studi di Scienza della politica con la diffidenza del padre del liberalismo John Locke verso i criteri etici sbandierati con eccessivo fa-vore: con preveggenza formidabile intuiva che potevano nascondere i ger-mi della dittatura. Un esempio eclatante: partiti dalla predicazione forsenna-ta contro la corruzione degli altri, movimenti come quelli fascisti e nazisti si sono poi rivelati come i regimi più putrefatti e corrotti di tutti. Lo storico Tu-rone aveva appunto annotato che per quanto i sistemi democratici possano essere corrivi «è difficile superare l’impunita voracità dei gerarchi di un go-verno totalitario».
DUE CANGIANTI ESPRESSIONI DEL MONDO MEDIATICO E ECONOMICO
Torno ora alle nostre più prosaiche vicende e apro una breve nota in-cidentale dedicata al mondo mediatico ed economico segnalando le mosse di due insospettabili. C’è il giornalista Emilio Fede che si fa teorizzatore della bontà dei sommari processi mediatici e giudiziari, alle cui risultanze si di-chiara «assolutamente favorevole»: con le reti berlusconiane sosterrà tra il 1992 e 1993 i mitici «momenti magici» (cioè la tecnica carceraria che sbloc-cava ogni tipo di confessione) dell’operazione 'Mani pulite', per poi passare sul fronte diametralmente opposto quando si tratterà di contestare la lena giustiziera degli inquisitori a caccia del padrone politico-mediatico-finanziario Silvio Berlusconi.
Ma c’è un altro personaggio che fa un percorso zigzagante: è l’industriale-finanziere Carlo De Benedetti. Da critico arcigno della partitocra-zia e difensore dei «magistrati indipendenti e coraggiosi che contribuiscono al rinnovamento dell’Italia» - come dichiara a “Le Nouvel Observateur” del 15 aprile 1993 - diventerà esponente interessato del sistema delle tangenti, come narrano le cronache del 16 maggio 1993; commenterà “Libération” del 17 maggio 1993: «… oggi quello che fa amaramente sorridere gli italiani non è che il quarto gruppo privato del Paese [quello di De Benedetti] sia a sua volta coinvolto negli scandali, ma è l’atteggiamento dell’Ingegnere, il ri-belle del capitalismo italiano che si è sempre presentato come un incorrutti-bile». E invece…
ERANO ALLEATI E COMPAGNI DI PARTITO…
Ma veniamo ai partiti del centro-sinistra storico. Se degli oppositori si poteva capire l’acredine e il tornaconto politico, invece cosa dire di altri, ap-partenenti a partiti democratici che avevano retto insieme la 'prima Repub-blica'? Come giudicare una democristiana di lunghissimo corso come Rosy Bindi, che per 'sbianchettarsi' denuncia brutalmente la collaborazione DC-PSI come «patto scellerato»? O le dichiarazioni di Rosa Russo Jervolino con-tro i suoi amici democristiani: «Noi abbiamo in casa i ladri e questo è un fat-to incontrovertibile»? E come giustificare il comportamento di Giovanni Spa-dolini che - in faccia al segretario del suo PRI, Giorgio La Malfa, caduto anch’egli sul finanziamento illecito dei partiti - si fa vessillifero frenetico della «questione morale» come «la più grande questione politica» d’ogni tempo?
Parliamo ora senza veli del PSI, il mio partito allora come oggi. Nella caccia al «cinghialone ferito», finiscono per inseguire Bettino Craxi anche leader storici e meno dell’area socialista. C’è in questo non solo un riprove-vole decadimento della dialettica politica interna, ma anche quello che nella vita normale di una varietà di persone più estesa del prevedibile si caratte-rizza per particolare empietà; il duca de La Rochefoucauld nelle sue Massi-me (Marsilio Editori) esplorando l’angolo buio dell’amicizia, lo sintetizza così: «Nelle avversità dei nostri migliori amici noi scopriamo sempre qualcosa che non ci dispiace», lasciandoci travolgere dall’altrui accanimento verso il com-pagno in disgrazia. Così nel microcosmo socialista vedremo un personaggio come Enrico Manca - ex presidente RAI - invocare «drastiche e immediate decisioni». Ma su tutto si ergerà un capo storico come Giacomo Mancini, per il quale Craxi «non poteva non sapere», coniando un termine che poi la magistratura userà come capo d’accusa imprescindibile per condannare il segretario socialista: secondo Mancini è arrivata l’ora di fare piazza pulita. Quella di Mancini - commenta Feltri - «è una roba tristissima». Quando mo-rirà l’8 aprile 2002 l’ANSA ricorderà le sue traversie giudiziarie con le Procure calabresi che l’accusavano di «aver concorso esternamente alle attività di alcune fra le cosche più influenti della “'Ndrangheta”». Mancini prima verrà condannato il 25 marzo 1996 dal tribunale di Palmi; dichiarata l’incompetenza territoriale di quel tribunale, sarà invece allora quello di Ca-tanzaro ad assolverlo il 19 novembre 1999: il processo d’appello, fissato a fine giugno 2000, non ha mai avuto inizio… Mentre si accingeva a passare per questa temperie - dopo averne sperimentato altre negli anni ’70 del No-vecento al grido di ''Mancini ladro'' lanciatogli in faccia dalla marmaglia neo-fascista e veicolato da una campagna mediatica ostile, che avrebbero reso prudente ogni persona prima di accodarsi in futuro a qualsiasi campagna giustizialista - ecco invece Mancini non perdere l’occasione di mostrarsi un colpevolista eccellente ad altrui carico, concedendo al “Corriere della Sera” l’8 novembre 1992 un intervista in cui dichiarava che «per la vastità del fe-nomeno, i flussi di finanziamento li conosceva solo Craxi». Narra Feltri che «dopo quell’intervista i magistrati Di Pietro e Colombo lo chiamarono in pro-cura a Milano». Mancini farà di più. Il 16 dicembre 1992 su “La Stampa” in-fligge a Craxi un’altra accusa: «di essere andato a Reggio Calabria ad attac-care i giudici che stanno facendo un oneroso lavoro contro la mafia». È qui che Feltri parla di «roba tristissima», riferendosi al calvario giudiziario che di lì a poco Mancini subirà proprio in Calabria e che non gli sarà risparmiato da questi 'assist' gratuiti lanciati ai magistrati: sembra un caso di sindrome di Stoccolma preventiva, un provare sentimenti positivi verso i propri aggres-sori.
Ecco altri personaggi socialisti annoverati nel libro di Feltri: c’è Giorgio Benvenuto che in un’intervista a “la Repubblica” del 1° maggio 1993, se la fa intitolare così: «Craxi? Mai più nelle liste del Psi». Seguirà un altro sinda-calista socialista come Enzo Mattina che annuncia di voler «alzare con deci-sione la bandiera della moralità», straparlando addirittura di «Craxi-Gambadilegno». Infine in questo elenco pietosamente incompleto ecco i manifestanti dei ''Comitati di base socialisti'' che invadono la sede nazionale del PSI al grido di ''ladri, ladri''. Il suicidio del PSI - dei suoi dirigenti e dei suoi militanti travolti e abbruttiti dalla marea mediatico-giudiziaria che li ha colpevolizzati indistintamente - è così completato.
UN 'DIFENSORE' DEI DIRITTI UMANI
Ma per chiudere questa carente e trista rassegna, va segnalato un personaggio di cui sentiremo parlare anche più avanti, come gentile difen-sore dei diritti umani: si tratta di Luigi Manconi, già militante di “Lotta Conti-nua” e dei “Verdi”, infine approdato al PD. In una intervista a “Il Messagge-ro” del 2 luglio 1994, così parla di Craxi, rifugiato a Hammamet: «C’è qual-cosa di cupamente grottesco nell’immagine di quell’uomo anziano e malato. Anche la malattia non lo fa apparire più fragile, e con ciò meno sgradevole. Al contrario. La sua sembra proprio quella che, nei racconti per adolescenti, è l’infermità dei 'cattivi'… la malattia completa crudelmente l’immagine di un uomo che - in una torva solitudine - cova i suoi rancori; quel sarcasmo così appesantito, quell’aggressività così affannosa, rivelano qualcosa di intima-mente 'sporco'». E conclude con sentenziosità chirurgica: «È una manife-stazione patologica. Da sempre le psicosi hanno pesato sulla politica».
PER FORTUNA C’È ANCHE UN PO’ DI CLEMENZA
Per ridare decenza alle cose, a tanta crudezza contrapponiamo le pa-role clementi di un personaggio che generalmente non desta la nostra sim-patia, ma che al dunque sa sovrastare tanti altri in umanità: ci riferiamo a Indro Montanelli. Il 1993 fu percorso anche dal fenomeno degli inquisiti sui-cidatisi. Di fronte alla morte ci si dovrebbe fermare, e invece ecco alzarsi il coro dei maramaldi. Al funerale di Gabriele Cagliari, presidente ENI suicida, «si è sentito - racconta Feltri - l’estremo saluto di alcuni rappresentanti della società civile, in attesa fuori dalla chiesa: ''Ladri!''. ''Vergogna!''. ''Nessuna pietà''. Molti i fischi». E mentre il citato ideologo della “Lega Nord” Gianfran-co Miglio dichiara sprezzantemente: «…in fondo è un bene: vuol dire che c’è gente che di fronte alla prospettiva della casacca a righe, preferisce to-gliersi la vita», ecco alzarsi l’umanissimo monito di Montanelli: «Hanno pre-ferito la morte alla galera e al disonore… Che i nomi di questi morti siano scritti in un albo d’onore che, avendo comunque pagato più del dovuto, l’onore se lo sono riguadagnato sul campo, e con esso il diritto al rispetto di tutti».
UNA COMPAGNIA DI PERICOLOSI LATITANTI
Torniamo a Craxi. Morirà espatriato in Tunisia, in semplicità, fuori dagli agi e dagli ori immaginati dagli avversari. Ci ricorda per la solitudine che si autoimpose, un'altra personalità socialista, Camillo Prampolini, che negli an-ni del fascismo imperante dalla sua Reggio Emila - che l’aveva visto grande leader riformista - riparò a Milano a fare l’impiegato qualsiasi. Mauro Del Bue ne ha tratteggiato la figura con affettuosa partecipazione sulla rivista “Mondoperaio” dell’aprile 2017: mentre tutti correvano dietro ai vincitori, compresi gli ex-compagni di lotta, egli si ritirò a vivere e morire in solitudi-ne.
Così Craxi. Nonostante sia morto di malattia, per anni in sofferenza e lontano dal suo Paese, resterà ancora per una parte dell’opinione un perico-loso 'latitante'. Bettino Craxi è comunque in buona compagnia. 'Latitanti' (secondo il gergo tecnico-carcerario), 'fuoriusciti', 'rifugiati', 'esuli' (nel lessi-co letterario più gentile) furono Garibaldi, Turati e Pertini. Ma il contumace più illustre fu addirittura il Padre della nostra lingua, finito per ritorsione sot-to «accusa di concussione». Dante Alighieri, che come priore aveva ratifica-to una condanna contro tre banchieri papali, fu a sua volta perseguito dopo che papa Bonifacio VIII riprese il controllo di Firenze. «Fu giudicato colpevo-le di aver ricevuto denaro in cambio dell’elezione dei nuovi priori, di aver accettato percentuali indebite per l’emissione di ordini e licenze a funzionari del Comune e di aver attinto dal tesoro di Firenze più di quanto corretta-mente dovuto», come testualmente riporta la ricerca di Carlo A. Brioschi Breve storia della corruzione (TEA Editori). Dante non si presentò al proces-so - si difese dunque dal processo - e fu condannato in contumacia: se fos-se entrato nel territorio fiorentino «sarebbe stato mandato al rogo; fu così che a 37 anni Dante intraprese la strada dell’esilio», della 'latitanza' avreb-bero detto altri nella parlata tribunalesca.
TRAGEDIE E VOLUBILITÀ DELLA 'GIUSTIZIA' UMANA
Abbiamo fantasticato nel fare gli accostamenti? No. A proposito di 'Tangentopoli' ancora ci sovviene l'agghiacciante osservazione di un perso-naggio che ha conosciuto la durezza di un regime oppressivo, l'ex dissiden-te sovietico Vladimir Bukowski, che così, il 14 ottobre 1995, descriveva la presunta 'rivoluzione' giudiziaria italiana degli anni '90: «'Mani pulite' si rifà al grande terrore staliniano del 1937-'38, al quale è paragonabile per lo stile se non per l'ampiezza».
Ma anche in tempi più quieti, la storia è colma di vessazioni illiberali e di tante volubilità nelle sentenze dei tribunali che ad esempio avevano fatto scrivere a Voltaire: «Se a Parigi ci fossero 25 camere di giudici ci sarebbero 25 giurisprudenze diverse». Così era allora, così è oggi. Ce l’ha ricordato - riandando a quella valutazione volterriana - l’ex magistrato Ferdinando Im-posimato, scrivendo un articolo sull’ “Avanti della domenica” del 3 maggio 1998 intitolato «Giustizia, la riforma non decolla» col quale ammetteva drammaticamente che «le cose non sono affatto mutate da allora». Questo per significare che le valutazioni e anche le sentenze emesse in una certa temperie, avrebbero potuto prendere un altro - se non addirittura opposto - verso in tempi e circostanze diverse. Imposimato continua il suo ragiona-mento citando Cesare Beccaria: «Lo spirito della legge sarebbe dunque il ri-sultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, dipenderebbe dalle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso…». Potremmo quindi concludere - appoggiandoci sull’autorevolezza del professor Francesco Galgano - che il diritto «non si sa bene su cosa si fondi» e che addirittura «il diritto è il rovescio del buon senso» (cfr. France-sco Galgano, Il rovescio del diritto, Giuffrè Editore).
Anche le leggi, come le sentenze, risentono delle circostanze e dell’evoluzione delle idee umane. Lo sostiene un padre della nostra Costitu-zione, Piero Calamandrei: «Cosa sono le leggi se non esse stesse delle cor-renti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che cosa morta» (in Marco Cappato, Credere, disobbedire, combattere, Rizzoli). Per cui quel-lo che è reputato delittuoso in un certo periodo, può essere considerato giusto in altro, e viceversa. Oggi Dante non sarebbe assolutamente consi-derato un ladro…! Ma venendo a vicende più minute e contingenti, anche i processi di Tangentopoli se venissero celebrati ora - solo a pochi lustri di di-stanza - potrebbero prendere altra direzione, pur celebrandosi almeno for-malmente nello stesso quadro costituzionale. Conta lo spirito del tempo, l’aria che tira. È cosa antica: fin dai tempi di Socrate in teatro come in tribu-nale non conta la realtà ma come essa viene rappresentata e percepita. Tutto è umano e volubile, non ci sono atti intangibili d’origine divina né di valore eterno.
IL FALLIMENTO E IL RISCATTO DI UNA NAZIONE
In conclusione, la sorte di Craxi invoca sempre più il dispiacere delle persone ragionevoli. Un giovane storico ha raccolto e commentato le carte scritte da Craxi pubblicandole sotto il titolo Io parlo e continuerò a parlare: note e appunti sull’Italia vista da Hammamet (Mondadori): è il libro curato da Andrea Spiri, che per professione e vocazione è impegnato «nell’analisi dei processi di delegittimazione dell’avversario nelle culture politiche». Leg-giamolo.
Ma anche tra gli irriducibili colpevolisti, aveva aperto la strada al ri-pensamento un personaggio come l’ex-magistrato e poi parlamentare di PCI, PDS e DS, Luciano Violante, che in una intervista al “Corriere della Se-ra” del 5 aprile 2007 intitolata «Sbagliammo. Craxi capro espiatorio», definì un errore l’aver fatto di Craxi appunto «un capro espiatorio sull’altare del codice penale». In seguito, un numero sempre maggiore di osservatori democratici si è sempre più interrogato sulla «pessima prova» data dagli italiani, rimeditando le accorate osservazioni di Norberto Bobbio formulate subito nei primi anni ’90. Il grande filosofo su “La Stampa” del 20 gennaio 1993 aveva infatti scritto: «La 'prima Repubblica' è proprio finita. Non lo di-co, come la maggior parte degli italiani, con un sospiro di sollievo o addirit-tura con aria di trionfo. Lo dico con un senso di amarezza, non perché cre-da che non meriti di fare la fine ingloriosa che ha fatto o sta facendo, ma perché una conclusione così miseranda è l’espressione del fallimento di tut-ta intera la nazione, e non solo della classe politica che è ormai continua-mente e rabbiosamente messa sotto accusa da parte di coloro che per anni l’hanno sostenuta e le hanno offerto il consenso necessario per governare. Come paese democratico, come Stato di liberi cittadini, abbiamo fatto, biso-gna riconoscerlo, una pessima prova».
Porre rimedio a quella infausta «prova», cercare di non ripeterla, resta il compito di una politica mite, democratica e partecipata. Del resto qui ab-biamo parlato di una storia, ma non come fosse un 'amarcord' inerte: no, nel segno di Benedetto Croce, sappiamo che la storia è sempre storia con-temporanea e serve - come ribadisce il politologo A. Panebianco - «a cerca-re lumi nel passato per comprendere cosa sia meglio fare nel presente». Comprendendo, ad esempio, che le operazioni mediatico-giudiziarie dissen-nate, possono essere dannose per la stabilità democratica ed economica del Paese. Il professor Fadi Hassan, nato a Pavia da genitori siriani, docente di macroeconomia internazionale presso il Trinity College Dublin - consideran-do che il dato per cogliere la traiettoria economica del nostro Paese è il PIL pro capite in relazione agli Stati Uniti a parità di potere d’acquisto - ha ram-mentato sul “Corriere della Sera” del 6 aprile 2017 che «nel 1991 il nostro reddito pro capite era l’86% di quello americano, nel 2016 è sceso al 63%. E’ lo stesso livello - commenta - che avevamo nel 1961: nell’ultimo venten-nio siamo tornati indietro di 55 anni».
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
-Mattia Feltri, Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite, Marsilio, Vene-zia, 2016.
-Paolo Mieli, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Rizzoli, Mi-lano, 2016.
-Carlo M. Cipolla, (a cura di), Storia facile dell’economia italiana dal Medioe-vo a oggi, Il Sole 24 Ore-Mondadori, Milano, 1995.
-L. Federico Signorini-Ignazio Visco, L’economia italiana, il Mulino, Bologna, 1997.
-Roberto Chiarini, La memoria maledetta di Bettino Craxi, in Nuova Storia Contemporanea, n. 6/2015, Casa editrice Le Lettere, Firenze.
-Stefano Livadiotti, Magistrati, l’ultracasta, Bompiani, Milano, 2009.
-Sergio Romano, Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1995.
-Daniel Soulez Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macera-ta,1994.
-Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia, il Mulino, Bologna, 2011.
-Piero Fassino, Per passione, Rizzoli, Milano, 2003.
-Gianni Cervetti, L’oro di Mosca, Baldini&Castoldi, Milano, 1993.
-Sergio Turone, Fascismo predone in Politica ladra - Storia della corruzione in Italia. 1861-1992, Laterza, Roma-Bari, 1992.
-François de La Rochefoucauld, Massime, Marsilio, Venezia, 2000.
-Carlo Alberto Brioschi, Breve storia della corruzione, TEA Editori, Milano, 2004.
-Francesco Galgano, Il rovescio del diritto, Giuffrè, Milano, 1991.
-Marco Cappato, Credere, disobbedire, combattere, Rizzoli, Milano, 2017.
-Bettino Craxi, Io parlo e continuerò a parlare: note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di Andrea Spiri, Mondadori, Milano, 2014
---------------------------------------------------
NOTA:
-Questa nota è stata riportata l’11 aprile 2018 dal sito www.socialistitrentini.it e dal quotidiano “Avanti! ” con il titolo La ca-duta di Tangentopoli: indietro di mezzo secolo http://www.avantionline.it/2018/04/la-caduta-di-tangentopoli-1993-come-un-paese-puo-tornare-indietro-di-mezzo-secolo/#.Ws7zQOkUnIU


COS’È UNA SINISTRA MODERNA?

Nell’arco di pochi giorni abbiamo potuto leggere valutazioni pesanti sull’ultimo trentennio italiano. La prima, del giornalista e scrittore Pierluigi Battista: “Una delle cose più stupide predicate in questi decenni è stata il disprezzo dei partiti. I partiti erano quel che erano… ma le sezioni dei partiti erano cose serie, lì ci si riuniva, si andava la sera, dopo il lavoro, si discute-va, ci si confrontava, si litigava. La sezione di partito era un corpo interme-dio pieno di vita, un punto di riferimento, un luogo caro a cui appartenere” (“Corriere della Sera”, 8 marzo 2018). Ora è tutto svanito, abbiamo la soli-tudine di massa, una “folla solitaria” come la definì il sociologo David Rie-sman. Tutto risulta “disintermediato”, non ci sono corpi intermedi tra l’elettore e le istituzioni, tra il popolo e chi decide, insomma sedi reali di con-fronto per il cittadino. Su tutto domina il mezzo televisivo, i dibattiti – col popolo solo ascoltante e guardante – si svolgono nei talk show; per quella folla solitaria resta Internet “a collegare gli scontenti, ad alimentarli, a rinfo-colarli” aggiunge Aldo Cazzullo (stesso giornale, stesso giorno).
La seconda: “Verrebbe quasi da rimpiangere le vecchie ideologie”, so-stiene l’economista e politologo Michele Salvati, sempre in queste giornate postelettorali. Perché? Basta vedere cosa le ha sostituite: “Il rozzo appello xenofobo della Lega”? Oppure “il grido qualunquista ‘onestà, onestà’ dei Cinque Stelle”? Un grido che nella storia – mutatis mutandis - ha accompa-gnato l’inizio di qualsiasi tirannia; un esempio eclatante: partiti dalla predi-cazione forsennata contro la corruzione degli altri, movimenti come quelli fascisti e nazisti si sono poi rivelati come i regimi più putrefatti e corrotti di tutti.
La terza: il discorso ora appena accennato, si collega ad altra analoga predicazione, dimostratasi una fake news come ha spiegato nel febbraio 2018 lo storico Angelo Panebianco: “Sul finire della Prima Repubblica il vec-chio sistema dei partiti entra in crisi. Arriva Mani Pulite ed è il diluvio. Il pre-stigio dei politici crolla ai minimi termini (e non risalirà più). È allora che si diffonde quella che considero la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo”. Non è così naturalmente, se proprio quando si scatena “Tangentopoli” all’inizio degli scorsi anni ’90, la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi miglio-ri – situava l’Italia al 33° posto nel mondo su più di 180 nazioni. Poi i pre-sunti nuovi “moralizzatori”, giunti al comando hanno peggiorato un po’ la si-tuazione…
Richiamate queste tre valutazioni, ecco che Eugenio Scalfari su “la Repubblica” del 9 marzo spiega involontariamente perché la crisi politica at-tuale abbia portato la sinistra allo sbando completo, lasciando campo libero a centro-destra e Cinque Stelle. “La sinistra moderna (sic!) cominciò con Tangentopoli nella Procura di Milano nel 1992. In cinque anni – continua Scalfari – venne smontato il sistema politico”. Bel risultato, potremmo dire, meditando sui tre punti sopra richiamati! Se la sinistra “moderna” è quella descritta da Scalfari, meritava di finire ben prima di adesso.
Per rinascere, la sinistra moderna dovrebbe proprio ritornare sui suoi passi. Seguendo la trilogia precedente, dovrebbe in primo luogo battersi per ridare fiducia e nerbo ai partiti, come prevede l’articolo 49 della nostra Costituzione, “la più bella del mondo”; in secondo luogo, dovrebbe rinverdi-re l’ideologia progressista, collegandosi agli ideali dell’unica sinistra demo-cratica che c’è al mondo, quella del socialismo laburista e democratico eu-ropeo e del democratico-socialista americano Bernie Sanders: un movimen-to politico che da anni e anni è dato per finito, ma che invece resta l’unico ancoraggio per non soccombere alla demagogia, per provare ad impedire che intere schiere di popolo di sinistra – operai e impiegati di vecchio e nuovo stampo, ceto medio, giovani, disoccupati… – votino a destra o per li-ste populiste qualunquiste o si rifugino nell’astensione.
In terzo luogo, chi ha nel cuore la democrazia dovrebbe capire l’importanza di ridare onore e prestigio alla politica, sottraendola alla deni-grazione esercitata dal potere mediatico e alla subordinazione alle “burocra-zie amministrative e giudiziarie”, che spadroneggiano dall’alto delle corti, delle procure, dei ministeri, avverte il prof. Panebianco: “I politici o sono al loro servizio o sono troppo deboli per tenerle a bada. Lasciate a se stesse quelle burocrazie ci preparano un futuro di autarchia e di declino economico e culturale. Chi fosse interessato a far restare il Paese nel mondo moderno dovrebbe porsi il problema di come tagliare loro le unghie”. Una conclusio-ne da condividere e che la sinistra dovrebbe far propria: altro che sinistra delle procure, delle caste giudiziarie e burocratiche.

ARTICOLO:
-Questo articolo è stato pubblicato inizialmente nelle parti essenziali dal quo-tidiano “Trentino” domenica 25 marzo 2018 con il titolo TRENT'ANNI DI ERRORI IN POLITICA e poi riportato integralmente dalla rivista “Questo-trentino - QT” – Aprile 2018. In precedenza era apparso sul quotidiano “Avanti! ” con il titolo Sinistra moderna. Parliamone http://www.avantionline.it/2018/03/sinistra-moderna-parliamone/#.WtRzI-kUnIV

* Nicola Zoller (Rovereto, 1955) - studi classici con laurea in scienze poli-tiche, lavoro aziendale di responsabile commerciale - è socialista iscritto al Psi dal 17° anno d’età e continua a dedicarsi allo studio del pensiero demo-cratico e socialista; collaboratore di www.avantionline.it e della storica rivista “Mondoperaio” fondata da Pietro Nenni, è membro della Direzione nazionale del Psi.






































torna in alto




Powered by Web Wiz Site News version 3.06
Copyright ©2001-2002 Web Wiz Guide