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I poteri del Presidente
31 maggio 2018

I poteri del Presidente in un sistema parlamentare
-di Valerio Onida
Corriere della Sera, giovedì 31 maggio 2018

ABSTRACT: “Il presidente della Repubblica non è un notaio: è organo (oltre che di rappresentanza dell’unità nazionale) di coordinamento e di garanzia, che partecipa a quasi tutti gli atti di governo rilevanti, ma non con poteri di decisione personale né di veto”.


Caro direttore, non condivido molto delle idee politiche delle due forze (M5S e Lega, specie di quest’ultima: le «idee» dei 5 Stelle ci sono ancora in larga parte ignote) che sembravano essersi accordate per formare il governo. Alcuni dei propositi (non tutti) espressi nel cosiddetto «contratto di governo» mi trovavano dissenziente o addirittura mi sembravano contro la Costituzione (così certi propositi sulla giustizia e il sistema penitenziario, sulla legittima difesa, sulla flat tax, sul «vincolo di mandato» per i parlamentari); mentre per lo più sembrava di trovarsi di fronte a un catalogo di buone intenzioni privo di indicazioni sul come realizzarle e sul come trovare le risorse necessarie. Qualcosa decisamente poi mancava, come ad esempio la previsione di misure dirette ad affrontare il problema del pesante debito pubblico (anzi ci si dichiarava contrari a «misure di tassazione di tipo patrimoniale»).
Ciò premesso, mi permetto di dissentire da chi (come Sabino Cassese, Corriere 26 maggio) ha affermato che le nomine del presidente del Consiglio e dei ministri sono «atti presidenziali», a cui si aggiungerebbe una «autorizzazione» parlamentare, «la cosiddetta fiducia». Per «atti presidenziali», nel linguaggio costituzionalistico abituale, si intendono quelli il cui contenuto è rimesso ad una ampia discrezionalità di scelta del presidente, come la nomina di cinque giudici della Corte costituzionale o dei senatori a vita, o come i provvedimenti di concessione della grazia. In realtà la «cosiddetta fiducia» è istituto centrale della forma di governo parlamentare, in cui i compiti attivi di indirizzo politico sono demandati, oltre che al Parlamento, al governo espressione della maggioranza parlamentare, che si manifesta appunto attraverso la concessione o la negazione della fiducia al governo. «Il governo deve avere la fiducia delle due Camere», recita l’art. 94 della Costituzione, che poi regola precisamente le modalità dei voti di fiducia e di sfiducia. E la «politica generale del governo» è diretta dal presidente del Consiglio, che ne è responsabile e che «mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri» (art. 95). Questo è il sistema di governo parlamentare, e la nostra è una Repubblica parlamentare, non una Repubblica presidenziale né semi-presidenziale. Il presidente della Repubblica non è certo un notaio: è organo (oltre che di rappresentanza dell’unità nazionale) di coordinamento e di garanzia, che partecipa a quasi tutti gli atti di governo rilevanti, ma non con poteri di decisione personale né di veto (se non sospensivo, come il rinvio delle leggi alle Camere per una nuova deliberazione), bensì potendo esercitare in ogni forma quelle funzioni di suggerimento, consiglio, moral suasion che ben si riassumono nella definizione, data all’epoca costituente, del capo dello Stato come «magistrato di persuasione e di influenza». Si capisce bene allora che, quando ci si trova di fronte alla scelta delle persone, che dovranno ricoprire le cariche di ministri, il compito di indicarle è del presidente del Consiglio, il quale deve però anche in questo perseguire l’intento di dar vita ad una compagine ministeriale che possa ottenere in Parlamento la fiducia della maggioranza. Il presidente della Repubblica può interloquire, suggerire, far presenti obiezioni e ragioni di perplessità, ma non potrebbe imporre la propria volontà e una propria scelta o un proprio indirizzo politico contro quello del presidente del Consiglio e della maggioranza parlamentare. Altro è che il capo dello Stato possa far presenti impedimenti o obiezioni che riguardino un candidato a una carica ministeriale in relazione non alle sue opinioni politiche, ma a ragioni di opportunità legate alla persona (come ad esempio un evidente conflitto di interessi). Insomma, egli può consigliare, cercare di persuadere: non contrapporre sue scelte di indirizzo a quelle espresse da un presidente del Consiglio che conti sull’appoggio della maggioranza parlamentare. Sulle scelte politiche governative, quando tradotte in leggi o atti del governo, il capo dello Stato ha del resto molte possibilità di intervento, specialmente per segnalare e impedire violazioni della Costituzione.
Ciò che si è osservato, tuttavia, non offre alcun fondamento alla rabbiosa reazione di chi ha cominciato a parlare di una possibile messa in stato d’accusa del capo dello Stato ad opera del Parlamento in seduta comune, che l’art. 90 della Costituzione prevede come possibile solo «per alto tradimento o per attentato alla Costituzione». Salvo queste ipotesi estreme, come si sa, il presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, per la cui validità è necessaria la controfirma dei ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità (art. 89).
Si dovrà invece continuare a riflettere e a discutere democraticamente sui modi e le condizioni (culturali, economiche e politiche) per far sì che il sistema costituzionale e quello politico operino, nel rispetto della Carta, a favore di una società, nazionale, sovranazionale e internazionale, più giusta o meno ingiusta.

Corriere della Sera, giovedì 31 maggio 2018



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