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Vergogna fascista contro gli Ebrei
5 settembre

80 anni fa i Provvedimenti fascisti contro gli ebrei
IL 5 SETTEMBRE 1938, IL GIORNO DELLA VERGOGNA
Solo Ernesta Battisti seppe opporsi

-di Nicola Zoller
Giornale “Trentino”, mercoledì 5 settembre 2018, pp. 8 e 9.


Venne quel 5 settembre 1938 quando il re sabaudo firmò i fascistissimi “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”: lo storico Giovanni Belardelli lo considera il giorno “della vergogna per la cultura italiana”, quando gli ebrei furono estromessi dall’insegnamento. Vennero colpiti ben 896 docenti ebrei, mentre altri docenti “ariani” senza tanti problemi si installarono ben lieti al posto reso vacante. Tranne uno in verità: lo scrittore Massimo Bontempelli – che pur aveva trascorsi fascisti – si rifiutò di sostituire il grande critico letterario Attilio Momigliano; ma tutti gli altri 895 acconsentirono ad occupare quei posti, quando non si accapigliarono per essi.
Stupirsi? Non più di tanto. La storia italiana del Novecento è colma di comportamenti equivoci, quando non crudeli. Lo storico Angelo Del Boca ha scritto un libro dal titolo tagliente «Italiani, brava gente? - Un mito duro a morire» nel quale descrive molti episodi in cui gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili condotte, che sconfessano “il mito che ci vuole diversi, più tolleranti, più generosi, più gioviali degli altri”. Così fu con gli ebrei, ma lo era stato in generale con l’accettazione del fascismo che gli italiani manifestarono purtroppo in modo amplissimo salvo poi reinventarsi una verginità rispetto a Mussolini e al suo regime: «Di fronte alla sconfitta, si sbarazzarono in un attimo del loro passato e ne misero interamente la responsabilità sulle spalle di un uomo solo» ha commentato lo storico Sergio Romano nel saggio «Finis Italiae». E’ sgradevole e pesante accanirsi sulle nostre debolezze e falsità, che emergono platealmente nei momenti di svolta d’allora e di oggi. Qualche saccente pretenderà di affermare che si tratta di “derive” populiste riguardanti il popolo grezzo e incolto. Invece molto riguarda le classi più educate: la tragedia delle leggi razziali lo insegna, e ne parliamo ancor oggi perché “fare i conti col passato è meditazione politica sul presente”, aiuta a capire il ruolo di chi si reputa migliore e più virtuoso degli altri, dimostrandosi invece prigioniero della propria ambizione, pronto – in ogni dove e tempo - a servire l’ideologia imperante o qualsiasi sommovimento emergente, come ad un voltafaccia quando gli servirà di più.
Come giudicare altrimenti l’asservimento degli intellettuali al fascismo che coinvolse la quasi totalità dei 1.225 professori universitari quando nel 1931 dovettero formalmente giurare «fedeltà al Regime Fascista»? Solo 18 non giurarono, e alcuni di questi perché stavano per andare in pensione! L’accaparramento dei posti dopo l’esclusione degli ebrei nel settembre 1938 è un vile tassello della più generale adesione al fascismo di quella fitta schiera di intellettuali che crebbe e visse nelle pieghe del fascismo e del suo libro paga, come narra Giovanni Sedita nel saggio «La cultura finanziata dal fascismo», e che coinvolge importanti letterati. Si devono evitare giudizi sommari, come esorta una ricerca di Mirella Serra, la quale tuttavia osservando il mondo degli intellettuali tra fascismo e repubblica, scrive ne «I Redenti» che «quasi tutti i giornalisti, gli scrittori e gli studiosi che avevano collaborato ai quotidiani e alle riviste del regime passarono dolcemente dal fascismo all’antifascismo e continuarono a esercitare, con maggiore o minore successo, i loro talenti»: parliamo di Montanelli, di Giorgio Bocca, di Enzo Biagi, di Eugenio Scalfari… Intanto ci eravamo lasciati alle spalle gli infiniti lutti della Seconda guerra mondiale, inizialmente tanto acclamata, mentre le leggi razziali del fascismo avevano portato alla morte di 7.557 ebrei italiani nei lager tedeschi.
Sugli ebrei non tutti tacquero però. Se la maggioranza degli italiani non ebrei acclamò, accettò, si adeguò o non reagì all’antisemitismo di Stato, pochissimi riuscirono a protestare pubblicamente. Con ammirazione segnaliamo che nell’intero Paese fece nobile eccezione Ernesta Bittanti, l’indomita socialista vedova di Cesare Battisti, la quale scrisse, intervenne e soccorse i perseguitati «riconoscendo gli elementi forti della dottrina antisemita all’interno della pratica politica fascista». Lo ricorda Beatrice Primerano, nel suo saggio «Ernesta Bittanti e le leggi razziali del 1938». Qui illustra il Diario «Israel-Antisrael 1938-1943» che la Bittanti – con fierezza di pensiero - tenne contro le leggi razziali fasciste del 1938. Nella prefazione appare il giudizio dello storico Renzo De Felice, secondo cui il Diario di Ernesta “costituisce la registrazione fedele e immediata delle sensazioni suscitate dalla grottesca e imponente campagna propagandistica scatenata dal regime intorno alla legislazione razziale”. Primerano rammenterà che per la Bittanti quella legislazione fu “uno dei tanti aspetti della reazione fascista ai principi della rivoluzione francese”: e questa convinzione è espressa nel rispetto di quella “tradizione nazionale, interventista, democratica e laica” di cui Ernesta fu degna rappresentante. Ponendosi a custode della verità storica che vide numerosi ebrei impegnarsi con Cesare Battisti per la causa italiana, il 18 febbraio 1939 in piena reazione antiebraica fece pubblicare sul “Corriere della Sera” un toccante necrologio in memoria dell’ing. Augusto Morpurgo, erede di una famiglia ebraica con grandi meriti patriottici. Quell’intervento della “vedova di Cesare Battisti” che “annuncia in pianto” la scomparsa di una personalità ebraica, è un grido lanciato contro le convenienze dell’élite e della moltitudine asservite al regime fascista. “Nei momenti più difficili – conclude Primerano – ella manifestò un coraggio supremo, in obbedienza ad un unico motivo ispiratore: la ‘religione della libertà’, che la fece divenire un simbolo dell’Italia civile di tradizione mazziniana e garibaldina”. Svolse la “funzione critica” che in ogni tempo dovrebbe essere propria di tanti intellettuali, che allora (ma pure in seguito) mancò e di cui – autocriticamente – tanto si dispiacque Norberto Bobbio nel suo trattato «Politica e cultura».

Nicola Zoller*
*collaboratore di “Mondoperaio”, storica rivista fondata da Pietro Nenni




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