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Grande Guerra: "Trentino" 30.11.2018

“Una pagina insolita. Da leggere. Da mandare a memoria. Un’altra faccia della guerra. Di disarmante, genuina e semplice efficacia”: commento del direttore del “Trentino” Alberto Faustini
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>>> ‘Memento’ controcorrente: GRANDE GUERRA, RACCONTO MACCHERONICO
-di Nicola Zoller - giornale “Trentino”, venerdì 30 novembre 2018, p. 8 e 9
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Nel novembre di cento anni finiva la sanguinosa Grande Guerra: doveva essere – secondo i contendenti – uno scontro breve, durerà invece anni con milioni di morti, di cui 650.000 italiani. Alla fine di questo mese che ha visto numerose commemorazioni, proporrei un “memento” controcorrente, riportando le irriverenti ma umili e sincere note di un militare italiano finito al fronte come tanta gioventù d’allora.
E’ un riconoscimento anche a tutti quei pacifisti che – trovando un capofila in Giacomo Matteotti – videro nella guerra una scelta disumana: e che ancora pongono a molti di noi – eredi della tradizione politica di Cesare Battisti e del suo interventismo democratico – quesiti irrisolti che possono essere solo quietati da ricerche come quelle dello storico trentino Mirko Saltori, secondo il quale c’era una base comune per le due personalità. «Il socialismo non era stato né per Battisti né per Matteotti un’etichetta o una superficiale infatuazione, bensì un impegno costante e rigoroso, e certo nella concezione della realtà e della politica dell’uno e dell’altro vi sarà stata una larga identità di vedute». Una identità che avrebbe potuto portarli successivamente anche a revisionare i punti di vista divergenti, e comunque a svolgere un comune lavoro utilissimo per il popolo, di cui molti rimpiangeranno la mancanza: infatti non fu loro possibile, perché le vite di queste due personalità furono entrambe stroncate violentemente.
Lasciata questa premessa, veniamo al nostro militare. E’ grazie alla rivista “Archivio trentino” della Fondazione Museo Storico del Trentino (Publistampa, 2017) che conosciamo la vicenda riportata in un saggio intitolato La “crante querra”: il manuale di sopravvivenza di Vincenzo Rabito, commentato dallo studioso Enrico Meloni. Si tratta delle memorie della prima guerra mondiale scritte a distanza di cinquant’anni tra il 1960-1970, quando al Rabito - annota il commentatore - parve che non ci fosse più nulla da temere dalla “violenza del potere e della società”. Giovanissimo siciliano chiamato alle armi nel 1917 con i “ragazzi del1899”, racconta, con un linguaggio personale costruito su una base dialettale maccheronica ma comprensibile con un po’ d’attenzione: 1) di come un socialista – o che tale si sentiva per legami familiari e di classe – poté nel vortice della guerra di trincea diventare un carnefice: “deventammo tutti macellaie di carne umana”, “amme mi piaceva di fare la querra e magare sofrire assai, ma restare vivo”; 2) del suo comunque confermato disgusto per chi fa vanto d’atti eroici, come gli Arditi: “tutte delinquente, tutte fatte uscire a posetamente dela galera propia per queste deficile imprese… prima che partevino, si bevevino mezzo litro di licuore, e magare se umpriagavino”; 3) del suo irriverente seppur rassegnato disdegno per gli ordini letali, come quelli ricevuti dalla sua compagnia, che da reparto Zappatori li fa passare ad attaccanti muniti di bombe, pugnali e pistole a razzo: “Erino momente di paura e di morte. Tutte tremammo, perché come li oficiale dicevino ‘Avante Savoia!’, certo che si doveva partire. E aspetammo quella infame e desonesta parola: ‘Avante Savoia!’; 4) della strage di vittime soprattutto civili che colpì con l’influenza spagnola almeno cinquanta milioni di persone nel mondo e diverse centinaia di migliaia anche in Italia, “quasi quanto tutti i militari italiani caduti nella Grande Guerra” commenta Meloni, mentre Rabito giunto nelle sue terre in sospirata licenza per “un bellissimo mese di stare lontano dalla morte” scopre che “qui con la spagnola ni moreno magare 20 o 24 a ciorno”; 5) di come l’Austria perse la guerra per fame: “Li povere austriece… non potevino stare all’empiede e se daveno tante pricioniere e dicevino: Abiamo perso la battaglia. E l’Austria non la puole sostenire, senza manciare, questa guerra”; 6) del tradimento delle promesse di spartizione delle terre ai combattenti per almeno 5 ettari a testa: “ci hanno improgliato che ci dovevano spartere li terre ai contadine”; 7) del perché venne il fascismo: “per fare fenire questa quantetà di sciopere, ci volevino propia questo movemento fascista qiudata di questo Benito Musseline”; 8) e infine dei mezzi con cui il fascismo si impose :“per levarene l’edeia socialista e farese tutte fasciste, poi che a quelle che non zi volevino fare fasciste ci facevino prentere per forza mezzo litro di oglio di ricine”.
E’ il romanzo di un uomo che cerca di destreggiarsi tra tante difficoltà pur di sopravvivere: non fa richiami retorici al pacifismo o all’antimilitarismo, come è successo ad altri “romanzieri” più colti. No, lui è di una “disarmante sincerità”, che ce lo fa sentire più autentico e vicino anche se la sua è una vicinanza che può disturbare la nostra quiete. Ad esempio, turba e commuove allo stesso tempo il suo disperato elogio della bestemmia, quando in fronte alla fame e alla morte, sbotta: “Il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto, che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino e bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noi era il vero conforto”. L’imprecazione ripetuta era il retaggio di tanta passata e presente disperazione dei ceti diseredati, che permaneva nelle ordinarie quotidiane abitudini ma che ora in tempo di guerra riaffiorava ancor più impetuosamente contro ogni divinità costituita: “Ma il Padreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire”. E quale divinità poi? Di quale Dio stiamo parlando? Di quello del prete italiano che lo invocava a fine messa per “dare la crazia di vincere questa sanguinosa querra” all’Italia, o quello del prete austriaco che lo implorava di fare la stessa “crazia” all’Austria per “vincere il suo potente nemico”? Domande desolate, che però spiegano la tragica vanità di tante contese umane e religiose.
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Nicola Zoller, collaboratore della storica rivista “Mondoperaio” fondata da Pietro Nenni



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