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MONTAIGNE, ADDIO: una sfida politica
9/2019

Pubblicazione di Nicola Zoller
“MONTAIGNE, ADDIO:
UNA SFIDA ALLA POLITICA GRIDATA DEL NOSTRO TEMPO”.

Schede di lettura tratte da mondoperaio 2013 | 2018,
Rivista fondata da Pietro Nenni e diretta da Luigi Covatta.

Dedica:
“Per Andrea, che al mattino ci preannuncia l’arrivo della luce d’Oriente.
(Mosca-Rovereto, 2019)”

INDICE

(preceduto da quattro citazioni):
-“Si scrive per vanità, per desiderio di apparire intelligenti, di far parlare di sé, etc.;
ma questo non è il movente decisivo: la scrittura è utopia di libertà, ricerca di verità”.
George Orwell

-“Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose
di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro corpo,
ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.
Bernardo di Chartres

-“Il socialismo non era stato né per Cesare Battisti né per Giacomo Matteotti
un’etichetta o una superficiale infatuazione, bensì un impegno costante e rigoroso”.
Mirko Saltori, Giacomo Matteotti e il Trentino, “Archivio trentino”, n. 1/2006

-“Machiavelli è costretto a pensare soltanto la politica e non a farla,
poiché la frattura tra prassi e teoria è insanabile”.
Giorgio De Rienzo, Breve storia della letteratura italiana, Bompiani, 1997


-Presentazioine: Montaigne, addio. Anzi, arrivederci…

-Rousseau e lo Stato etico - mondoperaio 1/2013
-Il riformismo di Latouche - mondoperaio 11/2013
-Sartori. Che cos’è la democrazia - mondoperaio 5/2014
-Matteotti. Il pellegrino del fare - mondoperaio 6/2014
-2000-2015. Celebrazione di un latitante - mondoperaio 1/2015
-Padri e figli. L’aspettativa di Telemaco - mondoperaio 3/2015
-Rosmini. Il santo proibito - mondoperaio 7-8 /2015
-Craxi. Un destino cercato - mondoperaio 1/2016
-Comunitarismo e socialismo liberale - mondoperaio 3/2016
-Cesare Battisti. Un eroe conteso - mondoperaio 5/2016
-Auschwitz. L’angelo dagli occhi tristi - mondoperaio 11/2016
-Mani pulite. Venti (cinque) anni dopo - mondoperaio 2/2017
-Populismo. Cristo e Barabba - mondoperaio 4/2017
-Rileggere Montaigne - mondoperaio 7-8/2017
-Bolscevichi. La rivoluzione contro il socialismo - mondoperaio 10/2017
-La sinistra 30 anni dopo. Giustizialismo, E. Scalfari & C. - mondoperaio 4-5/2018
-Il Sessantotto bifronte - mondoperaio 9/2018
-Grande Guerra. L’inevitabile e l’imprevedibile -mondoperaio 11/2018

APPENDICE
-'Memento' controcorrente. Grande Guerra, racconto maccheronico
giornale “Trentino”, 30 novembre 2018



PRESENTAZIONE

Montaigne, addio. Anzi, arrivederci…
– una sfida alla politica gridata del nostro tempo –

PROLOGO – ZIBALDONE DI NOTE SCETTICHE E MITI *
● “Sopravvivono solo i figli di Caino. Abele - la saggezza biblica ce l’ha detto - è morto. È rimasto solo Caino, e noi siamo la sua progenie”, Francesco Alberoni, Valori ● “Le parole del disperato le rapisce il vento (6, 26), Dio tribola anche l’innocente (9, 20)”, dal biblico Libro di Giobbe ● “Fra Cristo e Barabba, la società civile scelse Ba-rabba”, Piero Ostellino, editoriale del "Corriere della Sera", 22 febbraio 2003 ● “Per interesse siamo onesti, per interesse siamo disonesti, e la virtù la pratichiamo finché c’è una speranza di guadagno, pronti a un voltafaccia se la scelleratezza promette di più”, Seneca, Lettere a Lucilio ● “Anche Caligola si presentò come moralizzatore e vendicatore delle offese precedenti; poi si vide l’opera sua”, Arther Ferril, Caligola ● “La rapina, l’assassinio, lo stupro lo chiamano governo e dove hanno fatto il deserto ivi dicono che regna la pace”, Tacito, Agricola ● “Eppur ricordate che i nostri aguzzini erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamen-te intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso… ma erano stati educati male”, Primo Levi, I sommersi e i salvati ● “Io sono passabilmente onesto, eppure potrei accusarmi di tali cose, che sarebbe stato meglio mia madre non mi avesse generato… siamo tutti canaglie perfette”, William Shakespeare, Amleto ● "Per ingannare il mondo, prendi la faccia che vogliono le circostanze, porta negli occhi, nella mano e sulla lingua il benvenuto, prendi l’aspetto del fiore innocente, ma sii il serpe che sta sotto”, W. Shakespeare, Macbeth ● “Un principe non può rispettare tutte quelle norme in base alle quali gli uomini sono considerati buoni, perché egli è spesso obbligato, per mantenere il potere, a operare contro la lealtà, contro la carità, contro l’umanità, contro la religione”, Niccolò Machiavelli, Il Principe, versione di Piero Melograni ● “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo ● Franz Tunda è privo di illusioni “come lo sono soltanto le donne che hanno una grande esperienza in amore”, Joseph Roth, Fuga senza fine ● “La vita sembra assai più reale quando tutte le illusioni spariscono, come la ci-ma delle rupi appare più netta all’orizzonte quando si dileguano le nubi”, Benjamin Constant, Adolphe ● “Nasci-ta, e copula, e morte./Tutto è qui, tutto è qui, tutto è qui,/Nascita, e copula, e morte”, Thomas S. Eliot, La terra desolata ● “Niente resurrezioni, per favore. D’inferni ne basta uno”, Fred Uhlman, Niente resurrezioni ● “So-spetta sempre quando qualcuno ti dice di avere le idee chiare, quando qualcuno ostenta una verità buona per tutte le cose. Parti sempre da un presupposto: le verità non sono mai piene; sono sempre parziali, sempre im-perfette”, J. D. Salinger, Il giovane Holden ● “Non siamo divisi in due squadre, i buoni e i cattivi. Ognuno di noi può essere entrambi”, Gore Vidal, commentando Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Robert Louis Ste-venson ● “Adesso che l’improbo è colpito, non colpitelo più forte”, Molière, Tartufo o l'Impostore ● “Il vero pec-cato non è commettere una infrazione alle leggi di nostro Signore, ché tutti siamo dei deboli mortali, ma fingere di essere virtuosi e agire da imbroglioni”, Emilio Lussu, Sul partito d’Azione e gli altri ● “L’indignazione perma-nente, lungi dall’essere un moto etico, è segno sicuro di bassezza morale”, Paul Valery, La crisi del pensiero ● “Criteri etici sbandierati con eccessivo favore celano i germi dell’intolleranza”, John Locke, Lettera sulla tolle-ranza● “La gente che trova sempre difetti negli altri, trovandoli descritti qui, potrebbe imparare a guardare in casa propria e a esaminare il proprio comportamento, e così forse si vergognerebbe di rimproverare agli altri i vizi di cui anch’essa è più o meno colpevole”, Bernard de Mandeville, La favola delle api ● “Da un legno storto, come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente dritto”, Immanuel Kant, Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica ● “Ne ho visti molti dar l’assalto al cielo,/e non c’eran stelle troppo grandi e distanti/(chi è in gamba ce la fa, la volontà apre/tutte le strade, col tempo e con la paglia)./Ma am-mucchiando montagne su montagne,/s’accorsero quanto pesava/anche solo un cappello di paglia”, Bertolt Bre-cht, Madre Courage e i suoi figli ● “Sono rari quelli che possono dire, secondo il mito platonico, di aver scelto liberamente il proprio destino”, Raymond Aron, Il concetto di libertà ● "Non sarebbe ora di rinunciare alle grida di speranza o di disperazione dei profeti?", Paolo Rossi, Speranze ● "Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti", Primo Levi, Se questo è un uomo ● “Essere miti, questo è es-sere forti”, Peleo al figlio Achille, in Omero, Iliade di Alessandro Baricco ● “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, B. Brecht, Vita di Galileo ● “... aspetto un lupo dai grandi occhi di agnello”, Dacia Maraini, Se amando troppo ● “Io vivo, dunque io spero… Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed è così impossibile a ogni vivente, come l’odio vero di se medesimo”, Giacomo Leopardi, Manuale di filosofia pratica ● “Ricordati che anche i giuristi, gli economisti, i medici saranno bravi giuristi, bravi economisti e bravi medici solo se avranno imparato come si legge veramente una grande poesia. Se no saranno solo dei mestieranti, e molto mediocri”, Roberto Cotroneo, Se una mattina d’estate un bambino – Lettera a mio figlio sull’amore per i libri.
* tratte dalle mie ricerche La vita è scettica e Breviario di politica mite (Temi Editrice)


Dedico a Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), libero pensatore francese, questa raccolta di articoli pubblicati tra il 2013 e il 2018 dalla rivista “Mondoperaio”, fondata dal leader storico del socialismo italiano Pietro Nenni e diretta da Luigi Covatta.
Nella presente pubblicazione appare un riferimento esplicito a quel per-sonaggio con una scheda di lettura che il direttore ha appropriatamente intito-lato Rileggere Montaigne (“Mondoperaio”, n.7-8/2017); l’addio si riferisce alla nostalgia per le modalità e i contenuti della sua ricerca, sempre problematica e ricca di sapiente incredulità: in tempi di lavaggi dei cervelli e di fake news sarebbe un bell’antidoto.
In queste pagine ho provato – si parva licet componere magnis – a commentare avvenimenti, personaggi, storie del passato e del nostro tempo con il metodo di Montaigne: cercando di leggere molto, traendo – come lui – «profitto dai ragionamenti e dalle idee» dei più grandi di noi. Come è giusto che sia e come è diventato esplicito nella vita intellettuale da quando il filosofo medievale Bernardo di Chartres coniò l’espressione che ci rappresenta come ''nani sulle spalle dei giganti'', non tanto per copiare i grandi pensatori del pas-sato remoto e prossimo ma per prenderli a modello e – ponendoci sulle loro spalle – provare a guardare più avanti e giungere a migliorare conoscenze e prospettive umane. Con l’umiltà tuttavia di accettare che solo grazie agli altri giungiamo ad una consapevolezza e forse ad una saggezza che non avremmo mai raggiunto da soli. Per poi riuscire ad ammettere – ecco il grande magiste-ro di Montaigne – che le nostre conoscenze, i nostri punti di vista, sono sem-pre parziali e che «non c’è niente di peggio al mondo di coloro che credono di sapere»: di qui il consiglio di coltivare l’arte del dubbio e l’elogio che Mon-taigne fa di Socrate, il quale «sa di non sapere», con l’invito infine a non prenderci troppo sul serio.
Moderno scettico, convinto che non ci siano verità assolute, e quindi pronto a ravvedersi quando necessario, Montaigne ci induce benevolmente ad essere aperti alla rettifica delle nostre convinzioni. Così anche la nostalgia ac-cennata all’inizio – con quell’addio quasi rassegnato a Montaigne – può tra-sformarsi in una speranza, in un arrivederci: contando di trovare anche nel nostro tempo – come proponeva Norberto Bobbio nel suo saggio Politica e cul-tura – il modo di riflettere dubitando, di giudicare con misura, senza abbando-narsi a soluzioni affrettate e alle verità di una parte sola, dunque con spirito critico, con volontà di dialogo, consapevoli della complessità delle cose*.
Allora arrivederci, signor de Montaigne, nostro maestro, nostro fratello.

* È questa una sfida politica senza tempo e una sfida ancor più precisa alla politica gridata del nostro tempo: ho attentamente meditato l’argomento anche in un conci-so saggio intitolato programmaticamente Breviario di politica mite. Lo potete trovare su www.socialistitrentini.it (n. z.)



1) Rousseau e lo Stato etico

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 1/2013 / / / / rousseau

È ricorso nel 2012 il 300° anniversario della nascita di Jean-Jacques Rous-seau. Nel corso dell’anno ho riletto un’importante opera che l’editore Laterza aveva pubblicato negli anni ’90 affidandosi a tre studiosi di vaglia come Cassirer, Darnton e Starobinski. Il titolo del libro, Tre letture di Rousseau, riflette le posizioni diversifi-cate degli autori. Ma è la stessa opera rousseauiana che si presta a plurime interpre-tazioni e si dimostra essa stessa ricca di paradossi: precorse il moderno individuali-smo in difesa dell’illimitata libertà del sentimento, della coscienza e del cuore oppure gettò le basi di uno statalismo che sacrifica l’individuo alla comunità, costringendolo a rinunciare alla libertà d’azione e perfino alla libertà di sentimento?
Nel Discours sur l’origine de l’inégalité l’uomo è buono per natura e diventa cattivo per via della società, che è causa della corruzione e dell’infelicità del genere umano. Nello stato di natura la diversità fra gli uomini è minima, mentre col bisogno di razionalizzare la fornitura del cibo nasce la coltivazione, la conseguente divisione della terra, i più forti hanno la meglio, sorge la proprietà privata: come l’animale di-ventando domestico perde metà delle sue doti, così l’umanità organizzata nella so-cietà si indebolisce e corrompe, soggetta com’è all’usurpazione dei ricchi e al brigan-taggio dei poveri. Quando poi l’uomo si mette a pensare, con la nascita della cultura, si corrompe definitivamente: noi cerchiamo di conoscere – sentenzia Rousseau – so-lo perché desideriamo godere, mentre non v’era nessuna condizione migliore di quella degli uomini selvaggi, di gran lunga più felice di quella degli uomini civili: «giova più in quelli l’ignoranza dei vizi, che in questi la conoscenza della virtù».
All’opposto nel Contrat social, anziché pensare di «tenere a freno il più possi-bile la società», Rousseau - leggiamo nel saggio di Ernst Cassirer – «annuncia ed esalta uno sfrenato assolutismo della volontà dello Stato». Siccome ci è precluso il ritorno alla semplicità e alla felicità dello stato di natura, gli uomini riacquistano la «vera libertà» rinunciando alla libertà originaria, all’indépendance naturelle, per ade-rire spontaneamente «all’unione di tutti nella legge»: l’individuo si pone sotto una obbligazione che viene da questi considerata come valida e necessaria e accettata perciò come se egli la ponesse a sé stesso.
Lo «stato di natura» rousseauiano assomiglia allo «stato originario» della dot-trina cristiana: l’evoluzione dell’uomo da essere naturale ad essere ragionevole è simile alla caduta nel peccato di Adamo ed Eva, i quali infranta la condizione prece-dente abbisognano di un aiuto, di una «redenzione divina» per salvarsi; in Rousseau la redenzione avverrebbe invece rinunciando all’impulso degli appetiti naturali – che sono «schiavitù» – per «obbedire alla legge che ci siamo prescritta»: è questa la ve-ra libertà, realizzata nella volonté générale, nella volontà che diventa quella dello Stato. Questa non è somma o compromesso fra gli interessi delle volontà individuali di tutti, è la volontà della maggioranza dei cittadini, che diventa maggioranza 'etica ' tesa «a fare e a educare i cittadini». Quello auspicato da Rousseau non sarebbe dunque lo Stato di «mera necessità», quello in cui l’umanità è posseduta dallo Stato senza poterlo formare liberamente promuovendo un ordine adatto a sé stessa. Per Rousseau non si tratta più dello Stato che secondo la pregnante definizione di Tommaso Moro «altro non era che una congiura dei ricchi contro i poveri»; ma non è neanche lo Stato di Voltaire o degli Enciclopedisti, di Diderot o d’Holbach, che non credono a cure radicali, che pensano a riforme lente. No, per Rousseau non era am-missibile patteggiare con la società esistente, né fare tentativi di miglioramento che riguardassero solo aspetti esteriori. Respingendo soluzioni parziali, Rousseau diventa il pensatore che ha dato impulso alle fasi più rivoluzionarie della storia moderna, giungendo ad assegnare allo Stato il compito «etico» - che precede ogni potestà – di «educare» i cittadini: lo Stato – leggiamo ancora in Cassirer – non si rivolge a soggetti già formati, il suo primo intento deve essere quello di «crearsi i veri sogget-ti ai quali possa rivolgere il suo appello».
Tanto radicalismo poteva effettivamente «liberare» l’individuo, ridargli le liber-tà conculcate? Ora, nel Contrat social «Stato e individuo devono ritrovarsi vicende-volmente», devono crescere e formarsi insieme: l’uomo non è per sé stesso né buo-no né cattivo, né felice né infelice, la sua forma è «plasmabile» e la forza che lo pla-sma è la società. I paradossi richiamati inizialmente paiono così stemperarsi, il Di-scours e il Contrat sembrano concatenarsi. Non si tratta più di ritornare allo stato di natura originario, 'bello ma impossibile', diremmo con lievi parole contemporanee: attraverso il contratto sociale – lo scandisco facendomi soccorrere dalle lezioni uni-versitarie di Storia delle dottrine politiche del prof. Enrico Opocher – i singoli indivi-dui cedono i loro diritti ma, a differenza della teoria sostenuta da Hobbes, questa cessione non avverrebbe a favore di un principe ma della collettività, per cui ognuno rinunciando ai propri diritti non li perderebbe ma li riacquisterebbe come membro della società; ciò che un individuo perde come uomo lo riacquista come cittadino.
Restano sul piano politico dei quesiti aperti: avevano ragione i tiepidi 'riformi-sti' dell’Enciclopedia secondo cui «la voce della ragione non è sediziosa né sangui-naria» e che dunque andavano cauti nei rimedi ai mali sociali per evitare che essi procurassero più crudeltà di quelle che volevano sanare? Oppure aveva ragione Rousseau nel suo radicalismo etico? Pare significativo questo passo del saggio di Robert Darnton: per Rousseau «le Repubbliche non traevano la loro vita da libere elezioni, bensì dalla cultura repubblicana: qualcosa che si consolidava fraternizzan-do nei club, gareggiando nelle competizioni all’aperto e unendosi al coro durante le celebrazioni civiche». Rileggiamo meglio: sì, per Rousseau «le elezioni contavano meno delle celebrazioni». Intravediamo un avvenire di adunate oceaniche e di para-te sportive e canore irreggimentate, un tripudio di inni per la novella austera Sparta ed il vituperio della più molle rediviva Atene. Non casualmente Bertrand Russel giunse a definire Rousseau «antenato dei nazisti e dei fascisti».
Allora, ci sovviene infine una dolce preferenza per i più miti illuminati Enciclo-pedisti, cultori di una 'ragione' che propone riforme lente, ma proprio per questo tan-to più sicure.

LIBRI:
-E. Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Tre letture di Rousseau, Laterza, Roma-Bari, 1994
-Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, Editori Riuniti, Roma, 2006
-Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino, 1980
-Enrico Opocher, Lezioni di Storia delle dottrine politiche, Cedam, Padova, 1963


2) Il riformismo di Latouche
>>>> Nicola Zoller


mondoperaio 11/2013 / / / / latouche

Non ci può essere decrescita 'felice' nel senso che è difficile trovare felicità in fallimenti con milioni di disoccupati sulla strada. Ma frugalità intelligente sì, sfron-dando le 'crescite' che non sono utili per essere davvero felici. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 30 marzo 2012 cita il caso 'felice' del Bhutan, lo stato alle pendici dell’Himalaya che ha sostituito il GNP (la sigla inglese che indica il PIL, pro-dotto interno lordo) con il suo GNH (Gross national happiness). Una felicità, un be-nessere, misurati su «la qualità dell’aria, le case costruite su terreni incontaminati, la salute dei cittadini, l’istruzione, la ricchezza dei rapporti sociali».
Ecco – credo – sia questo il giusto approccio all’esame del pamphlet di Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, resistendo da un lato alle critiche di chi bolla i teorici della decrescita come degli «ipocriti egoisti» che non considerano i diritti delle persone e dei popoli che sono 'indietro' ad accedere alla crescita; e dall’altro prendendo le distanze dall’elogio sperticato dei nostalgici di un primitivi-smo pauperistico dove non c’è mai stata serenità e convivialità. Partiamo da due considerazioni. L’economista Nicholas G. Roegen ha sostenuto una verità incontro-vertibile: «una crescita infinita è impossibile su un pianeta finito»; mentre Gandhi ha osservato che «il mondo è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti ma non abbastanza per soddisfare l’avidità di tutti, o anche di pochi».
In verità, non è un problema solo di avidità. Ad esempio noi abitanti del Nord del mondo consumiamo troppo, «troppo grassi, troppo zucchero, troppo sale; siamo minacciati dal sovrappeso, rischiamo il diabete, la cirrosi epatica, l’eccesso di coleste-rolo e l’obesità». Sarebbe dunque molto meglio usare l’abbondanza in modo 'frugale' (e così in effetti è intitolato il libro successivo di Latouche, Per un’abbondanza fruga-le, Bollati Boringhieri, Torino, 2012).
Nel Nord del mondo abbiamo questi problemi e tra poco vedremo quali solu-zioni propone Latouche. Ma nel Sud del mondo? C’è anche qui da lanciare «la sfida della decrescita», affinché quelle società non «vadano a cacciarsi nel vicolo cieco» delle società del Nord. Occorrerebbe partire dalla rottura con «la dipendenza econo-mica e culturale nei confronti del Nord», recuperando le tecniche e i saperi tradizio-nali. C’è un libro del 1978 di Albert Tévoédjrè, La povertà ricchezza dei popoli, che faceva «l’elogio della sobrietà, inscritta nella tradizione africana, denunciava la di-smisura della società della crescita, con la sua creazione deliberata di bisogni fittizi, la sua disumanizzazione prodotta dal dominio dei rapporti monetari e la sua distru-zione dell’ambiente; e proponeva un ritorno all’autoproduzione basata sul villaggio».
Idee perdute? No, se si persegue l’obiettivo di una 'buona vita', che comunque deve essere declinato in modi diversi a seconda del contesto. Gli africani «non an-cora diventati schiavi delle comodità moderne», potrebbero secondo Pierre Gevaert – che si rivolge all’ancora esteso mondo rurale – adottare alcuni di questi punti: non contare troppo sulle false ricchezze occidentali e dunque ritrovare un massimo di autonomia rispetto a esse; sostituire, almeno in parte, le monete cartacee stranie-re con una moneta di scambio locale; abolire progressivamente le monoculture da esportazione e sostituirle con colture alimentari non dipendenti da merci importate (concimi chimici, pesticidi, ecc.), ricorrendo al compostaggio, al letame e ad altre materie organiche; in caso di raccolti eccedentari, cercare di trasformare da soli le materie prime agricole, in modo da non entrare nel gioco dei mercati iniqui e da trarre vantaggio dal valore aggiunto della trasformazione; cucinare con il sole, nel forno solare che il falegname locale può costruire a un prezzo accessibile; creare quante più cisterne o bacini possibili per conservare l’acqua piovana.
Sono punti troppo limitati? Sì, ma sicuramente concreti. Però è chiaro che per la realizzazione di qualsiasi forma di alternativa nel Sud, «la condizione principale è la decrescita nel Nord». Se in Occidente riusciremo a dimostrare che la società della decrescita è un «modello desiderabile», anche nel Sud del mondo si farà strada questa idea; ed ancor a maggior ragione troverà spazio in quei Paesi emergenti che si stanno imponendo a livello planetario - Cina, India, Brasile - i quali «sanno che i costi ecologici della loro crescita annullano o superano i suoi benefici».
E veniamo dunque a quello che Latouche definisce un «Programma politico per la decrescita». Ripartiamo dalle premesse: «La nostra 'sovracrescita' economica si scontra con i limiti della finitezza della biosfera… Ogni volta che bruciamo un litro di benzina, abbiamo bisogno di 5 metri quadrati di foresta per assorbire il CO2». In generale «lo spazio bioproduttivo consumato procapite dalla popolazione mondiale è in media di 2,2 ettari… Una civiltà sostenibile richiederebbe di limitarsi a 1,8 ettari a persona, ammesso che la popolazione attuale rimanga stabile. Inoltre, questa im-pronta media nasconde disparità enormi. Un cittadino degli Stati Uniti consuma 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo 4,5, un francese 5,26, un italiano 3,8». E inol-tre: «ogni americano consuma circa 90 tonnellate di materiali naturali vari, un tede-sco 80, un italiano 50 (cioè 137 chili al giorno). In altre parole, l’umanità già consu-ma circa il 30 per cento in più della capacità di rigenerazione della biosfera. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero 3 pianeti, e 6 se tutti vivessero come i nostri amici americani».
È chiaro che ci vuole un programma stringente? Vediamone alcuni punti, se-condo il magistero di Latouche.
1. Recuperare un’impronta ecologica uguale o inferiore a un pianeta, con una drasti-ca diminuzione dei «consumi intermedi» intesi in senso ampio (trasporti, energia, imballaggi, pubblicità), senza colpire il consumo finale. Il ritorno al locale e la lotta agli sprechi daranno un contributo definitivo. In particolare, occorrerà integrare nei costi di trasporto, con le opportune ecotasse, i danni provocati da questa attività.
2. Rilocalizzare le attività, rimettendo in questione l’enorme volume degli sposta-menti di uomini e di merci sul pianeta.
3. Restaurare l’agricoltura contadina, e cioè incoraggiare una produzione il più pos-sibile locale, stagionale, naturale, tradizionale.
4. Trasformare gli aumenti di produttività in riduzione del tempo di lavoro e in crea-zione di posti di lavoro. In Francia – rammenta Latouche – nell’arco di due secoli la produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte, la durata del lavoro individua-le si è ridotta soltanto della metà e l’occupazione è aumentata soltanto di 1,75 volte, mentre la produzione è aumentata di 26 volte. Si tratta di ribaltare le priorità: divi-dere il lavoro e aumentare il tempo libero.
5. Stimolare la 'produzione' di beni relazionali, come l’amicizia o la conoscenza, il cui 'consumo' non diminuisce le scorte esistenti ma le aumenta. È «il godimento di ciò che non si compra: il piacere che danno una conversazione animata, un pranzo tra amici, un buon ambiente di lavoro, una città dove ci si sente bene, la partecipazione a questa o quella forma di cultura (professionale, artistica, sportiva…), e in più in generale tutte le relazioni con gli altri… Anche l’ultimo dei lupi della steppa – scrive Jean Paul Besset – sarà d’accordo: il 'relazionale' è la parte migliore delle gioie (e dei dolori) dell’esistenza».
6. Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie. Si potrebbe addirittura riprendere alla lettera la proposta di Nicolas Hulot: «Si dovrà studiare la possibilità di proibire gradualmente qualsiasi pubblicità durante i programmi destinati ai bambini, e in par-ticolare i messaggi che promuovono prodotti nocivi alla salute.
L’obiettivo è di limitare il condizionamento al consumo di telespettatori di un’età che non consente il distanziamento critico necessario rispetto agli stimoli pubblicitari».
7. Puntare sulla tassazione delle macchine, sulla detassazione del lavoro, sulle ri-forme fondiarie (ricostruire il ceto dei contadini) e su lavori che favoriscono i rispar-mi di energia e di consumo delle risorse naturali.
«È evidente – conclude Latouche – che l’uomo politico che proponesse un programma del genere e che, una volta andato al governo, cominciasse ad applicar-lo, sarebbe assassinato nel giro di una settimana. Con rara lucidità, in un discorso pronunciato all’ONU nel dicembre 1972, il presidente Salvador Allende, per l’appunto assassinato qualche mese più tardi per aver adottato una politica infinitamente me-no sovversiva di quella qui proposta, dava di quella politica una motivazione che ri-mane quanto mai attuale: "Siamo di fronte a un vero e proprio conflitto tra multina-zionali e stati. Gli stati non sono più padroni delle loro decisioni fondamentali, politi-che, economiche e militari, a causa delle multinazionali, che non dipendono da nes-sun stato. Le multinazionali operano senza assumersi nessuna responsabilità e non sono controllate da nessun parlamento o istanza rappresentativa dell’interesse ge-nerale. In poche parole, la struttura politica del mondo è stravolta"».
Si può sperare in un cambiamento 'praticabile'? Bisogna vedere dove si arriva: emblematicamente Latouche ricorda il programma del Partito socialdemocratico te-desco (SPD) del 1989, che prevedeva «la riduzione del tempo di lavoro settimanale a trenta ore su cinque giorni, a cui dovrebbe aggiungersi il diritto all’anno sabbatico e ai congedi pagati addizionali per i genitori di bambini piccoli e per parenti di perso-ne bisognose di cure». La SPD sosteneva anche la necessità della decrescita: «Deve diminuire e scomparire quello che minaccia di distruggere le basi naturali della vita», tra cui il nucleare e, in parte, l’automobile privata. Tuttavia il programma si fondava sull’idea che la razionalità ecologica e la razionalità economica (cioè capitalistica) po-tevano coincidere, secondo la famosa strategia del win-win (tutti vincono). «Alla lunga – si leggeva – ciò che è ecologicamente irragionevole non potrà essere eco-nomicamente razionale… Le esigenze ecologiche devono diventare i principi di base dell’attività economica. Se ci impegniamo a tempo nella modernizzazione ecologica, aumentiamo la possibilità di conquistare i mercati di domani e miglioriamo la compe-titività della nostra economia».
Il problema è che un programma ecologico non si attua – come non si è attua-to in Germania, né in Europa - se non «si mette in discussione la logica capitalisti-ca». E non solo: anche la logica di ogni società della crescita, di ogni società 'lavori-sta' va contestata: «Capitalismo più o meno liberista e socialismo produttivista – af-ferma Latouche – sono due varianti di uno stesso progetto di società della crescita». Occorre un superamento della modernità, possibilmente «senza eccessivi traumi». La prospettiva non è terroristica, con l’eliminazione tranciante dei capitalisti, l’interdizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, l’abolizione del lavoro salariato o della moneta. Latouche ammette che in una società del dopo sviluppo sa-rebbe ancora possibile parlare di monete e di mercati, di profitto e di salario: tutti istituti affermatisi nel tempo che ora dovrebbero essere 'reinquadrati' in un’altra lo-gica. Qui il discorso si fa complesso e possono insorgere contraddizioni.
È importante tuttavia sottolineare che la prospettiva indicata da Latouche si può definire 'riformista', nel senso che non intende sprofondare in guerre civili, co-me ci hanno abituato tanti visionari comunisti che hanno trasformato i sogni in ba-gni di sangue. Quello di Latouche è piuttosto un programma politico, la cui realizza-zione «obbedisce più all’etica della responsabilità che all’etica della convinzione». Spiega obbiettivamente: «La politica non è la morale e il responsabile politico deve fare dei compromessi con l’esistenza del male. La ricerca del bene comune non è la ricerca del bene assoluto ma quella del male minore. Anche se il realismo politico non consiste nell’adeguarsi alla banalità del male ma nel contenerla all’interno dell’orizzonte del bene comune. Di conseguenza, qualsiasi politica non può che es-sere riformista, e deve esserlo se non vuole sprofondare nel terrorismo».
Ricapitolando. Il progetto che chiameremo dell’abbondanza frugale è anticapi-talista per eccellenza, contro lo sfruttamento delle persone e delle cose; ma in quan-to antiproduttivista non può essere accasato negli schemi di una sinistra 'stakanovi-sta' e 'lavorista'. Piuttosto in quello di una sinistra riformista non violenta, che par-tendo dai valori tradizionali di solidarietà, di fratellanza, di redistribuzione delle ri-sorse e dei redditi punti decisamente alla «riduzione dell’impronta ecologica», cioè dello sfruttamento della natura; e al disconoscimento dell’etnocentrismo occidentale – cioè alla supremazia dell’uomo bianco mercantilista – a favore delle pluridiversità, dunque di un relativismo che premi una vera «democrazia delle culture». Con l’obiettivo di far emergere un 'ecoantropocentrismo' che - superando le tradizioni unilateralmente antropocentriche cristiane e marxiste, mai in grado di favorire un rapporto armonioso tra uomo e natura – valorizzi per sempre il rispetto della natura, l’altruismo, la convivialità.
Segnaliamo infine che c’è un Latouche italiano, con un libro da meditare in-sieme: è Andrea Segrè con Economia a colori (Einaudi, 2012).

LIBRI:
-Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2007
-Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
-Albert Tévoédjrè, La povertà ricchezza dei popoli, EMI, Bologna, 1985
-Andrea Segrè, Economia a colori, Einaudi, 2012


3) Sartori - Che cos’è la democrazia

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 5/2014 / / / / sartori

La democrazia in trenta lezioni è un libro scritto per la scuola dal prof. Giovanni Sar-tori dal quale possiamo ricavare utili avvertimenti per la nostra vita collettiva, tutti di vibrante attualità.
Cos’è la democrazia e quali sono i pericoli che incontra? Innanzitutto è 'demo-protezione', «protezione del popolo dalla tirannide»; solo in secondo luogo è 'demo-potere', «attribuzione al popolo di quote di effettivo potere». Per diffondersi nel mondo in modo non contradditorio, la democrazia deve primariamente essere 'de-moprotezione', badare quindi alle «strutture costituzionali», essere «liberaldemocra-zia». Non deve cioè trasformarsi in «tirannide della maggioranza» sulla minoranza, in un sistema dove la democrazia «è necessariamente un dispotismo», come ha os-servato il padre dell’Illuminismo Immanuel Kant. Il diritto della maggioranza a go-vernare deve inserirsi in «un sistema costituzionale che lo disciplina e lo controlla»: dunque, la maggioranza deve esercitare il potere non in forma assoluta – come av-veniva nelle democrazie delle polis antiche – ma in modo limitato e moderato. Fac-ciamo un esempio chiaro: non può imporre la propria religione o le proprie credenze agli altri.
'Demoprotezione' vuol dire quindi garantire il pluralismo, che significa tolle-ranza, un principio basato su tre criteri. «Primo: rifiuto di ogni dogma e di ogni veri-tà unica. Io devo sempre argomentare, dare ragioni per sostenere quel che sosten-go. Secondo: rispetto del cosiddetto harm principle: Harm vuol dire «farmi male, farmi danno». Il principio è allora che la tolleranza non comporta e non deve accet-tare che un altro mi danneggi. E viceversa, s’intende. Terzo: il criterio della recipro-cità. Se io concedo a te, tu devi concedere a me: do ut des. Se non c’è reciprocità, allora il rapporto non è di tolleranza». Col rifiuto di ogni potere monocratico e uni-formante, il pluralismo difende il dissenso e così facendo lo rende meno dirompente, «lo civilizza, lo modera, lo trasforma in un lievito benefico o anche in una discordia che si trasforma, alla fine, in accordo e concordia: punta su una diversità che pro-duce integrazione, non disintegrazione». Il multiculturalismo invece promuove la separazione, «l’identità separata» di ogni gruppo, anziché la «diversità integrata» come fa il pluralismo. «Il risultato – conclude Sartori – è una società a compartimenti stagni e anche ostili, i cui gruppi sono molto identificati in sé stessi, e quindi non hanno né desiderio né capacità di integrazione: il multiculturalismo non supera il pluralismo, lo distrugge»: ciò comporta un grave pericolo per la democrazia.
Un altro pericolo è che – in tempi di videocrazia – l’opinione pubblica venga distorta. Siccome in democrazia i risultati elettorali esprimono l’opinione pubblica, bi-sognerebbe che le elezioni per essere libere siano il risultato di opinioni effettiva-mente libere, cioè «liberamente formate»: se le opinioni sono imposte, le elezioni non possono essere libere. Il che significa che «le opinioni nel pubblico devono esse-re opinioni del pubblico, opinioni che in qualche modo e misura il pubblico si fa da sé». Ma come può formarsi un’opinione «veritieramente» del pubblico? Secondo Sar-tori si può tendere solo ad una opinione pubblica «relativamente autonoma», che sarebbe già una conquista. E cita Karl Deutsch, che ha immaginato i processi di for-mazione di un’opinione pubblica secondo il «modello cascata», di «una cascata d’acqua con molte vasche successive nelle quali ogni volta le opinioni che scendono dall’alto si rimescolano e ricevono nuovi e diversi apporti». Questo resta sempre un «costrutto fragile», che ai detrattori della partecipazione popolare fa muovere da sempre l’obiezione che comunque «il popolo non sa» o non sa abbastanza, mentre per governare – asseriva Platone – si richiede episteme, vero sapere. Ma quella era una obiezione che poteva preoccupare maggiormente nella antica democrazia delle polis greche, dove era il popolo assiso in assemblea a decidere direttamente.
Ora – continua il ragionamento di Sartori – nella nostra democrazia elettiva, dove il demos si limita ad eleggere i propri rappresentanti, il problema è minore: qui – anche se l’opinione pubblica non è completamente autonoma, anche se è vero che il pubblico può essere disinformato e «non sapere granché di politica» – con le ele-zioni non si decidono le questioni ma si «decide chi deciderà le questioni: la patata bollente passa così dall’elettorato agli eletti, dal demos ai suoi rappresentanti». Ma quest’ultimi – chiediamo – possederanno mai l’episteme, il vero sapere, oppure come pensava Platone dovremmo affidarci al 'filosofo-re', ai sapienti, ai competenti, ai tecnici in generale? È appunto una vexata quaestio, che anticamente veniva scaglia-ta contro il popolo e la democrazia «diretta» ed oggi contro quella «rappresentati-va». Però a quest’ultima - ci par di capire - secondo Sartori non ci sono valide alter-native. Non possiamo accogliere 'filosofi-re' senza che siano eletti. Ma non si può precipitare neanche nell’opposto, nell’ «infantilismo» di chi critica la democrazia rap-presentativa perché «poco partecipata», perché il cittadino dovrebbe «decidere in proprio le questioni, invece di affidarsi ai rappresentanti»: chiunque può compren-dere che nelle democrazie moderne – che non sono antiche città-stato con poche migliaia di abitanti – non può essere praticabile una democrazia governante diretta. D’altronde – ad avviso di Sartori – diventa anche pericoloso – oltre che impraticabile – proporre la figura di un cittadino-militante «che vive per servire la democrazia, in luogo della democrazia che esiste per servire il cittadino». È questo un perfezioni-smo che critica la democrazia rappresentativa in modo irresponsabile e immeritato: crea «una promessa troppo irraggiungibile per poter essere mantenuta». Il pericolo sta nel finire per ripudiare «la democrazia che c’è» – quella rappresentativa – recla-mando la «vera democrazia» che non c’è. E sovente chi la reclama altri non è che espressione di una élite che irretisce masse inermi e credule denunciando l’elitismo altrui.
Le masse irretite costituiscono un «problema» per la democrazia. Succede so-prattutto per i politici chi si ritengono di sinistra: «sinistra è altruismo, è fare il bene altrui mentre destra è egoismo, è attendere al proprio bene». Ma poi succede che «chi si fa vanto di moralità, di immoralità perisca…: se il potere corrompe un poco tutti, comunque più di tutti la sinistra al potere». Masse «tradite» dai politici, ma at-tenzione: un grandissimo pensatore spagnolo J. Ortega y Gasset nella sua opera preveggente scritta ancora negli anni ’30 del Novecento, La ribellione delle masse, parla di loro come di «un bambino viziato e ingrato che riceve in eredità benefici che non merita e che, di conseguenza, non apprezza». La democrazia trova qui il perico-lo più decisivo: è l’'iperdemocrazia', l’emancipazione priva di assunzione di respon-sabilità. Per Ortega «la massa non capisce che se ora si può godere di certi vantag-gi, ciò è dovuto al progresso, che è costato tanto sforzo delle persone impegnate, mentre le masse considerano il progresso come qualcosa di naturale, che non è co-stato alcun sforzo». Così vengono meno le discussioni, i conseguenti creativi dis-sensi che non piacciono all’uomo-massa. Abbiamo un uomo «infiacchito, invertebra-to» che si aspetta tutto dall’alto. Così rischia di cadere la democrazia, la democrazia liberale, l’unica democrazia «che c’è».

LIBRI:
-Giovanni Sartori, La democrazia in trenta lezioni, Mondadori, Milano, 2010
-José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE Editore, Milano, 2001

4) Matteotti - Il pellegrino del fare

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 6/2014 / / / / matteotti

Giacomo Matteotti era nato a Fratta Polesine nel 1885 da una famiglia prove-niente dal Trentino: il nonno Matteo – calderaio a Comasine di Peio – era sceso nel Polesine nella prima metà del 1800. Il figlio Girolamo allargò notevolmente l’attività paterna in campo commerciale e agricolo; Giacomo poté crescere in condizioni eco-nomiche favorevoli, che non lo distolsero dall’abbracciare fin da giovanissimo, as-sieme ai fratelli, la causa socialista. L’ambiente familiare progressista lo portò sedi-cenne ad aderire al Psi, colpito dalle condizioni di vita delle plebi polesane, condan-nate da sempre alla miseria e allo sfruttamento, e frequentemente soggette alle febbri malariche e alla pellagra. Matteotti dedicò la sua vita al riscatto della sua gen-te e del proletariato italiano collocandosi per sempre in primissimo piano tra le per-sonalità impegnate per i diritti civili e sociali delle classi popolari.
MATTEOTTI GIURISTA
Per cogliere appieno la visione politica che ha fatto di Matteotti un simbolo della lotta per la libertà vanno inizialmente menzionati due aspetti della sua vita che sono risultati meno trattati: parliamo del Matteotti giurista e del Matteotti economi-sta. Riscopriamo dunque la sua «passione giuridica».
Laureatosi in giurisprudenza nel 1907, cercò di conciliare la sua vocazione di studio-so con quella di leader politico, ma rammaricandosi – specialmente nelle lettere alla moglie Velia – della impossibilità di intraprendere la carriera accademica a più riprese propostagli dal suo maestro di diritto Luigi Lucchini. Matteotti si consacrò all’azione politica, che comunque risultò ben influenzata dalla sua «mente di giurista». Disse di lui Eugenio Florian, condirettore della Rivista di diritto e procedura penale: «Erano del suo ingegno, fra tante nobilissime, alcune doti, che fanno il giurista: l’acutezza e la limpidezza del pensiero, l’austerità del metodo, e, soprattutto, una potente facoltà di critica e insieme di sistemazione e sintesi». Ci ha lasciato pubblicazioni rilevanti, come La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, e Il pubblico ministero è parte, raccolti postumi con molti altri suoi interventi dall’editore Nistri-Lischi sotto il titolo Scritti giuridici.

Per Matteotti – come spiega oggi Carlo Carini – correva uno stretto rapporto tra lotta per il diritto e lotta per il socialismo, tra affermazione delle libertà civili e po-litiche del cittadino e la costruzione del socialismo. La politica, per essere morale (cioè indirizzata al bene della persona), non può mai rinnegare la propria derivazione giuridica. I mezzi per ottenere il fine non possono essere contraddittori rispetto all’obiettivo: il bene può essere ottenuto solo con l’esercizio personale della virtù e l’adempimento individuale e collettivo del proprio dovere. Di conseguenza una socie-tà più giusta non la si costruisce abbandonandosi quietamente ad un «concetto na-turalistico di evoluzione», ma abbracciando una più impegnativa «visione etico-giuridica di trasformazione»: tradotto in termini politici, il trapasso al socialismo non è una prospettiva scontata e irreversibile, un fatto meccanico: ma dipende – oltre che da condizioni oggettive – dalla volontà di tanti soggetti responsabili e da una efficiente organizzazione delle classi popolari, pronte ad affrontare possibili arretra-menti e sconfitte.
MATTEOTTI ECONOMISTA
Con questa «divisa morale», Matteotti non poteva che attivare uno scrupolo-so, quotidiano impegno attorno alle questioni da cui dipendeva la vita del popolo: questioni economiche, finanziarie, tributarie, che troviamo trattate nella raccolta Scritti economici e finanziari e nell’opera La questione tributaria.
Eletto deputato nel 1919, egli rappresentò subito una nuova figura – più mo-derna – di politico: in quel rutilante dopoguerra, infestato sia da demagoghi estre-misti che da pavidi rinunciatari, Matteotti si distinse per una concezione della politica legata alla concretezza, alla conoscenza tecnica dei problemi. Così assunse un ruolo di guida nel rinnovamento del movimento socialista, fornendo contenuti sempre più specifici e attuali alle tradizionali rivendicazioni per una più equa distribuzione del reddito e delle ricchezze. Matteotti divenne – racconta Paolo Giannotti – il contrad-dittore più acuto, capace e scomodo dei governi del dopoguerra, nella difesa più ostinata – perché più consapevole, data l’intima conoscenza dei problemi – degli in-teressi popolari. Di fronte al riaffermarsi del blocco borghese-agrario che intendeva scaricare sulle classi popolari le spese della guerra e della ricostruzione, per Matteotti occorreva dar luogo ad una serie di interventi radicali, dall’imposta diretta e pro-gressiva sui redditi all’imposta sui fabbricati, dalla tassazione delle aree edificabili e del loro incremento di valore fino ad una imposta patrimoniale straordinaria sui capi-tali privati.
Matteotti coglie qui la prospettiva di inserire – seguendo il magistero social-democratico di Otto Bauer – la funzione tributaria in una strategia di modificazione radicale dell’assetto sociale. Ad essa assegna il compito di perseguire obiettivi di «trasformazione della distribuzione del capitale»: l’imposta non è solo lo strumento tecnico finanziario per il reperimento delle risorse o per realizzare finalità socialmen-te notevoli, ma si connota di densi significati politici come strumento di «espropria-zione degli espropriatori». Sarebbe stata dunque la risposta adeguata alla ottusa ra-pacità delle forze capitalistiche – denunciata anche da Keynes nel suo libro Conse-guenze economiche della pace – la cui insaziabilità, dopo i guadagni eccezionali de-terminati dal modificarsi delle condizioni di mercato in occasione della guerra, impe-diva di riorganizzare l’apparato produttivo gonfiato in modo speculativo dalla guerra e dallo Stato.
LA VIA MAESTRA DEL SOCIALISMO RIFORMISTA
Emerge da queste iniziative la natura non arrendevole del riformismo di Mat-teotti. In effetti la sua azione fu improntata ad un intransigente rigore morale e – quando necessario – ad un acceso radicalismo, tanto da ricevere spesso accuse di estremismo dalla stampa borghese e di massimalismo all’interno del Psi. Ma, come osserva Stefano Caretti, Matteotti non si scostò mai dal socialismo gradualista, da quel socialismo «padano» da costruirsi attraverso un’azione organizzata quotidiana, come egli confermò in uno scritto del 1919: «Giorno per giorno gli operai nella fab-brica, i contadini sulla terra, gli impiegati nel loro lavoro, si devono foggiare i loro or-gani, le loro capacità, imponendoli alla borghesia, come successive conquiste. E le conquiste politiche non servono per instaurare il socialismo con un decreto. Bensì ci servono prima come critica al regime borghese; poi come addestramento dei lavora-tori alla gestione del pubblico bene e alla conoscenza dei grandi interessi collettivi; infine per difendere e imporre alla stessa borghesia istituzioni sempre più conformi all’interesse del proletariato, costituendo coi comuni socialisti, con le scuole, con le cooperative […] tanti nuclei pronti per il domani».
E sempre nell’estate, di fronte alle agitazioni contro l’aumento dei prezzi cul-minate nel saccheggio di negozi e di mercati, ammoniva: «Il socialismo non è via fa-cile e piana; non è l’albero della cuccagna, è via lunga ed aspra, il sacrificio dei pro-pri egoismi immediati alla collettività fraterna degli uomini». Con queste idee e que-sti sentimenti – racconta Caretti – Matteotti si occupò di associazioni operaie, impre-se cooperative agricole e di consumo, leghe, Camere del lavoro, circoli ricreativi ed educativi, ospedali, biblioteche, asili, municipalità socialiste a cui prestava con assi-duità i propri consigli tecnici e amministrativi. Questo era appunto nei fatti il suo ri-formismo: non un generico ideale umanitario né tanto meno un impaziente rivolu-zionarismo velleitario; ma un metodo, volto ad indirizzare a buon esito un processo di trasformazione delle condizioni del proletariato e di profonda riforma delle leggi.
LA DIFESA DEL PARLAMENTO CONTRO IL FASCISMO
È nella sua successiva azione parlamentare – svolta dal 1919 al 1924 – che Matteotti conferma la sua posizione su due punti fondamentali: il riformismo e il ruolo del Parlamento. Come spiega Mario Quaranta, Matteotti è un socialista riformi-sta, vale a dire un socialista che ha rifiutato lo strumento della violenza per la presa del potere, nella persuasione che il socialismo si raggiunge attraverso riforme com-piute con metodo democratico. In lui insomma non c’è dissociazione tra i due termini – democrazia e socialismo – ma la difesa di un gradualismo come la via più adegua-ta allo scopo: quello di ottenere il consenso popolare attraverso un lungo e tenace lavoro nella società civile, conquistare la maggioranza elettorale, e mediante essa realizzare una società nuova. In questa ottica egli ha difeso il Parlamento come l’istituzione fondamentale del confronto e delle decisioni politiche; in particolare ha considerato le libertà e le istituzioni democratiche una conquista irreversibile delle lotte condotte dalla borghesia e dal proletariato. Per ciò ha sempre respinto una ri-duzione delle prerogative e dei poteri del Parlamento, in nome dell’efficienza, dell’economia, di emergenze variegate o d’altro ancora. È stata questa la radice del-la sua intransigenza contro il fascismo e della sua fiducia nella democrazia e nella ragione.
PER LA LIBERTA’, NO ALLA VIOLENZA E AL COMUNISMO
A questa linea si collega anche la sua chiara posizione contro il comunismo. Dopo la scissione comunista consumatasi al congresso Psi di Livorno, nel corso del 1921 Matteotti sottolineò in più occasioni l’urgenza di abbandonare le suggestioni dell’estremismo e dei miti rivoluzionari alimentati dagli eventi russi. Denunciò quindi la inconciliabilità più assoluta tra i principi socialisti e i miti della «dittatura», soste-nendo la pluralità dei partiti, il nesso tra libertà e socialismo, confermando il concetto di «lotta di classe» sul terreno politico ed economico, ma respingendo quello violen-to di «guerra di classe». Purtroppo la polemica scatenata dai comunisti contro i so-cialisti – specialmente attraverso la rivista L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci – non giovò al popolo italiano, che si ritrovò di lì a poco tra le braccia del fascismo. E sem-pre di Gramsci dobbiamo registrare la sprezzante definizione che lanciò contro Mat-teotti a pochi giorni dal suo funerale: giunse a definirlo «pellegrino del nulla», un sostenitore di idee «senza risultato e senza vie d’uscita».
Ora, abbiamo visto che Matteotti fu proprio l’opposto di un agitatore propa-gandistico e inconcludente: fu il leader di quel socialismo «propositivo» capace di indicare le vie operose per organizzare le classi popolari e per attrezzarle cultural-mente con una «dura preparazione» sulle questioni economiche e amministrative, oltre che politiche. Piero Gobetti – il giovane «rivoluzionario liberale» che cadrà anch’egli vittima dei fascisti – negli stessi momenti dell’invettiva gramsciana indivi-duerà invece in Matteotti «l’avversario vero» del fascismo, l’unico in grado di unire le forze per opporvisi, anche per la tenacia «tecnica» con cui affrontava il nuovo re-gime.
Contro il fascismo – scrisse Gobetti – Matteotti volle anche muovere «que-stioni di dati e di documenti», riguardanti pure l’affarismo dell’entourage mussoli-niano e della monarchia, sicché i fascisti individuarono in lui «il capo di uno Stato Maggiore» dell’unica opposizione davvero pericolosa e per questo da eliminare. Rammento in conclusione che anche dalla nostra terra alpina si alzarono per Mat-teotti parole di ammirazione e di ringraziamento che ancora commuovono. L’on. Karl Tinzl, ricordandone la difesa degli altoatesini di lingua tedesca – difesa che i sociali-sti italiani continuarono con Ernesta Bittanti Battisti prima, e con la promozione per l’Alto Adige e il Trentino del Pacchetto d’Autonomia poi – scrisse al gruppo parlamen-tare socialista unitario nel giugno 1924: «L’abbiamo ammirato sempre per il suo al-tissimo senso ideale, la sua profonda competenza e le sue qualità di uomo e parla-mentare intrepido e fedele ai suoi ideali. Gli dovevamo speciale riconoscenza per l’interesse che incontravamo sempre in lui per i diritti e problemi delle minoranze al-logene». Anche per il Trentino-Alto Adige il sacrificio di Matteotti non è stato vano e la sua opera non resta senza memoria: apostolo laico della libertà, l’esatto opposto di «pellegrino del nulla».

LIBRO:
-Stefano Caretti, Il riformismo di Giacomo Matteotti, in Giacomo Matteotti, la vita per la demo-crazia, ed. Minelliana, Rovigo, 1993
-Carlo Carini, Il pensiero giuridico di G. Matteotti, ibidem
-Paolo Giannotti, Matteotti e la finanza pubblica (1919-1921), ibidem
-Mario Quaranta, L’immagine di G. Matteotti nella pubblicistica radical-socialista e comunista, ibidem

5) 2000-2015: Celebrazione di un latitante

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 1/2015 / / / / craxi

C’è una sorta di amnesia collettiva sotto la seconda Repubblica italiana: ri-guarda la storia del più vecchio partito della sinistra fondato a Genova nel 1892, precisamente la storia del socialismo italiano, espunta dalla memoria comune grazie anche alla caparbia ostilità di vecchi e nuovi politici illiberali e di intellettuali faziosi col paraocchi. C’è il caso esemplare di Paul Ginsborg, storico inglese naturalizzato italiano, docente all’Università di Firenze, che racconta all’incredulo Vittorio Foa di non aver inserito il Psi e i socialisti nella sua einaudiana Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988 semplicemente perché a suo avviso i socialisti «non esistevano». Foa – che dirigente socialista nel dopoguerra lo è stato a lungo, oltre che punto di riferimento per tutta la sinistra italiana – rivela incredulo questa assurda considerazione nella sua opera Il cavallo e la torre edita nel 1991. Anche le date sono qui importanti per capire il senso delle cose: la ponderosa 'Storia ' di Gin-sborg è stata pubblicata nel 1989, pensata e scritta proprio in quel decennio in cui gli esponenti del Psi accedevano alla presidenza della Repubblica e del Consiglio dei ministri, dunque in un periodo di massima visibilità e ben prima della caduta del Psi sotto le macerie di Tangentopoli. Lo sottolineiamo perché anche da questo elemento appare plausibile che le accuse di corruzione che hanno contrassegnato la fine del Psi tra il 1992/1993 si siano incanalate in una intenzionale, deviante operazione di pulizia storico-politica – e poi di polizia tout court – preordinata da tempo.
Cosicché è stato più agevole utilizzare le vicende giudiziarie nel crudo confronto po-litico dei primi anni ’90. Francesco Alberoni – in Valori, Rizzoli, 1993 – rammenta che soprattutto nelle fasi di transizione «la lotta politica è praticamente tutta combattuta con accuse di immoralità») per conseguire l’obiettivo politico di una cinica damnatio memoriae annullando la presenza del Psi, non solo di quello 'craxiano' degli anni ’80, ma - come abbiamo visto con la storia ginsborgiana – di tutto il dopoguerra!

Epperò l’obiettivo principale riguardava proprio il riformismo del periodo cra-xiano, come spiega Bruno Pellegrino con L’eresia riformista - la cultura socialista ai tempi di Craxi (Guerini e Associati ed., 2010). Commentando questa argomentata ricerca, Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera” del 13 aprile 2010 rilevava che si è relegato nell’oblio quel mosaico riformista che aveva interessato ogni comparto della cultura, portando «una ondata di riflessioni e innovazione dalle nuove professioni all’informazione, dal cinema all’arte, dall’architettura alle scienze giuridiche, dalla storiografia alla politologia». Col paradosso – aggiungeva – che chi nella sinistra po-litica aveva ingiuriato fino ad un momento prima il riformismo in odio ai socialisti, ha poi cominciato a farsene all’improvviso interprete e vessillifero. Interprete «insince-ro» però, precisa Battista. Sì, perché i parvenu del riformismo non possono che pro-cedere verso una «desolante parabola», incapaci come sono di riconoscersi fino in fondo nella cultura riformista, cioè in quei valori che il Psi – tanto disconosciuto e dimenticato nella stagione politica della seconda Repubblica – aveva saputo rappre-sentare e precisamente: «la cultura di governo, l’attenzione alla modernità, il rifiuto dei pregiudizi ideologici, il gradualismo, il garantismo, il rifiuto dell’autoritarismo, in-somma tutto il meglio del riformismo socialista». Questa è una storia da studiare e da riscoprire: perché – ricordava ancora Battista – «malgrado le perplessità di Paul Ginsborg» – non a caso diventato poi vate dell’area sinistro-giustizialista e dell’effimero (questo sì) movimento dei 'girotondi' con Pancho Pardi – «il riformismo socialista è esistito davvero». E può essere ancora un riferimento non solo utile ma necessario per la rinascita di una moderna sinistra italiana. A quindici anni dalla morte di Bettino Craxi vorremmo qui proporre alcuni meditati spunti, tratti principal-mente proprio dalla rilettura della ricerca – ancora di grande attualità – di Bruno Pel-legrino.

1. Ecco come viene concisamente definito il 'riformismo' da Antonio Giolitti, quando questi diventa ministro del Bilancio nel 1963: «L’esperienza di governo im-munizza una volta per sempre contro il rischio del fanatismo, obbliga a tenere aperti gli occhi di fronte alla realtà… Questa esperienza io feci allora, con indimenticabile trepidazione, e ne ho acquisito la vocazione ad un incorreggibile riformismo: a guar-dare bene la realtà nei dettagli, nelle minuzie, ma conservando la capacità di alzare lo sguardo verso obiettivi più lontani e ambiziosi. Insomma, mi sono trovato costret-to a imparare che nell’esercizio dell’attività politica in democrazia l’etica della convin-zione non può mai essere disgiunta dall’etica della responsabilità, anzi questa condi-ziona quella».
Questo nuovo quadro culturale, questa nuova visione dell’azione politica, con-tagerà in maniera permanente la parte più moderna del mondo politico progressista italiano, della cultura, del mondo del lavoro e della produzione, con riverberi diretti sulla crescita economica e civile dell’Italia. È infatti in questa temperie che si produ-ce uno dei fenomeni più miracolosi e duraturi della vita nazionale come testimonia il prof. Carlo M. Cipolla, tra i più autorevoli storici economici europei: «Dal 1950 al 1990 il reddito nazionale cresce di circa cinque volte collocando l’Italia fra i Paesi a più elevato tenore di vita nel mondo».
2. Sulle differenze tra socialisti e comunisti (differenze che risalgono alla scis-sione dal Psi imposta da Mosca, che portò alla nascita del Pci nel 1921) c’è un flash illuminante su una personalità come Rodolfo Morandi, che diresse l’organizzazione del Psi a cavallo tra gli anni 1940-1950. Prima di bruciare sull’altare dell’unità fronti-sta social-comunista (1948) tante «intuizioni feconde», per Morandi fu chiara la di-stanza che separava i socialisti dai comunisti nell’intendere il rapporto fra classe e partito. «I primi pensavano – e Morandi era fra questi – che è la massa ad esprimer-si attraverso il partito, mentre i secondi ritenevano che il partito è lo strumento per manovrare le masse».

È questa una visione contrastante che più avanti sarà così spiegata in termini filosofici da Norberto Bobbio su “Mondoperaio”, rivista teorica del Psi fondata da Pie-tro Nenni: «Per caratterizzare questa differenza in una parola, parlerei di una con-cezione laica della storia contrapposta a una concezione totalizzante, dove per con-cezione laica della storia s’intende che la storia non soltanto è fatta dagli uomini, ma per essere realmente umanizzata non deve essere concepita come fatta da uomini che si credono in possesso, come dei, di una verità assoluta da imporre anche ai re-calcitranti»; insomma una concezione laica «dove non vi è più posto per i prìncipi, né per il vecchio principe cui Machiavelli aveva affidato il compito di liberare l’Italia dal 'barbaro dominio', né per il nuovo principe – il partito – cui Gramsci affidava il compito di trasformare la società».

Sempre in tema di differenze tra socialisti e comunisti, Bobbio declinerà poi di-rettamente sul piano politico con un intervento sul giornale “La Stampa” del 1°settembre 1978 la sua propensione filo-socialdemocratica, bocciando – in appog-gio a Craxi – la vaga proposta del Pci di Berlinguer di una 'terza via' tra comunismo marxista-leninista e socialdemocrazia: «Personalmente propendo a credere che que-sta terza via non esiste da nessuna parte e che sia un errore – dovuto a comprensi-bile ma non irreprensibile amor proprio, una volta bloccata e quindi irripetibile la via leninista, come gli stessi comunisti lasciano credere – voltare le spalle sdegnosa-mente alla via già percorsa, anche se incompiuta e irta di ostacoli, delle socialdemo-crazie europee, e sforzarsi di escogitare nuove soluzioni anziché fare il ben più meri-tevole sforzo di seguire coloro che ci hanno preceduti. L’esito della socialdemocrazia non è garantito? Ma è pur sempre meglio una via in cui il successo non è garantito che non quella in cui la storia ha ormai dimostrato essere garantito l’insuccesso… Non vedo come, escluso il leninismo, il movimento operaio italiano possa fare a me-no di confluire nel grande fiume della socialdemocrazia, rinunciando al progetto af-fascinante ma inafferrabile di scavarsi un proprio letto, destinato probabilmente ad accogliere una corrente di debole impeto e di corso breve».

3. Riportiamo ora un ampio passo sulle origini dei retropensieri che hanno im-pedito in modo persistente alla sinistra italiana di derivazione comunista di inserirsi nell’alveo della sinistra socialdemocratica e laburista europea. Di fronte alla consa-pevolezza del declino inarrestabile della propria ortodossia, della fine della spinta propulsiva del comunismo e per sfuggire al confronto con l’eresia dei riformisti – gli avversari delle origini che con Craxi hanno assunto le vestigia di un nemico abbiet-to, «un avventuriero e un bandito» da abbattere, scriverà nei suoi appunti Antonio Tatò, segretario di Berlinguer – il Pci negli anni Settanta «trova conveniente abban-donarsi all’abbraccio con l’altra ortodossia italiana, l’integralismo cattolico nella ver-sione cattocomunista. Si consuma così – osserva Pellegrino – un matrimonio mono-gamico fra comunisti e sinistra cattolica che non sarà mai più rotto e che produrrà effetti profondi sul Pci e sui destini dell’intera sinistra italiana. Il cattocomunismo si rivela un albero robusto, con radici profonde in grado di sopravvivere al cataclisma del 1989 con la fine del comunismo sovietico e al crollo della prima repubblica. L’intreccio culturale e politico che si compie in seno al Pci fra l’integralismo cattolico e comunista pone una pietra tombale sulle aspirazioni della corrente riformista del Pci di portare il partito all’approdo socialdemocratico europeo e di dar corpo con i so-cialisti italiani a una grande formazione politica in grado di porsi come alternativa di governo, in un quadro di riferimento occidentale. Paradossalmente, mentre il Psi continua incessantemente a ripensarsi e a cambiare per tenere il passo sulle innova-zioni del socialismo europeo, il Pci non darà mai corso a una sua Bad Godesberg, ad una revisione profonda in senso socialdemocratico. L’idea, la pratica e finanche l’espressione 'revisionismo' continueranno ad essere inaccettabili per la maggioranza dei comunisti italiani. Il Pci – 'gladius Dei', secondo la definizione di Franco Rodano, consigliere di Berlinguer – finisce col sommare al proprio dogmatismo marxista-leninista, ancorché in disarmo, il dogmatismo dei cattolici comunisti entrambi anco-rati all’assunto di un loro ruolo superiore e messianico nella storia e nei destini del Paese. Ne sortiscono teorie politiche che non hanno riscontro nel resto d’Europa e due generazioni di dirigenti politici e d’intellettuali che, smarriti, si pongono alla ri-cerca di indefinibili terze vie. Si predica un’austerità prossima al luddismo, si teoriz-zano superiorità e diversità etiche e antropologiche, si sostituisce la giustizia giusta con il giustizialismo, la morale con il moralismo, si coltiva il rancore per l’Occidente e gli avversari, si professa il terzomondismo e il pacifismo filosovietico».

4. Giungiamo ora ad un passaggio centrale. Ecco come Luciano Pellicani, uno degli studiosi più originali del riformismo socialista, espone su “Critica Sociale”, n.2/1980, la visione progressista del Psi craxiano, che si potrebbe definire 'neoillu-minismo riformatore' specchiandosi nelle pratiche liberal-socialiste e socialdemocra-tiche europee: «Ci sono due modi – scrive Pellicani – di intendere il progresso: c’è il modo romantico e c’è il modo illuministico. Per le filosofie romantiche della storia, il progresso è una irresistibile legge fondata sulla struttura della realtà. Negli scritti di Comte, Hegel, Marx il processo storico è visto come un traffico a senso unico, come una successione di avvenimenti messi a scala. Ognuno di questi avvenimenti è ne-cessario e rappresenta, sempre e comunque, un passo avanti verso la meta finale, che è ciò che tutta quanta l’umanità, lo sappia o no, desidera ardentemente. Ne consegue che l’idea di regressione storica è bandita. Tutto ciò è assai consolante, ma anche illusorio». Per Pellicani esiste un altro modo di concepire la storia che evi-ta sia il conservatorismo paralizzante delle teorie che negano l’idea stessa di pro-gresso che l’illusorio ottimismo dello storicismo romantico: «Tale modo è quello illu-ministico. Anche l’illuminismo ha prodotto filosofie progressiste. Ma l’illuminismo non concepisce il progresso come una necessità storica. La concezione illuministica del progresso è problematica. Si basa sulla categoria della possibilità anziché su quella della necessità. In quanto socialisti non possiamo non appoggiarci a una filosofia progressista. Falsa è l’idea di trasformare il progresso in una legge necessitante e consolatoria, non già la convinzione ragionata che possiamo compiere ulteriori passi nella direzione di una società più vicina alla costellazione dei valori liberal-socialisti».
5. Gli anni Ottanta furono anni fervidi per il riformismo socialista italiano, non solo perché coincisero con il lungo periodo dei governi Craxi, ma anche perché sul piano teorico vennero rinverdite e reinterpretate le fertili teorie revisioniste del so-cialdemocratico tedesco Eduard Bernstein (1850-1932) e di un altro grande pensa-tore italiano Carlo Rosselli, autore dell’opera Socialismo liberale scritta al confino di Lipari ove il regime fascista lo aveva relegato prima di assassinarlo nel 1937. Questo fervore intellettuale porterà il socialismo italiano guidato da Craxi ad anticipare di qualche lustro una visione utile per tutti i progressisti europei del XXI secolo, mentre la sinistra comunista italiana sta ancora a fare i conti coi residui del leninismo. Al proposito Piero Fassino, personalità di primo piano del Pci e poi di Pds, Ds e Pd, am-metterà in modo sferzante e autocritico verso la sinistra comunista e postcomunista: «Craxi è uomo profondamente di sinistra. Autonomista, anche all’epoca del Fronte popolare, ha uno spiccato senso dell’identità socialista rispetto all’area maggioritaria della sinistra italiana, quella comunista. Certo, Craxi non esita a fare della competi-zione a sinistra, puntando ad accrescere le difficoltà del Pci, inducendoci a reagire nel modo peggiore, con un più alto livello di conflittualità. Ma resta il fatto che il Pci non appare capace, negli anni ’80, di affrontare il tema della modernizzazione dell’Italia, spingendo così ceti innovatori e produttivi verso chi, come Craxi, dimostra di comprenderli» (cfr. P. Fassino, Per Passione, Rizzoli, 2003).
Altro che anni dissipati, rappresentati da una frivola 'Milano da bere', l’icona spregiativa cui la propaganda populista di fine secolo volle ricondurre gli anni Ottan-ta! Furono anni impegnati nel «governare il cambiamento» attraverso una attiva meditazione teorica: il socialismo non viene considerato come una meta prefissata meccanicamente, ma come un metodo d’azione («il movimento è tutto, il fine è nul-la» affermava Bernstein nella sua opera I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). La socialdemocrazia è concepita come «liberalismo organizzato-re» che promuove una giustizia retributiva atta a ben temperare l’economia di mer-cato.
I Club socialisti, partendo dagli studi di Paolo Sylos Labini sulle classi sociali, anticipano nel marzo 1981 la teoria dei «meriti e bisogni» che Claudio Martelli, vice-segretario del Psi, proporrà alla Conferenza socialista di Rimini del 1982: «Le rivolu-zioni tecnologiche – scrive a nome dei Club socialisti lo stesso Bruno Pellegrino – comportano profonde trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, l’emergere di nuove figure professionali, l’estendersi della fascia di lavoratori intellettuali addetti all’organizzazione della produzione, dei quadri intermedi, dei tecnici ad alta specia-lizzazione. Gli sviluppi tecnologici favoriscono, nelle società contemporanee avanza-te, una riduzione del bisogno di mano d’opera nell’industria, mentre i servizi assor-bono progressivamente occupazione e migliorano la qualità dell’offerta. Questa ten-denza, visibile in tutti i paesi del mondo occidentale sviluppato, in Italia è accompa-gnata da un diffuso pregiudizio, soprattutto della cultura vetero-marxista, quasi che il settore dei servizi sia sinonimo di spreco e di inefficienza, un costo da ridimensio-nare. Si pone la questione della cosiddetta ‘centralità operaia’ che tanto ha condi-zionato la cultura politica della sinistra italiana. Senza un allargamento del consenso ai ceti emergenti, ai ceti professionali, agli addetti ai servizi è impossibile una politica di progresso e di riforma in un sistema democratico. I lacci e lacciuoli di una visione schematica delle classi e dell’organizzazione produttiva devono assolutamente salta-re».

Argomenterà poi Martelli alla Conferenza riminese teorizzando l’alleanza tra il merito e il bisogno (si veda anche l’articolo rievocativo sul n. 3/2009 di “Mondope-raio”): «Le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità, sono le persone utili a sé e utili agli altri, coloro che progrediscono e fanno progredire un insieme o l’intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze: sono coloro che 'possono' agire. Le donne e gli uo-mini immersi nel bisogno sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, coloro che sono emarginati o dal lavoro o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute: sono coloro che 'devono' agire. Senza tener ferma questa al-leanza, questa duplicità di destinatari, il riformismo moderno rischierebbe di dege-nerare in opportunismo, o di rifluire nel classico massimalismo. Ancora, se separiamo il merito dal bisogno, il riformismo diviene o tecnocrazia o assistenzialismo; se inve-ce uniamo o alleiamo il merito e il bisogno, il riformismo moderno può produrre una svolta all’altezza dei tempi, può interpretare il tempo, può governare il cambiamen-to».
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Poi venne 'Tangentopoli' a seppellire nel discredito una delle stagioni più pro-lifiche del riformismo italiano, un’eresia appunto. Ma questa è un’altra storia. O no? Scrive l’ambasciatore ed editorialista del “Corriere della Sera” Sergio Romano in Finis Italiae (ed. All’insegna del pesce d’oro, 1995): «Intravedo all'orizzonte un'altra menzogna: gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma ce-deranno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo da que-sto peccato. E dopo, temo, avranno un'altra ragione per disprezzarsi». A tale propo-sito - aggiungo - è probabile che l'autodisprezzo lieviterà ancora quando, raggiunta la consapevolezza di aver fatto dei socialisti i principali capri espiatori della cattiva coscienza nazionale, rileggeranno gli inascoltati richiami alla mitezza dei pochi ga-rantisti che provavano a proporre un richiamo al discernimento ed alla moderazione durante la tracimazione dell'ondata illiberale e giustizialista degli anni '90. «La molla di Craxi non era l'arricchimento personale, ma la politica»: parole inascoltate dalla turba e dai capipopolo a cui conveniva dipingere il leader socialista come un ladro, addirittura un «criminale matricolato». Peccato, perché le inascoltate parole sopra ci-tate provengono dall' insospettabile magistrato Gerardo D’Ambrosio – vicecapo del pool milanese 'Mani pulite' – e sono state riportate in una intervista a “Il Foglio” del 23 febbraio 1996.
D'altronde molti degli ostili avversari di Craxi si finanziavano ben più corpo-samente del partito socialista, avendo nel contempo l'impostura – che Craxi per schiettezza non ebbe – di negare che la politica ha dovuto anche ricorrere a finan-ziamenti 'aggiuntivi' rispetto a quelli ufficiali. Si poteva e si doveva trovare una solu-zione politica generale al problema del finanziamento dei partiti, un problema non solo italiano ma europeo. In Italia negli anni ’90 si preferì la via giudiziaria, colpendo taluni e salvando altri, soffiando sul fuoco della protesta concentratasi nel referen-dum che abolì a furor di popolo il finanziamento pubblico ai partiti; salvo poi proce-dere – dopo aver eliminato gli avversari – a ridicolizzare il verdetto popolare moltipli-cando per almeno cinque volte il finanziamento statale alla politica con la formula dei 'rimborsi elettorali' (da moltiplicare impietosamente ancora, se vi aggiungessimo i 'rimborsi' a livello regionale, davvero vaso senza fondo di cui resta emblematico rappresentante 'er Batman', Franco Fiorito, capogruppo Pdl laziale, ex-fascista noto – prima di dedicarsi agli sperperi – per aver partecipato, assieme a ex-comunisti e neo-giustizialisti al maramaldesco lancio di monetine contro Craxi di fronte all’hotel Raphael). Emilio Lussu, spirito libero della sinistra italiana, avrebbe commentato: «Il vero peccato non è commettere una infrazione alle leggi di nostro Signore, ché tutti siamo dei deboli mortali, ma fingere di essere virtuosi e agire da imbroglioni» (solo per il 2017 è stato previsto il venir meno di detti rimborsi elettorali, abolizione azio-nata dopo l’emersione di come farisaicamente si finanziava la politica nel ventennio post-'Mani pulite').

Su Bettino Craxi piombò infine anche la reiterata invettiva di «immorale lati-tante» per essere espatriato in Tunisia – dove morì in semplicità, 'fuor dagli ori e dagli agi' immaginati dagli avversari – rifiutando i processi politico/giudiziari intenta-tigli in patria. L’élite in malafede e la moltitudine degli sprovveduti fingono di igno-rare o ignorano proprio che egli è in buona compagnia: «latitanti» (secondo il gergo tecnico-carcerario), «fuoriusciti», «rifugiati», «esuli» (nel lessico letterario più genti-le) furono Garibaldi, Turati e Pertini. Ma probabilmente il latitante più illustre della storia italiana fu il Padre della nostra lingua, finito per ritorsione sotto accusa di con-cussione. Dante Alighieri, che come priore aveva ratificato una condanna contro tre banchieri papali, finì a sua volta perseguito dopo che papa Bonifacio VIII riprese il controllo di Firenze. «Fu giudicato colpevole di aver ricevuto denaro in cambio dell’elezione dei nuovi priori, di aver accettato percentuali indebite per l’emissione di ordini e licenze a funzionari del Comune e di aver attinto dal tesoro di Firenze più di quanto correttamente dovuto» (testualmente in Carlo A. Brioschi, Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri, Tea, Milano, 2004, p.55). Dante non si pre-sentò al processo – si difese dunque 'dal' processo, non 'nel' processo che reputava evidentemente persecutorio – e fu condannato a morte in contumacia. Fu così che a 37 anni intraprese la strada dell’esilio, della «latitanza» avrebbero detto altri nella parlata tribunalizia del XX secolo. Per quest’ultimi, anche Dante, «ghibellin fuggia-sco», sarebbe stato dunque un individuo altamente immorale? O, propriamente – come altre personalità della storia, grande o minuta, prima e dopo di lui – un perse-guitato politico?
In questa domanda retorica conclusiva – che allude naturalmente alla posi-zione di Craxi – non c’è vittimismo: quella di Craxi non è infatti una tragica caduta personale o di una parte politica, ma riguarda la democrazia italiana, iscrivendosi in una operazione definita «golpe mediatico giudiziario» da più di un commentatore (segnatamente cfr. Arturo Diaconale, Tecnica postmoderna del colpo di stato: magi-strati e giornalisti, Spirali/Vel, Milano, 1995). Come definire altrimenti una operazio-ne che è stata presentata come 'moralizzatrice', avendo invece principalmente un obiettivo politico? Tanto che la presunta moralizzazione ha prodotto l’effetto oppo-sto: il giurista Michele Ainis ha ricordato con plastica efficacia che «all’alba degli an-ni ’90 la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori – situava l’Italia al 33° po-sto nel mondo; nel 2011 siamo precipitati alla 69.a posizione». Ritornano alla mente le menzionate parole di F. Alberoni: in contesti come questi «la lotta politica è prati-camente tutta combattuta con accuse di immoralità»; poi della moralità non ci si cu-ra, e si procede al 'repulisti' politico! Con stupefatta precisione, un prestigioso stu-dioso democratico come Michele Salvati ha definito «un fatto unico in Europa» la cruenta scomparsa dei partiti di governo del centro-sinistra pentapartitico a seguito del fenomeno di 'Mani pulite', «un esito che solitamente si associa a traumi ben più gravi, a guerre e rivoluzioni». Una eliminazione dunque dai tratti maneschi e violenti che ostinandosi particolarmente su Craxi e sul partito socialista interroga la sensibili-tà di tutti i democratici che concepiscano la politica come confronto mite secondo il magistero di Karl Popper: «combattiamo le nostre battaglie con le parole invece che con le spade».

LIBRI:
-Bruno Pellegrino. L’eresia riformista – la cultura socialista ai tempi di Craxi, Ed. Guerini e As-sociati, Milano, 2010
-Vittorio Foa, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino, 1991
-Francesco Alberoni, Valori, Rizzoli, Milano, 1993
-Carlo M. Cipolla, Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo ad oggi, Il sole 24 Ore-Mondadori, Milano, 1995
-Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino, 1973
-Piero Fassino, Per Passione, Rizzoli, 2003
-Eduard Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 1974
-Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari, 1974
-Claudio Martelli, Per un'alleanza riformista fra il merito e il bisogno, in "Mondoperaio" 3/2009
-Sergio Romano, Finis Italiae, ed. All’insegna del pesce d’oro, 1995
-Emilio Lussu, Sul partito d’Azione e gli altri, Mursia, Milano, 1968
-Carlo A. Brioschi, Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri, Tea, Milano, 2004
-Arturo Diaconale, Tecnica postmoderna del colpo di stato: magistrati e giornalisti, Spirali/Vel, Milano, 1995
-Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia, il Mulino, Bologna, 2011


6) Padri e figli - L’aspettativa di Telemaco

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 3/2015 / / / / recalcati

Narra Omero che Telemaco per prima cosa avrebbe voluto «il ritorno del pa-dre». Anche nel nostro tempo aspettiamo questo ritorno, dopo l’età dei conflitti ge-nerazionali del Sessantotto e dopo il successivo appiattimento dei genitori sui piaceri dei figli.
Non si vorrà dunque il ritorno di un padre-padrone né di un padre glorioso ma neanche di un padre irresponsabilmente permissivo. Secondo Massimo Recalcati, l’autore de Il complesso di Telemaco, (Feltrinelli, Milano, 2013), le nuove generazio-ni aspettano che qualcosa dei padri fragili e vulnerabili di oggi almeno ritorni. Egli immagina dei padri-testimoni, non modelli ideali o tantomeno autoritari, ma appunto capaci di testimoniare come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tem-po stesso, con responsabilità.
I giovani-Telemaco di oggi vogliono essere eredi-eretici, cioè essere eredi nel modo

giusto: non vittime del padre, né a lui ottusamente ostili. Non figli-Edipo, che oscil-lano nella visione del padre come Ideale e poi come Rivale, scatenando il complesso che porta al proprio accecamento e alla perdizione. Né figli-Narciso: «il narcisismo dei figli dipende da quello dei genitori» segnala l’autore; se l’azione educativa si ri-duce a favorire la felicità spensierata dai figli senza alcun impegno soggettivo, si fi-nisce per sostenerne il capriccio. I padri da un lato saranno sollevati da compito di rappresentare la presenza dei limiti, ma in questi figli si spegnerà il desiderio, perdu-ti tra godimenti fittiziamente continui in cui si è sempre giovani e vitali. Questi figli-Narciso finiranno per vivacchiare in preda allo spreco – finché sarà possibile – e sen-za desideri: come destino una vita perduta.
Ora, perché i giovani di oggi dovrebbero essere figli-Telemaco? Essi vivono la scura «notte dei Proci», stanno ereditando «una terra sfiancata, un’economia im-pazzita, la mancanza di lavoro e di orizzonte vitale». Dunque, cosa potrebbe valere la rabbiosa lotta col padre del figlio-Edipo? E quanto durerà la saga capricciosa del figlio-Narciso? Ecco perché è di nuovo l’ora di Telemaco: i figli «domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una Legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte nel mondo».
Ma vogliono essere eredi-eretici, come si diceva, non vogliono essere fedeli acritici dell’eredità paterna, vogliono riconquistare ciò che hanno ereditato. Né ob-bedienza al passato, né rivolta verso il passato. Dopo il rifiuto di essere figli in preda all’autosufficienza e alla bramosia di «farsi da soli», il figlio-Telemaco cerca la pro-pria libertà unendola alla responsabilità. Basta 'rottamazioni'. «Noi non siamo altro che l’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole che provenendo dall’Altro ci hanno costituito. Non possiamo parlare di noi stessi senza parlare degli Altri, di tutti quegli Altri che hanno determinato, fabbricato, prodotto, marchiato, plasmato la nostra vita».
Ma per essere giusti eredi non si può essere eredi passivi. C’è sempre un ri-schio aperto, l’eredità non è il consolidamento di una appartenenza acquisita, am-moniva Freud.
«Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero» era stato l’invito di Goethe. Ancor meglio specificava Heidegger: «Si tratta di scegliere sempre quello che si eredita».
È quello che fa Telemaco: «non si limita ad attendere e a invocare il padre, ma agisce, si strappa dall’attesa, si mette in moto». E nel viaggio verso Pilo e poi verso Sparta sulle tracce degli eroi della guerra di Troia, rischia di perdersi. La ricer-ca del suo passato, della sua eredità, comporta il pericolo dello smarrimento. «Solo dopo questo viaggio – conclude Recalcati – Telemaco potrà abbracciare e farsi ab-bracciare dal padre» (Odissea, canto XVI). La giusta eredità non è staticamente fis-sata in origine, c’è sempre un rischio, un pericolo: essa «si realizza solo quando vie-ne fatta propria dal soggetto in un movimento in avanti, di riconquista»: also sprach Goethe. Ma questo processo di riconquista si intreccia – come abbiamo visto – con la speranza che intanto almeno qualcosa del padre ritorni dal mare: è il complesso di Telemaco, una aspettativa che attende il compimento...

LIBRI:
-Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano, 2013
-Omero, Odissea, Marsilio, Venezia, 1994



7) Rosmini - Il santo proibito

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 7-8 /2015 / / / / rosmini

La grandezza di Antonio Rosmini (Rovereto 1797-Stresa 1855) la ritroviamo nella fortezza spirituale dei suoi seguaci, che per oltre un secolo dopo la morte del prete roveretano ne riproposero il pensiero – onorandone la memoria contro le ostili-tà dei detrattori – fino a giungere alla beatificazione del 2007 promossa da Giovanni Paolo II, suggellata da queste parole: «Ritroviamo in lui una coerenza profonda e misteriosa: Rosmini, sebbene uomo del diciannovesimo secolo, trascende il proprio tempo e il proprio spazio per divenire testimone universale il cui insegnamento è an-cora oggi importante e opportuno».
Piero Coda – eminente teologo – lo inserisce tra quei «coraggiosi profeti di ri-forma… quasi sempre in anticipo sui tempi e precursori di un nuovo linguaggio della fede: e per questo non di rado incompresi e avversati».
Dopo questa premessa - che verosimilmente ha spinto anche i profani come noi ad approfondire la ricerca attorno ad Antonio Rosmini – provo a ripercorrere la vi-ta e il pensiero
di Rosmini seguendo l’opera dedicatagli da Michele Dossi, Il santo proibito – La vita e il pensiero di Antonio Rosmini (Il Margine, Trento, 2007). Già nel titolo è ripreso il proposito dell’autore: recuperare «l’unità perduta» tra vita santa e pensiero «perico-loso» del Rosmini. Infatti la polemica anti-rosminiana si incentrò sovente sulla sepa-razione di questi due aspetti, non potendo i detrattori disconoscere mai la 'santità' di vita del grande roveretano.
Dunque Rosmini manifestò subito passione per gli studi filosofici e religiosi. Nel 1816 si diplomò con esame sostenuto da privatista all’Imperial Regio Liceo di Trento, mentre svolse a Padova gli studi teologici universitari: fu ordinato prete nel 1821. Secondo Dossi è dall’esperienza padovana che emersero i primi elementi della dottrina rosminiana. A Padova la nuova dominazione austriaca post-napoleonica aveva da poco fissato per gli studi teologici una «impostazione funzionale alle esi-genze governative». Per reazione Rosmini cominciò le riflessioni «sul rapporto tra re-ligione e politica, sulla libertà della Chiesa dagli interessi delle potenze mondane e sul papato come ultimo baluardo dell’indipendenza della coscienza religiosa rispetto alle strumentalizzazioni politiche». Ne nacque una perorazione della missione salvifi-ca della Chiesa che lo portò a mettersi in sintonia con gli ambienti ecclesiastici dei cosiddetti «zelanti romani», uomini di Chiesa che univano «una profonda religiosità a posizioni di strenua difesa dei diritti papali contro ogni compromissione politica del messaggio evangelico».
Durante il suo primo viaggio a Roma nel 1823, Rosmini incontrò Pio VII, il pa-pa perseguitato da Napoleone che era diventato «il simbolo vivente dell’eroica resi-stenza della Chiesa al dispotismo politico». Alla morte del papa, Rosmini ne scriverà un Panegirico esaltandone la grandezza spirituale e il suo ruolo storico. Dossi rileva che questo intervento poteva coincidere con «le tendenze ecclesiastiche più tradi-zionali e restauratrici», chiuse alle esigenze della modernità. In realtà Rosmini ma-gnificava la «grandezza paradossale» di Pio VII, un papa anziano e umiliato che pro-prio in quanto «apparentemente sconfitto poteva ergersi a campione della giustizia disarmata contro il dispotismo e la violenza dei poteri mondani»: in questo caso c’era di mezzo Napoleone, ma il riferimento poteva essere esteso a «tutti i potentati ostili alla libertà della Chiesa». Non è dunque casuale che il Panegirico rosminiano – recitato nel settembre 1823 nella Chiesa di San Marco a Rovereto e che «si chiude-va con un’appassionata invocazione a Dio per il bene dell’Italia» – sia riuscito ad irri-tare le autorità austriache: ne venne censurata la pubblicazione, che avverrà in for-ma anonima solo nel 1831 a Modena.
Questo precedente spiega la successiva evoluzione della posizione rosminiana sul futuro italiano. Dopo il 1826 Rosmini si spostò nel milanese e poi in Piemonte. A Milano incontra Alessandro Manzoni con quale stabilisce subito «un profondo rap-porto di sintonia spirituale e di stima intellettuale». Sull’ancien régime e la rivoluzio-ne francese Rosmini è più conservatore di Manzoni anche se poi finiscono per condi-videre il giudizio sulle «gravi responsabilità della monarchia assoluta che avrebbero condotto all’esasperazione rivoluzionaria una protesta giusta e legittima». Sul Risor-gimento italiano condividono entrambi l’ideale di indipendenza nazionale, pur soste-nendo formule diverse: Rosmini propende per la proposta federalista neoguelfa, mentre Manzoni preferisce una soluzione unitaria quale «unico possibile antidoto agli egoismi provinciali, vera causa della rovina d’Italia». Entrambi infine vanno con-siderati esponenti dei quel «cattolicesimo liberale» che difende con un sacrale rigore quasi giansenistico «la coscienza personale e la sua libertà». Spiega meglio l’autore Dossi: «Furono liberali, difensori però non di una libertà 'moderna' con cui il cattoli-cesimo dovesse venire a compromesso, ma fautori di una libertà generata dallo stesso messaggio evangelico e coltivata all’interno della più autentica esperienza ecclesiale, per sua natura 'amica della libertà'». Mano a mano, tra Rosmini e Manzoni si venne a instaurare «una delle più alte amicizie della storia culturale italiana» che un testimone autorevole dei loro rapporti – Ruggero Bonghi – così definisce: «Il Manzoni era al Rosmini il poeta del cuor suo; il Rosmini era al Manzoni il filosofo del-la sua mente». E conclude con un’osservazione che sorprenderà i più: «Il Manzoni però sentiva nel Rosmini una natura praticamente superiore alla sua; e questo suo sentimento si manifestava in un ossequio profondo e schietto».
È proprio nell’ambiente milanese che Rosmini comincia a fissare i temi del suo pensiero filosofico. Tra questi rientra la polemica contro il 'sensismo'. Dossi rammen-ta che i sensisti erano tra gli eredi della filosofia illuministica, coloro che affermava-no l’assoluta dipendenza della conoscenza umana dai dati della sensazione e l’impossibilità da parte dell’uomo di superare attraverso la sua ragione gli stretti limi-ti del mondo materiale. Molti potevano interpretare la critica di Rosmini al sensismo «come rifiuto tradizionalista delle nuove teorie illuministiche». Invece si è trattato di una difesa della ragione umana: egli intende smarcarsi dagli ambienti teologici che utilizzando a proprio modo le teorie sensiste puntavano a «deprimere l’umana ragio-ne, per proclamare un apparente trionfo della fede guidata dal principio di autorità». Rosmini ritiene, all’opposto, che la distruzione della ragione finisca sempre col «con-dannare e distruggere la fede». Il cristianesimo può invece servirsi della ragione e della filosofia, «la fede cristiana non annulla la fatica del pensare»: utilizzando il magistero di papa Pio VIII, Rosmini rammenterà che «per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello del prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione». Ribadiva il concetto con queste parole: «I credenti sono anche pensanti: credendo pensano e pensando credono… se la fede non pensa, è nulla». Rosmini afferma che la sua raziocinante ricerca filosofica nasce «dagli intimi visceri del Cristianesimo»: si pone così in ardita dialettica con le posi-zioni illuministiche che liquidavano la religione come una forma di irrazionalità; ma specialmente si contrapponeva agli ambienti teologici ed ecclesiastici che equipara-vano la ricerca razionale all’ateismo. Per Rosmini occorreva dunque riprendere gli studi filosofici «senza i quali anche la teologia è destinata a ridursi a poca cosa».
In questa direzione, prima di arrivare all’opera più nota di Rosmini Delle cin-que piaghe della Chiesa, accenniamo brevemente ma doverosamente al suo Nuovo saggio sull’origine delle idee concluso nel 1830. «La ricerca filosofica di Rosmini – spiega Dossi – va compresa su questo sfondo: per il credente non può essere indif-ferente la questione dell’intelligenza e del suo rapporto con la verità; infatti
la fede risulta mortificata, se non vanificata, sia in un contesto di smisurata esalta-zione dell’intelligenza (razionalismo), sia in una situazione di totale sfiducia conosci-tiva (scetticismo)». Che fare? «Ad una pseudo-intelligenza aggressiva e dispotica che vede pericolosamente affermarsi nella modernità, Rosmini contrappone un’intelligenza rispettosa, altruistica, un’intelligenza – come egli arriva a dire – 'amativa': la persona opera un decentramento da sé, lascia spazio a ciò che vuole conoscere, percepisce l’oggetto nel suo proprio modo di 'essere'. Pensare significa dunque riconoscere l’'essere' di ogni realtà». Ecco dunque che l’idea dell’'essere' – scrive Rosmini –«è quella che costituisce la possibilità che abbiamo di uscir di noi… cioè di pensare a cose da noi diverse». Tale idea «più che un contenuto specifico della mente, è la condizione di apertura infinita che consente all’intelligenza di co-noscere, cioè di fare spazio all’affermazione di ogni realtà nella sua specificità e di-versità». Da questa idea dell’'essere' – a cui in campo filosofico è legato il nome di Rosmini – deriverà anche la sua dottrina sulla «dignità assoluta» di ogni persona, un concetto ben declinato nell’altro capolavoro rosminiano pubblicato nel 1831, i Principi della scienza morale, che l’eminente filosofo cattolico novecentesco Augusto Del Noce considera «la più grande opera etica di tutti i tempi». C’è convergenza tra dottrina dell’intelligenza e dimensione morale. «La formola della morale è l’amore universale, l’amore di tutti gli esseri, di tutti i beni, l’amore che tanto si stende quanto si stende la cognizione, cioè a dire all’infinito». Amore «nell’ordine suo natu-rale», precisa Rosmini: al di sopra di tutto c’è l’amore verso l’essere sommo, Dio. Ma all’amore di Dio – riferisce Dossi – «si connette direttamente l’amore verso la perso-na umana, l’ente che possiede il massimo valore tra quelli che l’intelletto conosce nell’ordine naturale; la legge morale impone il rispetto primario della persona: essa non va mai pensata come semplice mezzo in vista di altro, essa è sempre un fine di fronte al quale la considerazione di ogni altra cosa deve cedere il passo». Quella di Rosmini è una «visione della vita come tendenza affettuosa dell’essere verso l’essere», verso tutti gli esseri, a partire dall’uomo. Si sente qui la voce di Francesco d’Assisi: l’etica rosminiana con i suoi tratti di «equilibrio, pace, tranquillità, fiduciosa attesa» appare inattuale per la vita contemporanea «agonistica e concorrenziale». «Ma forse – conclude Dossi – si tratta di una inattualità da tenere cara, un’inattualità buona, feconda e stimolante, tale da consentirci di considerare Rosmi-ni un buon maestro di vita e di pensiero, anche per far fronte alle inedite sfide eti-che dell’oggi».
La ricerca di Dossi dedica un capitolo, il sesto, alle 'polemiche rosminiane' sol-levate dall’imponente produzione di opere intellettuali del Rosmini dagli anni ’30 in poi (Filosofia della politica, Filosofia del diritto, Il rinnovamento della filosofia, Siste-ma filosofico, Trattato della coscienza morale, Teodicea, Teosofia). Rosmini è passato alla storia come vittima di censure e persecuzioni. Eppure anch’egli fu un polemista vivace, fino ad apparire intollerante: in realtà egli teneva molto al «dovere intellet-tuale della confutazione» e alla ricerca della verità attraverso una forte dialettica. Così vedremo Rosmini 'confrontarsi' non solo con i laici eredi della tradizione illumi-nistica italiana, ma anche con Vincenzo Gioberti e coi gesuiti. Ma in ogni caso – an-nota Dossi – anche negli scontri più aspri o di fronte alle accuse più ingiuste, il pri-mato doveva spettare alla carità, per cui Rosmini raccomandava nel dibattito filosofi-co una certa «freddezza di mente, non però di cuore»: la forza della confutazione doveva essere sempre rivolta contro gli argomenti e non scadere mai in mancanza di rispetto alle persone. Resta comunque da registrare questa schietta accusa di Carlo Cattaneo: «Voi avete accusato di bassezza Alfieri, di plagio e forsennatezza Foscolo, avete chiamato plagiaro, bugiardo, sleale, ateo Romagnosi. Contro Beniamino Con-stant avete scritto un libro intitolato Istoria dell’empietà; avete scritto un libro contro Foscolo; un libro contro il conte Mamiani, quattro libri contro Gioia. La vostra vita let-teraria è una continua implacabile invettiva». Tuttavia Dossi parla di fraintendimenti e cita altri due casi di accuse poi ritrattate. Vincenzo Gioberti dapprima sentenziò: «Io tenni per lungo tempo il Rosmini come uomo generoso e santo; ho poi saputo ch’egli è maligno, arrogante e presuntuoso». Dopo smentì queste dichiarazioni: «Ebbi poscia a dolermi della vivacità del dettato, quando conobbi il Rosmini e comin-ciai anch’io
a venerare con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù». Ci fu anche la seconda moglie di Manzoni, Teresa Borri Stampa, propensa in un primo momento a definire Rosmini «come persona di piccola statura, dalla testa grossa, che ha l’aria di credersi superiore a tutti (compreso Manzoni) e non accetta nella discussione un vero con-tradditorio. Successivamente, dopo un’approfondita conoscenza di Rosmini, Teresa divenne una sua ammiratrice, devota addirittura».
Un altro capitolo fondamentale è dedicato da Dossi a La persona e la politica, nel quale si descrive l’evoluzione del pensiero politico rosminiano. «Partito da posi-zioni teoriche vicine all’ideologia della Restaurazione – sintetizza Dossi – Rosmini giungerà ad una prospettiva che pone al centro della riflessione politica il tema della giustizia, e quindi la questione della tutela e della garanzia dei diritti di tutti gli uo-mini». Dal considerare «naturale» la disuguaglianza tra «inferiori e superiori» e la differenza in proprietà di beni e di possedimenti, approderà ad una chiara dottrina dei diritti della persona e della sua «infinita dignità». La persona non può essere coartata da nessun dispotismo, che – attenzione – non è solo quello dei tiranni «ma anche quello dei demagoghi, quello delle masse, perfino quello dei parlamenti eletti a suffragio universale, un dispotismo quest’ultimo, rivestito della veste magnifica d’una perfetta legalità». Emerge qui l’approdo politico cattolico-liberale di Rosmini, contro «ogni pretesa dello Stato di essere portatore di un proprio specifico bene, da realizzare anche a costo di prevaricare sui diritti delle persone e delle altre formazio-ni sociali» in nome appunto di un bene decretato dall’alto di una politica dispotica. A questa posizione si collega la critica rosminiana al «perfettismo», ossia al sistema di pensiero che ritiene possibile «togliere affatto dal mondo ogni miseria e rendere gli uomini tutti ricchi e felici».
C’è qui una critica alle forme «più astratte ed estremizzate del socialismo del suo tempo»: sarebbe una leggerezza antropologica pensare di eliminare tutti gli sta-ti di debolezza in cui viene a trovarsi l’uomo (dalle malattie alle devianze, all’imponderabilità delle disgrazie e dei disastri naturali come i terremoti, etc.). Se è agevole dunque criticare le «utopie perfettiste», d’altro lato il cristiano avverte che la presenza del male mette in forse «la vicinanza di Dio al mondo e la sua bontà provvidenziale». Rosmini cercherà tormentosamente con la sua Teodicea di «mostra-re che la bontà di Dio non abbandona mai gli uomini al male, anche se permette che il dolore, la persecuzione, la morte portino ad essi la loro terribile sfida. La felicità umana rimane una felicità 'difficile'. In questa difficile felicità che richiede quotidia-namente fedeltà ed impegno, in questa salvezza offerta a tutti ma acquistabile sempre a caro prezzo, Rosmini ha indicato il senso più profondo della storia, che solo la rivelazione cristiana consente faticosamente di decifrare». Con ciò Rosmini non riesce a 'sistemare' i drammi della storia. Ma offre all’uomo che vuole impegnarsi una via d’uscita, che è quella della carità: «chi è buono fa il massimo, non il minimo, e deve farlo sempre». La vera carità sta solo nell’azione, non è un concetto della mente, una sterile parola: «ella è tutta azione, tutta vita, tutta opera». Racconta Dossi che «la carità in azione Rosmini seppe testimoniarla fin dai suoi anni giovanili, nell’esercizio della massima generosità e sollecitudine verso chiunque fosse nel bi-sogno. Diede fondo al suo patrimonio in innumerevoli opere di beneficienza e ri-chiamò continuamente i suoi confratelli all’azione diretta in favore di ogni situazione di povertà, invitandoli ad esercitare una carità ''ingegnosa ed anche ardita, non ar-rossendo di domandare l’elemosina ai più ricchi e più pii signori'' in modo che le ne-cessità dei più sfortunati non avessero ad aspettare».
Si deve richiamare che la carità di Rosmini è una soluzione di carattere religio-so, è una beneficienza che ha il compito di rimediare alle deficienze dell’ordine costi-tuito e delle leggi esistenti. Ma comunque egli insinua dei principi riformatori nel di-battito politico dell’epoca. Siccome gli uomini in quanto persone sono tutti uguali davanti a Dio, ecco che nel progredire dell’umanità «si faranno più uguali che sia possibile le proprietà», una tesi arditissima che porterà Luigi Bulferetti ad inserire Antonio Rosmini fra i pensatori sociali ricompresi nella sua opera Socialismo risorgi-mentale (Einaudi, 1975). In realtà Rosmini non può essere considerato affatto un proto-rivoluzionario: intendeva invece difendere «un ceto di famiglie di antica labo-riosità e costumatezza» contro i «nuovi ricchi» che accumulando smisurate ricchez-ze potevano minacciare un equilibrato progresso sociale. Occorreva piuttosto – «nel tendenziale perfezionarsi dell’umanità» – favorire «un fisso e libero sostentamento» per ogni famiglia, eliminando mano a mano le «necessità dei nullatenenti». Sul pia-no politico – osserva Bulferetti – Rosmini auspicava un «buon principe riformatore» che inserisse nel sistema monarchico «qualcosa della repubblica» nella quale – no-tava il Rosmini – «la disuguaglianza delle condizioni è nocevole e odiosa».
È l’ora di venire all’opera alla quale è maggiormente legata la figura di Rosmini Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Egli invocò – accanto ad una riforma della società nelle forme che abbiamo appena visto – una più radicale riforma della Chie-sa. Dossi rileva che «il nucleo ispiratore di tutta l’opera è il tema della libertà della Chiesa dai poteri mondani». Scritta nei primi anni ’30 del 1800, Le Cinque Piaghe vennero pubblicate a Lugano in modo anonimo nella primavera del 1848, nella tem-perie liberale «carica di speranze del primo Quarantotto italiano». Perché liberarsi dei vincoli dei poteri mondani? Un tempo, a cavallo tra l’era romana e il Medioevo, la Chiesa aveva svolto una 'gloriosa' funzione di soccorso, affinché «società violente e tiranniche, fondate sulla schiavitù e l’arbitrio, fossero convertite ad una convivenza giusta e fraterna». Ma ora i tempi sono tanto cambiati, e la Chiesa non può mescola-re «fedeltà evangelica» e «fedeltà politica» e rischiare di ridursi a gendarmeria dei sovrani. Questi termini usati da Rosmini sono tanto coraggiosi da mettere «in di-scussione quelle solidarietà culturali, politiche, economiche che storicamente aveva-no segnato in negativo la vicenda della Chiesa e ne avevano aperto e reso doloranti le 'piaghe'».

La prima piaga è la «divisione del popolo dal clero nel pubblico culto». Occorre ridare al popolo cristiano un ruolo più attivo, come lo aveva nella Chiesa primitiva. La seconda piaga è «l’insufficiente educazione del clero». Presa da incombenze politi-che e amministrative, la Chiesa dal Medioevo in poi ha sottovalutato lo studio della dottrina cristiana e le funzioni pastorali dell’evangelizzazione e della carità. Le sedi vescovili divennero «rigurgitanti
di militari e cortigiani» mentre «la cura pastorale de’ popoli fu così insensibilmente abbandonata quasi del tutto al basso clero».
La terza piaga «è la disunione de’ vescovi» determinata dalle lotte per la con-quista dell’episcopato. Con l’età feudale si passò «dall’episcopato povero e faticante nella predicazione del Vangelo e nella cura immediata delle anime» a vescovati che amministravano «abbondanti ricchezze». Per questa carica concorrevano «tutti quelli che andavano in cerca di una temporale fortuna», diventando un premio che il potere politico e i principi elargivano ai «loro adulatori» o ai loro ministri, «o pure col-locamenti pe’ loro figlioli cadetti o anche naturali». La quarta piaga è «la nomina de’ Vescovi abbandonata al potere laicale». Quasi la metà delle Cinque Piaghe è dedica-ta a questo 'scandalo'. Se i Vescovi venivano scelti dal potere politico, il popolo cri-stiano era spesso costretto «ad accettare – in contrasto con l’originaria prassi eccle-siale – pastori sconosciuti ed estranei». La proposta di Rosmini è che sia il clero ad eleggere i Vescovi, ma riconoscendo al popolo «il diritto di avere de’ pastori a lui ben accetti, i quali godano la sua stima e la sua confidenza». Quindi prima della nomina episcopale sarebbe stato «doveroso un accertamento dell’esistenza di questi senti-menti di apprezzamento e di amicizia del popolo cristiano nei confronti del suo futu-ro pastore» consentendo così al nuovo vescovo «la saggezza dell’ascolto e della consultazione frequente».
La quinta piaga è «la servitù de’ beni ecclesiastici». Quest’ultimi avrebbero due sole finalità legittime: il sostentamento del clero, che non doveva andare oltre «lo stretto bisogno», mentre tutto il resto andava utilizzato per il «sollievo degl’indigenti». Se la Chiesa abusa dei suoi beni e accetta privilegi e immunità dal potere politico, è in grave pericolo. «La Chiesa primitiva era povera, ma libera» ar-gomenta Rosmini, e trattava le ricchezze con prudenza secondo la massima «della facilità in dare e della difficoltà in ricevere». Ora invece si accettano, oltre ai beni, anche protezioni esagerate dal potere politico, come l’esenzione dalle imposte. Se con tali esenzioni sui beni ecclesiastici si provvedesse allo stretto mantenimento del clero «o il di più si desse a’ poveri», non sarebbe un favore iniquo alla Chiesa, pun-tualizza Rosmini. «Ma trattandosi di beni eccedenti tali bisogni… è ragione che pa-ghino come tutti gli altri». La conclusione di Rosmini è che la Chiesa non ha bisogno di privilegi e di protezioni, ha bisogno solo della sua libertà: «è scoccata l’ora in cui impoverire la Chiesa è un salvarla». Il prof. Dossi conclude con questo pregnante commento: «Le Cinque Piaghe sono uno dei più appassionati ed originali documenti del riformismo ecclesiale di ogni tempo. Il 1848 sembrava l’anno propizio alla rice-zione e alla valorizzazione di questo scritto rosminiano. Ma la primavera del Quaran-totto, iniziato sotto il segno delle più grandi speranze, si chiuderà con il gelo della seconda Restaurazione di cui sarà vittima anche il sogno riformatore di Rosmini».
Precisiamo che l’itinerario di Rosmini non fu rettilineo. Da alfiere della 'Santa Alleanza' tra Austria, Prussia e Russia, definita «un accordo di onestissimi e poten-tissimi prìncipi, retti dalla giustizia e dalla santità della fede», e dalla condanna reci-sa dei moti carbonari e liberali del 1820-21, Rosmini passò a sostenere i valori della libertà sia ecclesiale che politica. Nel 1846 salutò con entusiasmo il nuovo papa Pio IX, considerato un rinnovatore; sostenne la nascita del giornale di Cavour Risorgi-mento; guardò con ammirazione alla sollevazione dei milanesi contro l’Austria nelle 'Cinque giornate'; considerò il 1848 l’occasione sia per l’Italia che per la Chiesa di scrollarsi di dosso l’asservimento all’Austria. La Chiesa in particolare avrebbe potuto rinvigorirsi aprendosi ai moti dei popoli europei. Rosmini progettò un risorgimento comune dell’Italia e della Chiesa stendendo tre pubblicazioni, – Progetto di costitu-zione per lo Stato Romano, La costituzione secondo la giustizia sociale, Sull’unità d’Italia – pensando ad una soluzione federale del problema italiano e ad una conci-liazione tra Risorgimento del Paese e papato. Nell’agosto 1848 accettò l’incarico del governo sabaudo di coinvolgere il papa nella guerra contro l’Austria, un incarico pro-posto da Vincenzo Gioberti, un tempo suo avversario ed ora «suo grande estimato-re». Rosmini interpretò l’incarico proponendosi «tre obiettivi fondamentali: appiana-mento delle diffidenze pontificie verso il Regno di Sardegna; rafforzamento dell’orientamento costituzionale imboccato dal papa con la concessione dello Statu-to; legittimazione di una prospettiva di confederazione italiana presieduta dallo stesso pontefice».
Ma sul finire del 1848 la situazione precipitò nel peggiore dei modi. Nel no-vembre venne assassinato il primo ministro di Pio IX, il liberale Pellegrino Rossi, mentre scoppiavano i moti che avrebbero portato alla Repubblica romana. Pio IX fug-gì a Gaeta chiedendo a Rosmini di seguirlo. Ma ormai il papa scivolava verso posizio-ni anti-costituzionali filoaustriache, impersonate dal segretario di Stato cardinale An-tonelli. Da protettore del Risorgimento italiano, Pio IX passò ad alfiere della restaura-zione. Il progetto politico di Rosmini era fallito, ma anche quello ecclesiale cadde in disgrazia. Nel giugno 1849 la Cinque piaghe vennero messe all’ 'Indice' con decreto pontificio. Questi i motivi della condanna: 1) voler sostituire le lingue volgari al lati-no nella liturgia; 2) pretendere che le elezioni vescovili debbano essere prerogativa del clero e del popolo diocesani; 3) respingere e denigrare gli insegnamenti della Scolastica; 4) affermare che i fatti sono di diritto divino, cioè che tutto quanto suc-cede è positivamente voluto da Dio; 5) auspicare la separazione tra Stato e Chiesa, cioè l’assenza di qualunque sostegno della pubblica autorità alla Chiesa stessa.
Più che il papa, che «non mancò di confermargli più volte la sua personale amicizia», fu la curia romana ad essergli ostile. Devoto fedele al papa e all’autorità ecclesiale, Rosmini – a differenza di Gioberti, anch’egli finito all’ 'Indice' – non prese le distanze dalla Chiesa e si sottomise alla decisione («extra Ecclesiam nulla sa-lus»!). Per ora finiva male quella che potremmo definire la sua 'rivoluzione dall’interno' che «auspicava una Chiesa meno legalistica e più spirituale, meno ge-rarchica e più comunitaria, meno clericale e più aperta al riconoscimento della digni-tà e del ruolo ecclesiale dei laici».
Ma il tempo – ci volle tuttavia più di un secolo – avrebbe lavorato per lui. Pio IX nel luglio 1854 emise il decreto Dimittantur di proscioglimento di tutte le opere di Rosmini dalle accuse ad esse rivolte e intimava a tutte le parti il silenzio. Era un ap-poggio di fatto ai rosminiani, che si vedevano accerchiati dalla tracotanza curiale. Ma con l’avvento nel 1878 del nuovo papa Leone XIII – che «nutriva sentimenti an-ti-rosminiani» – ricominciano le critiche e le censure al pensiero rosminiano, sfo-ciando in una nuova condanna del Sant’Uffizio nel dicembre 1887. I rosminiani resi-stettero – come riferito all’inizio – ma l’emarginazione del pensiero di Rosmini persi-stette nella Chiesa. Tutti comunque indistintamente continuarono a riconoscere a Rosmini l’esemplarità della vita, una vita santa dedicata alla carità, «ma si liquidò il pensiero errato e proibito… un pensiero pericoloso». Poi finalmente venne il riscatto a cui seguirà la beatificazione del 2007.
Ciò detto sulla sua eredità spirituale alla fine faticosamente ma degnamente valorizzata, ricordiamo che nella sua vita mortale Rosmini incontrò difficoltà e ostilità che incisero anche sul suo corpo. Di salute fu sempre cagionevole, ma ci sono indizi che portano anche ad un’ipotesi di avvelenamento perpetrato nell’autunno 1854 per dissidi all’interno del suo parentado roveretano, un fatto che avrebbe molto pesato sul suo stato fisico. Nell’estate successiva, il primo luglio 1855, Rosmini moriva a Stresa all’età di 58 anni, ma tranquillamente, in semplicità e santità. Lo vegliò fino alla fine, tenendogli le mani, l’amico antico e illustre Alessandro Manzoni.

LIBRO:
-Michele Dossi, Il santo proibito. La vita e il pensiero di Antonio Rosmini, Il Margine, Trento, 2007.


8) Craxi - Un destino cercato

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 1 /2016 / / / / memoria

«È tempo di morire, quanto a vivere c’è più male che bene». È questo il desti-no di X, il personaggio che rappresenta Bettino Craxi nella tragicommedia Una notte in Tunisia (Einaudi). Scritta nel 2011 da Vitaliano Trevisan, è stata portata in scena dal regista Andrée Ruth Shammah con protagonista l’attore Alessandro Haber. A quest’ultimo e su sua richiesta, Trevisan in una nota spiega precisamente il punto di vista di X e gli dà le sue ragioni. Craxi dal 1994 è in 'esilio', ciò che altri chiamano 'latitanza'; la politica è finita, non era questa l’Italia che sognavamo, mentre si pro-spetta un ventennio post-'Mani pulite' rovinoso sul piano etico ed economico, nono-stante o – piuttosto – grazie a quella che l’esponente socialista considera la «falsa rivoluzione morale»: che in effetti – aggiungiamo noi – accompagnerà il Paese in una progressiva recessione dopo che nel quarantennio precedente, secondo la te-stimonianza dell’autorevole economista Carlo M. Cipolla, «dal 1950 al 1990 il reddito nazionale era cresciuto di circa cinque volte collocando l’Italia fra i Paesi a più eleva-to tenore di vita nel mondo»; mentre sul piano propriamente etico sarà il giurista Mi-chele Ainis a ricordare con plastica efficacia che «all’alba degli anni ’90 la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione del-la corruzione, partendo dai Paesi migliori – situava l’Italia al 33° posto nel mondo; nel 2011 siamo precipitati alla 69.a posizione».
Inevitabilmente nel Paese si è creato un incurabile vuoto politico, mentre chi poteva fare molto si trova nella condizione di non poter far nulla: ma la natura ha orrore del vuoto, e più il vuoto si fa strada – racconta l’autore – più essa lo riempie, «magari di merda». E allora «la libertà capitola e il potere degradato non ottiene nessuna pietà».
Il destino di Craxi – scomparso sedici anni fa, il 19 gennaio 2000 – non solo è segnato, ma è 'cercato'. Trevisan si è fatto questa idea: che «l’uomo non si sia pie-gato a un compromesso – farsi processare, magari fare dei nomi, e tacerne degli al-tri – che gli avrebbe guadagnato, molto probabilmente, una vita più comoda. È una cosa – continua Trevisan – che mi chiedo spesso quando penso ai cosiddetti ‘penti-ti’. In ogni caso X rifiuta di farsi umiliare pubblicamente… È un rifiuto che viene dal carattere più che da considerazioni di ordine politico, o di strategia difensiva; anche se X – e così Craxi – è sicuramente consapevole delle inevitabili implicazioni politi-che, non meno che delle ricadute private-familiari che detto rifiuto comporta». Un destino appunto 'prescelto', scomodo, ma comunque ormai «a vivere c’è più male che bene»: la commedia umana diventa tragedia.
Ma c’è un seguito inaspettato. La pièce si conclude teatralmente con uno svo-lìo di carte che scompaiono nel vuoto. Erano il frutto dei pensieri di Craxi, di quel bi-sogno di scrivere che è connaturato ai politici intelligenti e – segnatamente - a quel rifugiato in Tunisia che ripete «le proprie idee fino a sfiancarsi, perché è il solo modo per difendere la propria libertà». «È un lavoro fondamentale» raccomandava Craxi. Nell’opera teatrale finisce nel vento, resta come un sogno. Ma nella realtà quel «la-voro» ritorna. Ecco che un giovane storico ha raccolto per davvero quelle carte e le ha commentate e pubblicate sotto il titolo Io parlo e continuerò a parlare: note e ap-punti sull’Italia vista da Hammamet (Mondadori). È il libro curato da Andrea Spiri, che per professione e vocazione è impegnato «nell’analisi dei processi di delegitti-mazione dell’avversario nelle culture politiche italiane». Se arriveranno altri giovani studiosi, nuovi storici liberi da legami con le versioni del circuito mediatico-giudiziario di 'Tangentopoli', la storia di Craxi e dell’Italia repubblicana non finirà confinata sotto le macerie di 'Mani pulite'.

LIBRI:
-Vitaliano Trevisan, Una notte in Tunisia, Einaudi, Torino, 2011
-Bettino Craxi, Io parlo e continuerò a parlare: note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di Andrea Spiri, Mondadori, Milano, 2014

9) Comunitarismo e socialismo liberale

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 3 /2016 / / / / cohen

È una invocazione contro le conseguenze negative del mercato quella lanciata da Gerald A. Cohen (1941-2009) con Socialismo, perché no? (Ponte alle Grazie, 2009). Secondo questo teorico canadese, educato ad Oxford eppure animato da «perpetua dissidenza», qualunque mercato, anche un mercato socialista, è un si-stema di predazione, mentre il socialismo – come affermava Albert Einstein – do-vrebbe essere il tentativo dell’umanità di «superare e lasciarsi alle spalle la fase pre-datoria dello sviluppo umano». La prova risulta assai difficile, perché il mercato è motivato da un sentimento in grado di autoalimentarsi: l’egoismo individuale. Un sentimento che si declina in 'avidità ', «allo scopo di ottenere tutto quello che desi-deriamo»; e in 'paura', «per assicurarci che una condizione indesiderata sia effetti-vamente scongiurata».
Ma non bisogna arrendersi, spiega Cohen, perché il socialismo è comunque «desiderabile». È un’aspirazione che procede sulla via dell’uguaglianza, superando la mera uguaglianza formale e borghese, che ha pur proposto l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, fuori da divisioni di razza, sesso, religione… L’uguaglianza delle «opportunità» proposta dalla sinistra liberale va oltre, cercando di superare «le cir-costanze di nascita e di educazione», dunque gli svantaggi sociali: per cui i destini delle persone verrebbero determinati dal talento innato e dalle scelte di ciascuno di noi, non dal contesto sociale da cui si proviene. Ma l’uguaglianza compiuta, quella che Cohen definisce «la parità di opportunità socialista», deve affrontare anche il problema delle «differenze innate», quelle che la natura ha impresso in ognuno di noi e delle quali «non possiamo essere definiti responsabili». Solo superando sia gli svantaggi sociali che quelli di ordine naturale si potrà arrivare alla vera uguaglianza delle opportunità: i diversi esiti finali delle singole persone rifletteranno solo diffe-renze di gusto e di scelte, non differenze determinate da «facoltà sociali e naturali».
Per questo il socialismo è fortemente «desiderabile»: lì ci sarà una «reciprocità comunitaria», che non è quella di mercato per cui «io do perché prendo», ma quella per cui «io do perché tu hai bisogno» ed io – senza essere un babbeo – posso aspet-tarmi «un’equiparabile generosità». È la reciprocità caratteristica dell’amicizia, un’amicizia sociale collettiva, una forma nuova – precisa con arguzia Cohen – che, come l’amicizia più classica e personale, non escluderà inevitabili «vie di mezzo».
E qui passiamo all’altro quesito: il socialismo è un ideale realizzabile? Ci sono dei bisogni fondamentali, a partire dalla salute e dall’alimentazione, beni di base che tutti desiderano. Poi c’è il vasto mondo delle materie opzionali: cosa e come produr-le? Pare che senza i segnali provenienti dal mercato sia difficile decidere, visto che le pianificazioni di stampo comunista-centralista si sono rivelate mortifere. «Può il mercato produrre con efficienza senza incentivi mercantili e quindi senza una distri-buzione mercantile delle ricompense?» si chiede Cohen. Egli si fa soccorrere da Jo-seph Carens, dell’Università di Toronto, che immagina un mercato capitalista con-venzionale nel quale però le tasse cancellano le disuguaglianze ridistribuendo il red-dito fino a giungere all’uguaglianza assoluta. Resta insomma la mira del guadagno, ma non per tenerlo per sé quanto per dare un contributo alla società. Dunque avremmo un mercato al servizio dell’uguaglianza e della comunità! Può essere uto-pistico che i più abbienti non riducano il loro impegno davanti ad una tassazione ri-distributiva sfavorevole, però questo schema tecnicamente potrebbe funzionare. Ma saprà resistere al risorgente sentimento egoistico?
C’è in campo anche l’idea del «socialismo di mercato» in cui aziende di pro-prietà dei lavoratori o della collettività si confrontano in maniera competitiva le une con le altre e con i consumatori. Ci sarebbe efficienza – considera Cohen – tuttavia tra i vincitori e gli sconfitti di tale competizione si creerebbero disuguaglianze non compatibili con gli ideali propri di quella «amicizia sociale collettiva» di cui si è parla-to poc’anzi. Cohen tuttavia non disarma: finora i tentativi di superare il mercato – senza violenze e peggiori sopraffazioni – sono falliti. Ma questa non è «la giusta conclusione» per arrenderci. Noi, ad esempio, proporremmo di approfondire la men-zionata ricerca di J. Carens: forse la socialdemocrazia scandinava è quella che è an-data più vicina di altri all’ideale socialista.
***
Sul libro di Cohen, fin dal 2011 la rivista “Mondoperaio” ha ospitato una serie di autorevoli interventi dedicati a Socialismo, perché no?, che ci danno conferma della grande utilità di riflettere sulla ricerca complessiva di Cohen. Viene in particola-re più volte menzionata l’altra opera del teorico canadese If You’re An Egualitarian, How Come You’re So Rich? Cohen spiega che non rinuncia alla propria libertà chi credendo ai valori della giustizia, adegua le proprie azioni al principio di uguaglianza e quello di comunità. Quest’ultimo principio è più esigente: mentre il primo garanti-sce un’uguaglianza di opportunità, il secondo si ispira a un ideale di uguaglianza degli esiti. L’ethos comunitario fa sì che ci si aiuti reciprocamente da compagni, «senza pensare cosa potremmo ottenere in cambio né valutare se la difficoltà di al-cuni è dettata da scelte di cui sono responsabili». Quest’ethos non è legato ad una «lista di doveri», ad una pretesa giustizialista dettata da comandamenti o da sen-tenze, ma fiorisce in un sistema sociale i cui componenti fanno per libera scelta e spontaneamente del «proprio meglio» – anche con una certa gradualità – per aiu-tarsi vicendevolmente.
Questo socialismo non nasce da un determinismo marxiano, secondo cui l’umanità assiste alla nascita di un evento che avrebbe avuto luogo comunque, in-truppando nel ruolo di ostetrica l’avanguardia operaia. No, in Cohen l’emancipazione non è un esito inevitabile dell’evoluzione sociale: essa richiede l’impegno morale de-gli individui a promuoverla. Quello di Cohen è un ideale attivo di «vita buona», col-legato ad una visione socialista «democratica e libertaria», dove non c’è posto per una nomenklatura pronta a dettarci doveri e ordini trascritti da un codice rivoluzio-nario sedicentemente scientifico.
Se è così, raccolgo la notevole – eppur benefica – perplessità avanzata su “Mondoperaio” da Miriam Ronzoni. Scegliere liberamente di dare un ruolo centrale ai valori egualitari e comunitari, costruendo la società su un tale «monismo di valori e di obiettivi», è davvero desiderabile? Insomma, anche se gli esseri umani sostengo-no liberamente e volontariamente un tale sistema perché ritenuto desiderabile e rea-lizzabile, tutto ciò è «effettivamente auspicabile»? O forse – piuttosto che tale moni-smo – non è preferibile promuovere la diversità e l’intraprendenza degli uomini, pen-sando «che ci sia qualcosa di indipendentemente prezioso nella natura creativa, in-ventiva, sfaccettata e diversificata delle imprese e dei progetti umani»? Probabil-mente, bilanciare uguaglianza comunitaria e valorizzazione delle diversità potrebbe essere «una scelta ragionevole da fare»: è la via indicata dal socialismo liberale.

LIBRO:
-Gerald A. Cohen, Socialismo, perché no?, Ponte alle Grazie, Firenze, 2009



10) Cesare Battisti - Un eroe conteso

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 5 /2016 / / / / battisti

A cento anni dalla morte, avvenuta il 12 luglio 1916, Cesare Battisti resta uno dei personaggi trentini più autorevoli in campo culturale e politico e di grande rilievo su scala nazionale e mitteleuropea; una figura complessa e ancora vitale che non a caso il Comune di Trento ha voluto riproporre, rinnovando la mostra permanente battistiana sul Doss Trento che ricorda Battisti in una felice concisa sintesi dei suoi molteplici interessi. Uomo di scienza e geografo, si era laureato a Firenze con una tesi dedicata alla sua terra: Il Trentino - Saggio di geografia fisica e antropogeogra-fia; continuò per tutta la vita a coltivare ricerche e studi in materia. Irredentista, fin da giovanissimo si legò agli ideali risorgimentali e mazziniani che animavano le gio-vani generazioni cittadine trentine; ideali che al culmine del suo percorso umano trasferì nella scelta di


farsi soldato per liberare le nazionalità oppresse dell’impero austro-ungarico. Sociali-sta, cresciuto in questa fede nell’esperienza universitaria fiorentina assieme alla fu-tura moglie Ernesta Bittanti, riuscì a coniugare il socialismo con l’epos risorgimentale di Garibaldi, come – per volontà di Ernesta – sta scritto sul marmo della sua tomba al Doss Trento.
L’impresa culturale de “Il Popolo”. È proprio con Ernesta che Cesare Battisti inizia – fresco di matrimonio – la più impegnativa impresa, insieme politica ed im-prenditoriale: la fondazione del giornale “Il Popolo”. Non fu un semplice foglio di partito, uno strumento di propaganda. Spiega Annalia Dongilli, - autrice dell’opera Un giornale per “Il Popolo” – L’impresa culturale dei coniugi Battisti (1900-1914) edita da UCT – che il nuovo quotidiano puntava con convinzione sulla sua «funzione culturale» affinché il popolo, leggendolo, potesse «partecipare al banchetto del sa-pere»: sulle sue pagine «alla politica e alla cronaca, si avvicendano articoli dedicati alle scienze, alla letteratura, alle associazioni culturali o a scottanti questioni socia-li». Confermando questa impostazione, lo storico Vincenzo Calì sottolinea che non vi fu battaglia di libertà che non abbia trovato spazio sulle pagine del giornale: «dai temi della libertà religiosa, alla denuncia del pregiudizio antiebraico, dalla questione femminile alla lotta contro il militarismo». Questa visione aperta – grazie special-mente alla penna incisiva e brillante della Bittanti e alla sua azione insostituibile, che la qualificò come simbolo vitale della emancipazione della donna – conferì al giornale battistiano un’impronta cosmopolita, coinvolgendo una piccola regione dell’Impero Asburgico come il Trentino nella temperie culturale europea. Tutto precipitò nell’agosto 1914 con lo scoppio della prima guerra mondiale dopo l’ultimatum dell’Austria alla Serbia: «Non è facile – dichiarò Battisti – fare all’ultimatum dell’Austria i necessari commenti, senza essere confiscati». E “Il Popolo” – che subì nei quattordici anni di vita trecento sequestri inflitti dall’Imperialregia censura – scelse di cessare di vivere. Ma qui inizia la parte finale più conosciuta e drammatica della vita di Cesare Battisti.
Risorgimento e socialismo. Difatti ai più è noto l’epilogo della intensa vita di Battisti: il 10 luglio 1916 viene catturato dagli austriaci sul monte Corno, sopra Ro-vereto tra la Vallarsa e Trambileno, e due giorni dopo sale sul patibolo allestito a Trento nel castello del Buon Consiglio. Ma il sacrificio dell’irredentista ed interventi-sta democratico va congiunto con il fondamentale impegno di uomo di cultura e di-rigente socialista di livello europeo, come abbiamo richiamato nel presentare l’impresa politico-culturale de “Il Popolo”. Infatti Battisti è stata la figura più bella e rappresentativa del socialismo trentino, un socialismo che riuniva in sé gli ideali del-la socialdemocrazia mitteleuropea e quelli mazziniani, la lotta per l'autonomia dall'Austria e gli ideali risorgimentali. Claus Gatterer, lo storico sudtirolese che ha voluto far conoscere all’opinione pubblica austriaca un uomo che gli austriaci cono-scevano soltanto come 'alto traditore', ha scritto: «Gli ideali battistiani attingono a due fonti: il Risorgimento italiano e il socialismo d’Austria-Ungheria. In Battisti que-sti ideali si erano pienamente fusi. Rappresentavano per lui stesso, per i famigliari, per i suoi amici le direttrici per una vita e per un’opera di rara coerenza»: possiamo reputare che tali parole, per la fonte da cui giungono, abbiano posto fine a polemi-che insultanti che tuttavia a volte riemergono, ritorcendosi peraltro contro chi le at-tizza. Non a caso Gatterer ha posto ad introduzione della sua opera la citazione di Karl Kraus: «Chi giudica farabutto il patriota dell’altrui patria, dev’essere un imbecil-le della propria». Dunque, allo scoppio della prima guerra mondiale Battisti sceglie l'interventismo. Se lo storico Ernesto Sestan rileva che «sul piano puramente teorico socialismo e irredentismo non sono facilmente conciliabili», eppure il socialismo di Battisti – aggiunge lo stesso Sestan – «vuole fare la guerra non al sentimento na-zionale, ma – sono sue parole – ad ogni oppressione nazionale»: il patriottismo dei socialisti considera la nazione una 'mediazione' fra l’individuo e l’umanità ed esige «il rispetto per la propria nazionalità come per tutte le altre». La scelta di Battisti non fu dunque dettata da sentimenti nazionalistici: contrapponendosi in armi alla guerra scatenata dall’Austria vede la possibilità della caduta degli imperi centrali, che avrebbe permesso di costruire un nuovo assetto dell'Europa, dando vita ad un pro-cesso di profondo rinnovamento sociale ed economico. Per queste ragioni Cesare Battisti è stato definito «un irredentista non-nazionalista», un «socialista interna-zionalista» che nel 1914, dopo che altri aveva iniziato la guerra, si fece «banditore dell’ultima guerra risorgimentale dell’Italia».

L’interventismo democratico. Prima di giungere a questa determinazione si era battuto per tutto un decennio per ottenere l'autonomia amministrativa del Tren-tino all'interno dell'impero. Ma invano. Da questa travagliata esperienza scaturiva la sua adesione all'entrata in guerra contro l'Austria-Ungheria, che motiva con le ra-gioni di tanti altri 'interventisti democratici' italiani. Come per Bissolati e Salvemini – e a differenza di quanti vagheggiavano una guerra di conquista – ripetiamo che il fine era quello di smembrare l'impero asburgico, liberando le nazionalità oppresse, per spegnere definitivamente in Europa un permanente focolaio di reazione e di guerra. Va segnalato che per lo storico Renato Monteleone le cose andranno in mo-do diverso: a suo parere le ragioni dei popoli oppressi hanno giocato un ruolo margi-nale «rispetto a quelle imperialistiche delle grandi potenze»; d’altro avviso, Giusep-pe Galasso nella sua Storia d’Italia rileverà che la guerra, accanto agli enormi lutti inizialmente non previsti (si pensava ad uno scontro di pochi mesi), darà «alle mas-se un senso più pieno e più alto del loro peso effettivo e ne promosse l’esigenza di partecipazione al potere politico in misura assai più alta di quanto non avessero fatto fino allora il movimento sindacale e quello operaio».

In guerra. Su tutto resta il sogno di Battisti per una federazione europea di li-bere nazioni, fondata su una risorta internazionale socialista fatta di partiti su base nazionale. Con l'entrata in guerra dell'Italia nel maggio 1915, Battisti si arruolò nell'esercito italiano andando a combattere sul fronte del Trentino. La sua anima so-cialista lo portò a fraternizzare più con la truppa e con gli ufficiali di complemento che con gli ufficiali di carriera, che egli individuava come il punto debole dell'intera compagine militare. Egli vide nella guerra un fattore di coagulazione nazionale at-traverso cui si sarebbe potuto, una volta terminata vittoriosamente, giungere ad una autentica coscienza nazionale. In questo spirito egli tenne varie conferenze ai solda-ti, sia di istruzione militare che di sostenimento morale; ma non bisogna pensare che al profugo trentino sfuggissero il vero volto della guerra e le sue inumane cru-deltà, come emerge chiaramente dal suo epistolario. Il 10 luglio 1916 venne cattu-rato sul monte Corno. Il 12 luglio, dopo un rapido processo, fu impiccato. Il 5 dicem-bre 1916 il leader socialista Filippo Turati lo commemorò alla Camera dei deputati con commosse parole. Lo definì «socialista di principi e di azione» fin dalla prima giovinezza, sottolineò «la coerenza della vita» e lo «splendore del carattere», cose che lo rendevano «uno dei simboli più significativi di altissima umanità». Turati rifiu-tò poi con fermezza ogni strumentalizzazione, che già si andava profilando, della sua figura da parte della destra politica e specialmente degli ambienti nazionalisti, sostenendo giustamente che in lui «non vi fu mai sentimento di odio tra le genti o animosità di stirpi, ma una fusione di senso della giustizia e della libertà». A Turati fece eco Gaetano Salvemini, il quale l'anno successivo scrisse che Battisti, con la sua cultura, con il suo disinteresse, con la sua inaudita capacità di lavoro e con i suoi precedenti, avrebbe compiuto nella nuova vita italiana una funzione benefica di prim'ordine, in cui nessuno avrebbe potuto sostituirlo. La sua morte era «per la parte sana e consapevole della democrazia italiana, una perdita funesta».

Il discrimine dell’odio nazionalista. È qui necessario richiamare che la ‘memo-ria’ battistiana lungo il Ventennio fascista fu ampiamente contesa e usurpata dal re-gime, che volle fare di Battisti un ‘proprio’ eroe; l’opera e gli scritti battistiani vanno in opposta direzione, ma quando la complessità e l’inevitabilità delle situazioni può aver portato le variegate posizioni irredentiste a convergere, c’è sempre stato di mezzo un discrimine: è il discrimine dell’odio verso il popolo avversario, che – come annota lo storico Massimo Tiezzi – nelle posizioni nazionaliste diventa «un inno alla violenza, alla crociata distruttrice contro il nemico» mentre in Battisti come in tutti gli interventisti democratici non ci fu istinto vendicatore: «egli odiò l’Impero, non il proletariato dell’Austria» asserì Turati. Cinquant'anni dopo, Alessandro Galante Gar-rone, introducendo gli Scritti politici e sociali di Cesare Battisti, rese ulteriore com-pleta giustizia alla 'contesa' memoria battistiana: «Tradizione risorgimentale e fede nel socialismo: con queste idee, che lo avevano accompagnato per tutta la vita e per cui aveva sempre lottato nelle condizioni più avverse, Battisti si avvia al supplizio, il 12 luglio 1916. Il significato vero di quella vita e di quella morte fu inteso appieno otto anni dopo, all'indomani dell'assassinio di Matteotti: quando a Firenze i nomi dei due martiri furono posti l'uno accanto all'altro, in una sfida coraggiosa al regime fa-scista... Un anno dopo, a Trento, nel primo anniversario della morte di Matteotti, un mazzo di fiori era gettato nella fossa del castello del Buon Consiglio, con un carton-cino che protestava contro gli oppressori», i nuovi oppressori di marchio fascista. L'attualità dei valori di Matteotti – che è per antonomasia il simbolo mite ed operoso del combattente per la libertà – richiama così inscindibilmente l'attualità dei valori di Battisti, stupendamente presentita dal patriota triestino G. M. Germani, incarcerato dai fascisti: «Battisti e Matteotti io li vedevo così, uniti, simboli e sintesi di una Italia avvenire».

Battisti, Matteotti e Salvemini. Eppure le esperienze di Matteotti e Battisti fu-rono diverse, in relazione soprattutto al comportamento discorde che tennero di fronte al primo conflitto mondiale, pacifista intransigente l’uno, interventista demo-cratico l’altro. Ma, come rammenta la ricerca storica di Mirko Saltori, c’era una base comune per le due personalità: «il socialismo non era stato né per Battisti né per Matteotti un’etichetta o una superficiale infatuazione, bensì un impegno costante e rigoroso, e certo nella concezione della realtà e della politica dell’uno e dell’altro vi sarà stata una larga identità di vedute». Una consonanza di visione democratica che ritroviamo plasmata nell’appello che una impegnata e gloriosa associazione trentina, la SOSAT (Sezione operaia della Società Alpinisti Tridentini), volle indirizzare al lavo-ratori trentini quando risorse dopo la caduta del fascismo: «Nel nome dei nostri grandi Cesare Battisti, Giannantonio Manci e di tutti i martiri della Libertà, i cui spiriti aleggiano sopra di noi, riprendiamo il cammino verso le grandi mete dell’avvenire per tutte le genti amanti della pace e della fratellanza umana». Sì, c’è retorica in questi propositi, ma anche e soprattutto si avverte il dovere di dare un senso di con-tinuità e di attualità all’impegno e al sacrificio di grandi uomini. E qui ritornano infi-ne a valere le parole che l’ormai maturo illustre pensatore Gaetano Salvemini dedicò agli amici di studi universitari fiorentini, di quella temperie che fece incontrare Cesa-re Battisti ed Ernesta Bittanti: separati da disparate esperienze era comunque sicuro che tutti «avevano conservato il rispetto di sé stessi; poter chiudere gli occhi alla lu-ce dicendo cursum consummavi, fidem servavi, quale migliore successo nella vita!». Anche le parole tratte dalle lettere di S. Paolo servono a scolpire nella memoria l’esempio di questi grandi maestri laici.


BIOGRAFIA
Cesare Battisti (Trento, 4 febbraio 1875- Trento, 12 luglio 1916), studioso, giornali-sta e politico, ha dedicato la vita alla conoscenza e allo sviluppo sociale e culturale della sua terra. Dopo gli studi liceali, frequenta le Università di Graz, Vienna e di Fi-renze, dove si laurea nel 1897 con una tesi in Geografia. Nella città toscana conosce la futura moglie Ernesta Bittanti (1871-1957), donna colta e raffinata intellettuale, con la quale scopre e condivide gli ideali del socialismo traducendoli in battaglie po-litiche dai concreti tratti umanitari. A partire dal 1895 fonda e dirige numerosi setti-manali e riviste, tra i quali: “Tridentum”, il quotidiano socialista “Il Popolo” e il perio-dico “Vita Trentina”. “Il Popolo” rappresenta la tribuna privilegiata per le sue campa-gne politiche, si occupa particolarmente delle condizioni della popolazione trentina, della crisi dell’agricoltura e del mancato sviluppo industriale. Nel 1902 è eletto con-sigliere comunale a Trento, nel 1911 deputato al Parlamento di Vienna e nel 1914 alla Dieta di Innsbruck. Con lo scoppio della prima guerra mondiale e l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, Cesare Battisti – dopo un’attiva campagna interventista in molte città italiane – si arruola volontario come alpino nelle file dell’Esercito italia-no. Il 10 luglio 1916 viene catturato dalle truppe austriache sul Monte Corno. Con-dannato per 'alto tradimento', viene messo a morte per capestro il 12 luglio 1916 (note tratte dalla Guida al Mausoleo Cesare Battisti curata dal Comune di Trento).

BIBLIOGRAFIA
1. Scritti di Cesare Battisti
-Il Trentino. Saggio di geografia fisica e di antropogeografia, ed. Zippel, Trento, 1898
-Scritti politici e sociali, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1966
-Epistolario, a cura di Renato Monteleone e Paolo Alatri, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1966
-Monografie geografiche del Trentino: Pergine, la valle dei Mocheni e Pinè, ed. STET, Trento, 1904; Mezolombardo e dintorni, ed. STET, Trento, 1905; Levico, ed. STET, Trento, 1907; Rove-reto e dintorni, ed. STET, Trento, 1908; Le Giudicarie, ed. STET, Trento, 1909; Da Trento a Ma-lè, ed. STET, Trento, 1909; Altopiano di Folgaria e Lavarone, ed. STET, Trento, 1909; Il Trenti-no – guida pratica, ed. STET, Trento, 1910; Il Primiero, ed. STET, Trento, 1912; Il Trentino. Cenni geografici, storici, economici con un’appendice sull’Alto Adige, ed. Istituto geografico De Agostini, Novara, 1915

2. Scritti su Cesare Battisti
-AA.VV., Atti del Convegno di Sudi su Cesare Battisti, ed. La Nuova Italia – Temi, Firenze-Trento, 1979
-AA.VV., Socialismo, Nazionalità, Autonomie, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1983
-Alessandro Galante Garrone, Introduzione, in Cesare Battisti, Scritti politici e sociali, op. cit.
-Arduino Agnelli, L’ordinamento Austriaco e i problemi delle nazionalità nell’epoca di Cesare Battisti, in Atti del Convegno di Sudi su Cesare Battisti, op. cit.
-Gaetano Arfè, Cesare Battisti, in Dizionario biografico degli italiani, ed. Treccani, Roma, 1965
-Livia Battisti, Cesare Battisti, processi e autodifese, ed. Saturnia, Trento, 1971
-Livia e Camillo Battisti, Ernesta Battisti Bittanti, Brescia 1871-Trento 1957. In memoria, Tren-to, 1962
-Aroldo Benini, Il socialismo autonomistico di Cesare Battisti, Il Paradosso n. 31-32, Milano, 1962
-Sergio Benvenuti, Il 2. Congresso socialista a Trento e la fondazione del Popolo di Cesare Bat-tisti, Bollettino del Museo Trentino del Risorgimento n.1, 1978
-Stefano Biguzzi, Cesare Battisti, ed. Utet, Torino, 2008
-Ernesta Bittanti, Cesare Battisti nel pensiero degli italiani, ed. Temi, Trento, 1928
-Ernesta Bittanti, Con Cesare Battisti attraverso l’Italia, ed. Garzanti, Milano, 1945
-Vincenzo Calì (a cura di), Salvemini e i Battisti: carteggio (1894-1957), ed. Museo del Risorgi-mento e della lotta per la libertà, Trento, 1987
-Vincenzo Calì, Patrioti senza patria: i democratici trentini tra Otto e Novecento, ed. Temi, Trento, 2003
-Vincenzo Calì, Linea del Partito Socialista Trentino e del Pensiero Politico di Cesare Battisti, in Atti del Convegno di Sudi su Cesare Battisti, op. cit.
-Enzo Collotti, Irredentismo e socialismo in Cesare Battisti, Studi Storici n.1, Roma, 1968
-Annali Dongilli, Un giornale per “Il Popolo” – L’impresa culturale dei coniugi Battisti (1900-1914), ed. UCT, Trento, 2005
-Giuseppe Galasso, Storia d’Italia, vol I, ed. Einaudi, Torino, 1972-76
-Maria Garbari, Il Circolo trentino di Milano: l’irredentismo trentino nel Regno, ed. Temi, 1979
-Claus Gatterer, Unter seinem Galgen stand Österreich - Cesare Battisti, Porträt eines 'Hoch-verräters' - Cesare Battisti, ritratto di un 'alto traditore', Europa Verlag, Wien, 1967 - ed. La Nuova Italia, Firenze, 1975
-Claus Gatterer, Italiani maledetti, maledetti austriaci: l’inimicizia ereditaria, ed. Praxis, Bolza-no, 1986
-Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, ed. Mondadori, Milano, 1973
-Diego Leoni e Camillo Zadra, Classi popolari e questione nazionale al tempo della prima guerra mondiale: spunti di ricerca nell’area trentina, Materiali di Lavoro n. 1, Rovereto, 1983
-Christoph von Hartungen, Le circostanze di un processo e i perché di una condanna: il proce-dimento per alto tradimento contro Cesare Battisti visto da un giurista austriaco contempora-neo, Archivio trentino n.2, Trento, 1993
-Walter Micheli, Il socialismo nella storia del Trentino, ed. Il Margine, Trento, 2006
-Renato Monteleone, Il movimento socialista nel Trentino 1894-1914, Editori Riuniti, Roma, 1971
-Renato Monteleone, Cesare Battisti, in Il movimento operaio italiano: dizionario biografico, Editori Riuniti, Roma, 1975
-Günther Pallaver, Cesare Battisti: i tirolesi e l’austriaco, il disagio i un rapporto, Archivio tren-tino n.2, Trento, 1996
-Piero Pieri, Cesare Battisti nella storia d’Italia, ed. Temi, Trento, 1968
-Giuliano Piscel, Contributi alla storia del Partito Socialista Trentino, in Atti del Convegno di Sudi su Cesare Battisti, op. cit.
-Fabrizio Rasera, Gatterer e i Battisti, Archivio trentino n.3, Trento, 1991
-Giovanni Sabbatucci, I socialisti fra crisi dello Stato liberale e fascismo, in Storia del Partito socialista, ed. Marsilio, Venezia, 1979
-Mirko Saltori, Giacomo Matteotti e il Trentino, Archivio trentino n. 1, Trento, 2006
-Ernesto Sestan, Cesare Battisti tra socialismo e irredentismo, in Atti del Convegno di Sudi su Cesare Battisti, op. cit.
-Massimo Tiezzi, L’eroe conteso – la costruzione del mito di Cesare Battisti negli anni 1916-1935, ed. Museo storico in Trento, Trento, 2007
-Leo Valiani, Il Movimento Socialista e le questioni nazionali in Austria-Ungheria, in Atti del Convegno di Sudi su Cesare Battisti, op. cit.


11) Auschwitz - L’angelo dagli occhi tristi

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 11 /2016 / / / / wiesel

Nel luglio 2016 è scomparso Elie Wiesel, scrittore, filosofo e attivista per i di-ritti umani. Di origine ebraica, deportato nei campi di sterminio di Auschwitz e Bu-chenwald, sopravvisse all'Olocausto: nel 1986 ha ricevuto il premio Nobel per la pa-ce.
Molti sono stati i commenti tributati doverosamente da autorevoli pensatori ed editorialisti. Qui proverei a riferire che tra i suoi scritti resta scolpito nella mia memo-ria il racconto La notte (ed. Giuntina, Firenze), che evoca l’impiccagione nel campo di sterminio di tre prigionieri, tra cui un bambino, «l’angelo dagli occhi tristi». Dei tre impiccati due gridano, prima dell’esecuzione, la loro fede nella libertà, cioè nell’uomo che conosce il bene e il male ed è libero di operare l’uno e l’altro. Ma il terzo, l’angelo dagli occhi tristi, resta in silenzio. Alla domanda disperata di chi si chiede dove sia Dio in quel momento, Dio si manifesta nel cuore dell’umanità che assiste alla trage-dia, indicando il bambino che penzola dalla forca: «- Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me – racconta Wiesel – una voce che gli rispondeva: - Dov’è? Eccolo: è appeso lì a quella forca».
Il bambino che resta in silenzio, che non rivendica come gli altri due impiccati la sua umanità, è la rappresentazione dell’assoluta impotenza di Dio, cioè della sua impossibilità di intervenire nella storia del mondo. Né il bambino né Dio conoscono il male, privilegio e dannazione della libertà umana.
Ma che Dio è quello che ha permesso che accadessero cose così spaventose e terribili? Ci aiuta a capirlo il filosofo Hans Jonas, il quale – rievocando vibratamente la domanda di Elie Wiesel «Quale Dio, dunque, ha potuto permettere ciò che accad-de ad Auschwitz?» – ha sostenuto che bisogna rinunciare alla dottrina tradizionale della assoluta illimitata potenza divina. Il male c’è – egli spiega – solo in quanto Dio non è onnipotente. Il male esiste ed ha successo «quale oggetto della volontà uma-na».
Cosa resta allora di Dio? Resta la sua bontà. Dio è bontà assoluta, ma non è onnipotente. Non lo è più dall’atto della Creazione, che è un atto di auto-limitazione divina manifestatasi con la concessione della libertà all’uomo. Durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz, Dio restò muto: non intervenne non perché non vol-le, ma perché non fu in condizione di farlo. E non lo fu perché aveva rinunciato alla potenza, una rinuncia che avvenne affinché «noi potessimo essere, … perché quell’Unico ha concesso qualcosa all’Altro da sé, da lui creato».
Questo non è più il Dio degli eserciti, il signore della storia, tramandatoci dalla Bibbia. È un Dio «sofferente», che è «toccato» da ciò che accade nel mondo. E quel «toccato» significa mutato nella condizione di onnipotenza originaria: «ha fatto in-tervenire altri attori e in questo modo ha fatto dipendere da loro la sua preoccupa-zione».
Questo Dio è «buono», infinitamente buono, ma la sua bontà non può esclu-dere l’esistenza del male. Dio è innocente, ripetiamo con Wiesel: è l’uomo che cono-sce il bene e il male ed è libero di fare l’uno e l’altro.

LIBRO:
-Elie Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze, 2007


12) Mani pulite - Venti (cinque) anni dopo

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 2 /2017 / / / / mani pulite

Alexandre Dumas si prese vent’anni per riproporre l’epopea dei tre moschettie-ri. Piercamillo Davigo ed Antonio Di Pietro, invece, hanno aspettato un quarto di se-colo per riproporre la loro, cominciata il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chie-sa. Stando alle cronache, per loro il successo di pubblico («…tolti gli 8 relatori e 11 giornalisti, c’erano appena 32 persone nell’aula magna del palazzo di giustizia di Mi-lano al convegno sull’eredità di ''Mani pulite 25 anni dopo''» riporta la cronaca del “Corriere della Sera”) è stato molto inferiore a quello ottenuto dal grande romanzie-re francese. Ma visto che hanno voluto comunque celebrare un anniversario, può essere utile non lasciarne inaudita altera parte la celebrazione.
Riferisce lo scrittore e diplomatico Sergio Romano (1) di un paese che aveva dato «entusiastica adesione al fascismo», lasciando ad una minoranza l’onere dell’opposizione. Emblematico il caso del mondo universitario: qui, su oltre mille do-centi, solo tredici in tutta la nazione rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Ma di fronte alla sconfitta, gli Italiani si sbarazzarono in un attimo del loro passato e ne misero interamente la responsabilità sulle spalle di un uomo, Mussolini. Inconsolabile ma scanzonato, Sergio Romano così conclude, riferendosi – mutatis mutandis – a tempi successivi: «Intravedo all’orizzonte un’altra menzogna: gli italiani stanno ad-debitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, im-prenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cederanno probabilmente alla ten-tazione di credervi per assolversi in tal modo da questo peccato. E dopo, temo, avranno un’altra ragione per disprezzarsi».
Non diversamente lo storico Ernesto Galli della Loggia in piena campagna giu-diziaria 'Mani pulite' aveva scritto sul “Corriere della Sera” del 22 aprile 1993: «La seconda Repubblica sta nascendo su una bugia: come del resto su una bugia con-simile nacque a suo tempo la prima Repubblica. Allora la bugia fu la supposta rivolta – morale prima, armata poi – di tutto il popolo contro il fascismo, la 'rivoluzione anti-fascista'. Oggi la nuova bugia parla anch’essa di rivoluzione – non più antifascista ma antiburocratica – che sarebbe in atto e che vedrebbe protagonisti gli italiani per così dire rigenerati, fatti moralmente nuovi. Ma come si può credere ad una qualun-que nuova sostanza morale di massa dietro la cosiddetta rivoluzione italiana, quan-do non risulta che siano mutati di un ette i comportamenti 'morali' e 'immorali' di massa degli italiani?».
È il giovane storico Andrea Spiri (2) a ricordarci quest’ultime valutazioni, ma ancora più disarmante è il suo rimando ad una riflessione del grande filosofo Nor-berto Bobbio su “La Stampa” del 20 gennaio 1993: «La prima Repubblica è proprio finita. Non lo dico, come la maggior parte degli italiani, con un sospiro di sollievo o addirittura con aria di trionfo. Lo dico con un senso di amarezza, non perché creda che non meriti di fare la fine ingloriosa che ha fatto o sta facendo, ma perché una conclusione così miseranda è l’espressione del fallimento di tutta intera la nazione, e non solo della classe politica che è ormai continuamente e rabbiosamente messa sotto accusa da parte di coloro che per anni l’hanno sostenuta e le hanno offerto il consenso necessario per governare. Come paese democratico, come Stato di liberi cittadini, abbiamo fatto, bisogna riconoscerlo, una pessima prova».
Ma poi nel corso di oltre un ventennio, dov’è finita tutta la 'gente', tutta la co-siddetta 'società civile' con la pretesa – ironizza Spiri – di essere così «antropologi-camente differente» dai politici detronizzati? È passata di mano in mano da un de-magogo populista all’altro, scoprendo volta a volta – dai leghisti pretenziosamente senza macchia, ai neofascisti ribaldi rifatti, dal tycoon Berlusconi agli ex-comunisti affaccendati in banche e assicurazioni, dai giustizialisti retini a quelli dei girotondi fino ai cangianti grillini – che si metteva in mani sempre peggiori.
D’altro canto è la storia che ce lo insegna, ma quanti conoscono la storia, e se anche la conoscono, quanti la meditano? Vale comunque sempre la pena di riandare ad un’opera scritta dal sociologo Francesca Alberoni proprio nel bel mezzo dell’operazione 'Tangentopoli'. In Valori (3) il professore Alberoni rammenta che per la maggior parte della gente la morale non significa virtù, bontà, valore, elevazione. Significa sdegno, condanna peccato, rimprovero, punizione. Ecco, li vedete tutti co-storo sfilare nel corso della storia cupi, accigliati, collerici, intransigenti che urlano, che accusano, che chiedono giustizia, che esigono punizioni esemplari per i malvagi, per gli iniqui, per i corrotti! Ciascuno prende un sasso per lapidare l’adultera, ciascu-no si getta sul reo per linciarlo. Così si tagliano le mani ai ladri, si torturano, si mar-toriano, si crocifiggono i criminali, si bruciano gli eretici, si spezzano le ossa e si squartano i banditi. Quanta giustizia è stata fatta in questo modo! La storia è stata un succedersi ininterrotto di atti di giustizia. Così nel passato e così in epoca recente nella lotta politica, dichiara Alberoni. Perché tutti vivono il loro avversario come un essere repellente, crudele, spietato. Mentre vivono sé stessi come virtuosi e giusti, costretti a difendersi. La lotta politica è praticamente tutta combattuta con accuse di immoralità. Ma perché confondere la morale con la lotta politica? È incredibile – ag-giunge Alberoni – che la gente non capisca, non voglia capire che quando in un mo-vimento, in un partito politico, il capo, il demagogo urla: «Facciamo giustizia», di so-lito non ha nemmeno lontanamente in mente la giustizia morale. Il suo vero scopo è minare la legittimità di chi è al potere per rovesciarlo e prendere il suo posto. La ca-lunnia, la diffamazione, il linciaggio morale, sono stati e sono strumenti abituali di conquista del potere. In tale logica, la morale come «giudizio di condanna» è rivolta all’esterno, agli altri. Tende ad ignorare noi stessi, la nostra immoralità. Per questo essa vede sempre il male degli altri, e non vede il proprio. Perché in realtà non è un sentimento morale, ma una manifestazione dell’aggressività individuale e collettiva, personale e politica.
Sembra il sermone di un gentile filantropo: ma è la storia che scandisce gli esempi sempre ricorrenti. Al proposito il politologo Angelo Panebianco, commentando il 7 ottobre 2016 sul “Corriere della Sera” il libro di Paolo Mieli In guerra con il passa-to. Le falsificazioni della storia (4), scrive: «Non si è mai estinto il vizio di mettere in piedi processi per corruzione o sottrazione di denaro pubblico contro gli avversari po-litici». Cita un caso antico ma efficacemente emblematico: «Il processo contro Verre, ex propretore il Sicilia, che diede tanto lustro al suo inflessibile accusatore Marco Tullio Cicerone, non sarebbe stato imbastito se Verre non fosse stato legato alla fa-zione politica perdente, quella di Silla». E conclude in maniera che sarà considerata dissacrante dai moralisti mendaci che hanno infestato la vita pubblica tra fine ‘900 e inizio secolo: «Nelle cronache degli ultimi decenni, qui in Italia, anche se non solo, possiamo trovare diversi casi che hanno affinità con quella vicenda storica». Dall’antichità all’età contemporanea è detto parecchio in poche parole, svelando un meccanismo che regola spesso la contesa pubblica.
All’inizio del 2016 Mattia Feltri ha scritto un libro di memorie sul Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite (5) con questo incipit: «Quella che sembrava un’epoca di catarsi e rinascita si è rivelata un periodo cupo, meschino, di furori e di paure, di follia collettiva, in cui una cultura politica era stata spazzata via in modo dissennato». Dominata da mass-media legati a poteri economico-finanziari irrespon-sabili, da politici e tecnici riciclati, da esponenti di partiti e movimenti finora esclusi dall’area governativa, da arrivisti nuovisti, e soprattutto da «una magistratura che si sentiva a capo di un moto rivoluzionario», l’Italia è precipitata in un arido ventennio privo di speranze esaudite.
Terribile il bilancio – annotiamo noi – a partire dalla pretesa moralizzazione, ri-soltasi in effetti opposti: il giurista Michele Ainis pochi anni orsono ha ricordato che «all’alba degli anni ’90 la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori – si-tuava l’Italia al 33° posto nel mondo; ora siamo precipitati alla 69.a posizione». D’altronde cosa poteva esser successo fino ai primi anni ’90 in una situazione come quella italiana, che se appariva per alcuni versi problematica non era radicalmente dissimile dagli altri paesi progrediti d’Europa? Carla Collicelli, vicedirettore del Cen-sis, rispondendo a Marco Travaglio e a Gian Carlo Caselli, ebbe a dichiarare - sulla scorta del fatto che il reddito nazionale era cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 collocando l’Italia fra i paesi a più elevato tenore di vita nel mondo - sinteti-camente quanto segue: «Il periodo fino al 1992 indicato come più corrotto è anche quello nel quale l’Italia è cresciuta di più. Ora, siccome è senz’altro vero che è la cor-ruzione a bloccare lo sviluppo nei paesi poveri, l’Italia non doveva essere poi così corrotta». Un invito alla riflessione, che avrebbe dovuto portare ad affrontare con una condivisa soluzione politica il problema sempre più emergente del finanziamento della politica, un problema anch’esso non solo italiano ma europeo. Ma mentre in Eu-ropa si seguì la strada del confronto politico, in Italia si preferì la via giudiziaria.
Al dunque, per un complesso di coincidenze interne e internazionali, le cifre e le considerazioni sopra descritte vennero ignorate e nei primi anni ’90 si saldarono interessi variegati volti a travolgere la vita democratica nazionale. Il capitalismo ita-liano e i poteri forti economico-finanziari internazionali, dopo la caduta del muro di Berlino si sentirono autorizzati a liberarsi dalla direzione di una politica democratica autorevole, che nel passato aveva difeso la libertà, ponendo anche delle regole per la crescita sociale di tutti: gran parte dei mezzi mediatici-giornalistici vennero diretti e coinvolti nell’opera di rimescolamento delle vita politica nazionale. Quest’opera tro-vò un alleato potente e determinante nella magistratura, che intravide la possibilità di una riaffermazione del proprio ruolo, anche al di sopra del quadro costituzionale: una ricerca curata dal giornalista de “L’Espresso”, Stefano Livadiotti e pubblicata da Bompiani nel 2009 con il titolo Magistrati, l’ultracasta (6) descrive le ambizioni in-credibili di questo mondo, che aveva mal sopportato l’iniziativa referendaria promos-sa dai radicali e dai socialisti con il referendum sulla responsabilità civile dei magi-strati poi approvato – sull’onda del caso Tortora – dalla grande maggioranza degli italiani. Questi due poli, quello mediatico/finanziario –di cui inizialmente furono par-te molto attiva le reti berlusconiane – e quello giudiziario, trovarono poi nella mano-valanza politica disponibile degli utili interlocutori: dal ribellismo leghista al massi-malismo giustizialista, fino al revanscismo fascio/comunista plasticamente rappre-sentato dalle comuni operazioni di piazza inscenate contro il capro espiatorio desi-gnato.
Per tornare al lavoro di Mattia Feltri, tra il 1991 e il 1994 il dado era tratto, specialmente per la magistratura che si mosse sulla base di calcoli politici, come ai tempi di Verre/Cicerone. Annusò nell’aria le difficoltà della coalizione di centro-sinistra al governo, allora guidata da Craxi, Andreotti e Forlani, definita sbrigativa-mente CAF: prima con il referendum sulla preferenza unica del 1991, vinto dai refe-rendari nonostante la richiesta di disimpegno dal voto delle forze governative, poi con le elezioni dell’aprile 1992 che segnarono una flessione, pur non drammatica, del quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI. Qualche anno dopo, nel 1998 il procuratore ag-giunto di Milano Gerardo D’Ambrosio – il quale, a testimonianza palmare della politi-cizzazione di quella magistratura, sarà poi eletto parlamentare nelle liste dei DS, Democratici di Sinistra, come peraltro il collega Di Pietro lo era stato del PDS su de-signazione del leader ex-comunista Massimo D’Alema – dichiarerà spavaldamente : «Quando dopo le elezioni del 1992 capimmo che quel quadripartito non avrebbe raggiunto la maggioranza in Parlamento, intuimmo che era il momento di dare un’accelerazione all’inchiesta». Accelerarono dunque, tra arresti quotidiani e suicidi degli indagati, per giungere ai capi, ai Forlani e ai Craxi ora in difficoltà (Verre do-cet). Eppure il quadripartito nel 1992 aveva ottenuto la maggioranza dei seggi in Parlamento grazie a 19 milioni di voti, che consentirono di superare il 50% dei rap-presentanti: come ha ricordato spesso l’on. Ugo Intini, nel ventennio successivo mai nessuna coalizione vincente avrebbe ottenuto un risultato in voti popolari così eleva-to! Eppure allora - nonostante i 331 seggi al Camera dei Deputati su 630 compo-nenti e 167 al Senato su 315 che poi portarono alla fiducia per il Governo Amato con complessivi 503 voti favorevoli contro 422 tra contrari e astenuti - una vasta cam-pagna mediatica dichiarò delegittimato quel Parlamento e la famosa «accelerazione» delle inchieste fece il resto. Ecco perché di fronte a quei numeri elettorali e parla-mentari, più di un commentatore ha potuto definire «golpe mediatico-giudiziario» quel complesso di eventi che portarono traumaticamente alla fine della prima Re-pubblica. Sul punto si veda anche l’agghiacciante resoconto di Daniel Soulez Lariviè-re Il circo mediatico-giudiziario (7), tanto che, anni dopo, un prestigioso studioso progressista come Michele Salvati ebbe a definire «un fatto unico in Europa» la scomparsa dei partiti democratici di governo, «un’esito che solitamente si associa a traumi ben più gravi, a guerre e rivoluzioni» (8). Molti presunti inflessibili difensori della Costituzione repubblicana – che ancor oggi si atteggiano in tale veste – assi-stettero senza fiatare, anzi in molti casi assecondarono, l’eliminazione delle forze po-litiche repubblicane che avevano provato a portare l’Italia sulla strada della libertà e della crescita sociale: i tratti dell’operazione furono sbrigativi e maneschi, a partire dall’uso della carcerazione preventiva a scopo confessorio, dimentichi del richiamo antico dell’illuminista Pietro Verri: «carcerari idest torqueri», carcerare è uguale a mettere sotto tortura, altro che mani pulite.
I leader democratici più emblematici della prima Repubblica vennero condan-nati e sistematicamente criminalizzati. Ci si accanì soprattutto con Bettino Craxi, ri-fugiatosi all’estero in Tunisia, come nella storia dovettero fare tanti altri 'fuoriusciti' di fronte alla spietatezza degli avversari: a chi non visse quella temperie vale ram-mentare anche l’implacabile apostrofe del candidato sindaco di Roma Francesco Ru-telli che il 2 dicembre 1993, respingendo l’appoggio socialista che Craxi gli aveva pur offerto per la competizione contro l’ex-neofascista Gianfranco Fini, replicò sprez-zante: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere»! Quando il danno irreparabile alla persona e a quello che rappresentava era stato ormai fatto, proverà lo stesso citato magistrato D’Ambrosio a metterci una pezza, in un’intervista a “Il Foglio” del 23 febbraio 1996 dichiarando che «la molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica». Parole che dovevano esser dette prima, non dopo l’annientamento. Alla turba e ai nuovi capipopolo, convenne considerarlo – testualmente – un «criminale matricolato», dedito agli affari personali e ad una vita dorata: solo nel rovesciamento di regimi dispotici corrono frasari del genere, incon-cepibili per una personalità democratica come Craxi, uno dei premier repubblicani più affermati, oltre che autorevole vicepresidente dell’Internazionale Socialista. Morirà espatriato in Tunisia, in semplicità, fuori dagli agi e dagli ori immaginati dagli avver-sari. La sua sorte griderebbe ancora vendetta se un numero sempre maggiore di os-servatori democratici non si fosse sempre più interrogato sulla «pessima prova» data dagli italiani nei primi anni ’90, secondo le accorate osservazioni di Norberto Bobbio. Porre rimedio a quella infausta «prova», cercare di non ripeterla, resta il compito di una politica mite e democratica. Del resto qui abbiamo parlato di una storia, ma non come fosse un 'amarcord' inerte: no, nel segno di Benedetto Croce, sappiamo che la storia è sempre storia contemporanea e serve – come ribadisce il professor Pane-bianco – «a cercare lumi nel passato per comprendere cosa sia meglio fare nel pre-sente»
LIBRI:
1 S. ROMANO, Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1995.
2 A. SPIRI, L’esilio del moderno principe, in “Mondoperaio”, n.6/7 2016.
3 F. ALBERONI, Valori, Rizzoli, Milano, 1993.
4 P. MIELI, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Rizzoli, Milano, 2016.
5 M. FELTRI, Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite, Marsilio, Venezia, 2016.
6 S. LIVADIOTTI, Magistrati, l’ultracasta, Bompiani, Milano, 2009.
7 D. SOULEZ LARIVIERE, Il circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macerata, 1994.
8 M. SALVATI, Tre pezzi facili sull’Italia, il Mulino, Bologna, 2011.

13) Populismo - Cristo e Barabba

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 4 /2017 / / / / il popolo e l’algoritmo

Fin dagli inizi dell’età contemporanea la critica alla democrazia, al diritto di tutti di partecipare alle scelte della vita pubblica, è stato un puntuale rovello delle classi conservatrici, non solo di quelle reazionarie, così ben riassunto dal filosofo svizzero Henri-Frédéric Amiel (1821-1881): «Le masse saranno sempre al di sotto della media. La maggior età si abbasserà, la barriera del sesso cadrà e la democrazia arriverà all’assurdo rimettendo la decisone intorno alle cose più grandi ai più incapa-ci. Sarà la punizione del suo principio astratto dell’uguaglianza, che dispensa l’ignorante dall’istruirsi, l’imbecille dal giudicarsi, il bambino di essere uomo e il de-linquete di correggersi… Non riconoscere la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale, culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento». Dunque, solo una élite sufficientemente ricca e/o colta avrebbe potuto porre riparo a tale decadenza e amministrare lo Stato con la stessa perizia con cui amministrava le proprietà personali.
Per lungo tempo questa fu una posizione comune a tutta la destra europea, finché giunse Winston Churchill (1874-1965) a dichiarare che «la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre». Ma anche su opposto fronte, chi sosteneva a parole addirittura la 'dittatura del proletariato', non nutriva affatto eccessiva fiducia nelle masse, tutt’altro, tanto da organizzare un ap-parato elitario il quale – autoproclamatosi avanguardia del proletariato – esercitò una sfrontata dittatura 'sul' proletariato.
È dunque radicata la sfiducia nelle capacità del popolo di esprimersi e agire li-beramente. Una preoccupazione che comunque non poteva essere estranea a tanti sinceri riformatori, i quali – a differenza della destra storica e della sinistra rivoluzio-naria – avevano davvero a cuore la crescita civile del popolo. Sì, perché più di altri, essi avevano ben presente che la democrazia poteva vivere basandosi su un popolo emancipato culturalmente. Per tutto il Novecento fu questo l’orizzonte dei tanti ri-formisti cristiani e socialdemocratici europei e di grandi maestri democratici ameri-cani come John Dewey (1859-1952), che non casualmente individuò negli inse-gnanti – e quindi nella cultura – i soggetti più idonei a sostenere la democrazia. Dunque l’istruzione, la cultura, la formazione intellettuale e professionale, furono individuati come i mezzi per allargare alla maggioranza della popolazione le opportu-nità di accesso alla vita civile, al lavoro, alla politica democratica.
Oltre che con l’educazione, la democrazia doveva svilupparsi con un dibattito critico. È stato il giurista italiano Gustavo Zagrebelsky a riassumere in un sapido saggio Il 'Crucifige!' e la democrazia l’esigenza di organizzare un «vero pluralismo delle voci». Se Socrate era stato un seminatore di dubbi nella gente disposta ad ascoltare soltanto quello che voleva sentirsi dire e per questo era stato condannato, nella nostra epoca resta ancor più necessario rammentare che la verità è sempre sfaccettata, che le ragioni sono sempre parziali e possono essere reversibili. Ricor-dando che fra Cristo e Barabba il popolo scelse Barabba, Zagrebelsky scrive che fra la folla che gridava 'Crucifige!' non c’era posto per il dissenso: «Se fra i tanti, una voce si fosse potuta alzare per farsi ascoltare e fosse riuscita ad organizzare una di-scussione, se si fossero allora formati diversi partiti, forse la decisione si sarebbe orientata diversamente»: ecco la vera democrazia, quella che l’autore definisce «democrazia critica». È del 1995 questo lavoro di Zagrebelsky, ma lì sono state fis-sate parole profetiche per tutto il ventennio successivo e oltre. Nei suoi pensieri, l’autore si preoccupava dell’esigenza di evitare le derive plebiscitarie e il 'sondaggi-smo' pronto a divinizzare o a demonizzare il popolo 'in tempo reale' – mentre nella vera democrazia ogni decisione chiede più tempo, deve essere revocabile e rivedibile – denunciando inoltre le azioni da 'caudillo' di chi si appella direttamente alla «gen-te» scaldandone gli umori prepolitici e adulandola «nel tentativo di tenerla in una condizione di minorità infantile per poterla meglio controllare».
Ma queste preoccupazioni da chi potevano essere scongiurate? Più d’un fili-steo farà un salto sulla sedia: la democrazia critica si realizza «dando ai singoli e al popolo le istituzioni per agire». Quali? Zagrebelsky prosegue risoluto: «Le istituzioni classiche del popolo capace di azione politica sono i partiti» memore delle considera-zioni di colui che è stato uno dei maggiori teorici della democrazia rappresentativa, Hans Kelsen (1881-1973), secondo il quale «la moderna democrazia si fonda inte-ramente sui partiti politici, la cui importanza è tanto maggiore quanto maggiore ap-plicazione trova il principio democratico».
Educazione, istruzione, partiti politici democratici! Quant’è lontana da questi approdi la nostra attualità. La politica non è interessata da dibattiti programmatici e critici fra partiti. Non solo, ognuno pensa che la propria ragione parziale sia la verità assoluta. Ma c’è di peggio. Ormai si costruiscono «post-verità», note come fake news, notizie false o bufale, grazie alle quali si possono vincere le elezioni: tanto che l’Oxford Dictionary ha designato «Post-Truth», appunto post-verità, come parola dell’anno 2016: un nuovo termine che «indica la supremazia dell’emotività sui fatti, la facilità con cui le bugie vengono raccontate – specie nelle campagne elettorali – e accolte dal pubblico». Ora, siccome il veicolo comunicativo principale, dopo il tempo della Tv, è diventato il Web, è qui che si esercita – senza ricerca reale di dialogo e di confronto – la contesa. C’è il caso internazionale di Donald Trump, che rischia di es-sere rappresentativo dei tempi che ci aspettano. Paul Horner, noto in America per essere un formidabile creatore di notizie false in internet, ha potuto dichiarare: «Il presidente Trump ha vinto grazie a me». Una delle sue bufale più contagiose, «il Pa-pa vota per Trump», è stata tra le più cliccate con un «mi piace». In una intervista del dicembre 2016, Horner rivela di aver pensato che le sue sparate avrebbero dan-neggiato Trump, ma invece ammette di essersi sbagliato: «L’ho fatto per ridicolizzar-lo, speravo che leggendo quelle cose le persone pensassero che era follia votare per lui… E invece quelle storie venivano condivise dai suoi supporter, perché le persone leggono qualsiasi cosa che confermi le loro idee senza farsi domande, e così diven-tano sempre più stupide». È la via aperta dai siti e dai gruppi che si creano in inter-net: ognuno coltiva la propria verità, credendo ciecamente alle fandonie in cui pare utile immedesimarsi e sprofondare. Confronto con altre 'verità': zero. «Ci si confron-ta solo con le persone che la pensano allo stesso modo» – conferma l’editorialista de “Il Sole 24 Ore” Carlo Bastasin – tanto che «credere alla stessa finzione della realtà diventa una specie di prova di lealtà che filtra gli interlocutori rendendoli ancora più fedeli l’uno all’altro». Insomma, un settarismo di massa, basato sulla superficialità, l’incompetenza e l’ignavia più crasse.
Questa desolazione, se attanaglia ora l’America trova e troverà sempre più spazio nel nostro Paese. Tullio De Mauro, l’illustre linguista da poco scomparso, defi-niva una «emergenza sociale» l’ignoranza dilagante, se «in un anno – secondo il Censis e l’Istituto Treccani – il 56% degli italiani non arriva a finire nemmeno un li-bro», se «sette italiani su dieci non capiscono la lingua», se «il 71% della popolazio-ne si trova al di sotto del livello minimo di comprensione di un testo di media diffi-coltà». Come conseguenza succede quello che Nando Pagnoncelli – dirigente del centro di ricerca Ipsos – descrive nel libro Dare i numeri. Le percezioni sbagliate de-gli italiani (Ed. Dehoniane, 2016): «Noi italiani siamo un popolo che crede alle bufa-le, perché non sappiamo, non leggiamo, non ascoltiamo con attenzione, non ci in-formiamo bene, ci costruiamo un mondo di opinioni granitiche sospese in una bolla di sapone». Opinioni orecchiate al bar, sul lavoro, per strada, dal barbiere o dai talk-show televisivi e da qualche tempo in maniera imperiosa sui siti internet preferiti che veicolano panzane o verità parziali. Il risultato è che accanto ad una scarsa alfabe-tizzazione verbale e scritta, risulta diffuso «l’analfabetismo numerico»: così tanti ita-liani «non hanno dimestichezza con i numeri e le percentuali, faticano ad orientarsi e a formulare stime corrette finendo per deformare la realtà». Il matematico Pier-giorgio Odifreddi ha rappresentato con altre più feroci parole lo stato della nostra in-digenza culturale nel suo Dizionario della stupidità (Rizzoli, 2016).
Come uscire da questa situazione che sembrerebbe dar ragione allo scherno mostrato dai conservatori ottocenteschi verso l’avanzare di una plebe incolta e ondi-vaga, scherno che peraltro cercava affidamento in una vasta tradizione, a partire dalle antiche lezioni antidemocratiche di Platone e Aristotele? Proviamo a indicare queste possibilità:
1. Rivalutare il magistero di Hans Kelsen: la democrazia non può fare a meno dei partiti; compito di una politica alta – secondo il monito di Zagrebelsky – è quello di renderli «vere istituzioni di comunicazione attiva e circolare tra i cittadini».
2. Investire nella cultura e nell’istruzione è fondamentale per creare e mante-nere in vita una società aperta.
3. Applicare tre regole contro l’ignoranza ai tempi di internet e contro la facilità impressionante con cui si diffondono fandonie sui social network, seguendo i consi-gli del prof. Robert Proctor, che ha indagato e studiato la «non conoscenza» conian-do il nuovo termine «agnotologia». Primo: domandarsi sempre quale sia la fonte di certe affermazioni. Secondo: chiedersi qual è la reputazione di questa fonte. Terzo: riflettere su chi trae vantaggio da quella stessa affermazione.

LIBRI:
-Gustavo Zagrebelsky, Il 'Crucifige!' e la democrazia, Einaudi, Torino, 1995
-Hans Kelsen, La democrazia, il Mulino, Bologna, 1984
-Nando Pagnoncelli, Dare i numeri. Le percezioni sbagliate degli italiani, Ed. Dehoniane, Bolo-gna, 2016
-Piergiorgio Odifreddi, Dizionario della stupidità, Rizzoli, Milano, 2016


14) Rileggere Montaigne

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 7-8/2017 / / / / montaigne

Un’estate con Montaigne è un libro di Antoine Compagnon che commenta «quaranta brevi passi» dei Saggi di Michel de Montaigne (1533-1592) trasmessi da una radio francese in una scorsa estate e poi da lì trasferiti in una pubblicazione di grande successo, edita in Italia da Adelphi. Una lettura a cui non ho rinunciato neanch'io e di cui ora per l'estate 2017 provo a proporre manzonianamente il 'sugo' per i lettori interessati: si tratta di un «incantevole vademecum» al pensiero del grande filosofo, scrittore e politico francese ad opera di un illustre professore del Collège de France come Compagnon.
Commentare in maniera concisa alcune delle annotazioni di quest’ultimo – ri-percorrerne insomma a modo nostro le parole – non ci deve imbarazzare: è stato lo stesso Montaigne a spalancarci questa via, che sarà poi percorsa da un’infinità di in-tellettuali, senza problemi nell’affermare che quello che loro pensavano era già stato stampato da altri. L’autorevole Montaigne – che invece beffardamente racconterà di nascondere le proprie fonti («l’autore, il luogo, le parole e le altre contingenze li di-mentico all’istante») – dichiarerà esplicitamente: «Il mio giudizio ha tratto profitto solamente dai ragionamenti e dalle idee di cui si è impregnato». E per ben impre-gnarsi aveva avuto fortuna Michel Eyquem de Montaigne, discendente di ricchi mercanti, con un’immensa biblioteca a sua disposizione! La sua grandezza deriva dai giudizi sintetici che sa proporci da tante sconfinate letture: e lo fa con una levità sconcertante, rimandandoci sempre all’arte del dubbio, nella convinzione che ogni sapere è fragile: lui, che «ha attraversato tutti i saperi e si è reso conto che erano solo parziali», può ben affermare che non c’è niente di peggio al mondo di coloro che credono di sapere. E fa l’elogio di Socrate «che sa di non sapere», per poi rico-struire sulla «dotta ignoranza» la sua visione scettica, la sua propensione e l’invito a non prenderci troppo sul serio.
Irride anche la morte e il supremo dubbio sul dovere di pensare a quella fatali-tà: tanti intellettuali – osserva – a differenza del volgo pensano spesso alla morte per «spogliare questo nemico della sua stranezza». Ma poi gli sovviene un dubbio: «Come si vive meglio? Pensando sempre alla morte, come vorrebbero Cicerone e gli stoici, oppure pensandoci il meno possibile come Socrate e i contadini?». Montaigne è titubante, ma poi conclude parteggiando per chi non ci pensa molto: «Vorrei che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare cavoli».
Moderno campione di problematica e sapiente incredulità, si professerà cattoli-co osservante per dichiarare subito dopo di essere pronto a cambiare idea, su tutto, e dunque anche sulla fede. Siamo cristiani perché «ci siamo trovati a nascere in un paese dov’era in uso tale religione, e così rispettiamo la sua antichità, o l’autorità degli uomini che l’hanno tenuta in vita». Ma subito dopo si chiede: «Che verità è mai quella che non va oltre queste montagne ed è menzogna per quelli che vivono dell’altra parte?». E conclude in modo eversivo: «Si è cristiani come si è perigordini [della regione francese del Périgord] o tedeschi» con tanti saluti per la verità e l’universalità della Chiesa cattolica. Nondimeno, le conclusioni di tali pensieri ribelli si risolvono in un sarcastico conservatorismo: se tutto è relativo, se i nostri convinci-menti dipendono dal luogo in cui si nasce e dalle tradizioni lì operanti, «tanto vale attenersi ad esse, né migliori né peggiori di altre: è regola delle regole e legge ge-nerale delle leggi che ognuno osservi quelle del luogo in cui si trova».
È il caso che governa le nostre vite e che ci fa nascere francesi piuttosto che cinesi, cristiani piuttosto che buddisti: osserviamo dunque le regole passateci dal caso, «astenendoci però dall’attribuire loro valore universale, certezza assoluta» rac-comanda in sintesi Montaigne come ci ricorda lo storico Massimo Firpo. A queste conclusioni – insieme miti e sferzanti – attingeranno tanti liberi pensatori nel corso del tempo, e quanto sarebbero utili e benefiche anche oggi se fossero praticate e predicate dagli invece eccitati cultori di vecchi e nuovi integralismi. Montaigne dun-que ci insegna a non essere esagitati, nella vita pubblica e privata: prendiamoci il tempo per vivere, seguiamo la natura, godiamo del momento presente, non accele-riamo se non c’è motivo. Festina lente, ovvero affrettati lentamente. Scrive icastica-mente Montaigne nella “irriverentissima chiusa” dei suoi Saggi: «Se il maestro di Esopo pisciava camminando, dovremo allora cacare correndo?». E conclude: «Cer-chiamo di amministrare bene il nostro tempo, ce ne resta molto di ozioso e male im-piegato».
Il miglior tempo Montaigne lo trova nella lettura e nella scrittura, attività che svolgeva senza l’irruenza del cacciatore che ama solo la cattura; queste caccie spiri-tuali verranno godute mano a mano, con soddisfazioni accumulate durante il cam-mino: importante è condurle con speranza e desiderio, altrimenti non c’è vita, «il nostro andare perde completamente d’interesse». Addio, signor de Montaigne, no-stro maestro, nostro fratello.

LIBRO:
-Antoine Compagnon, Un’estate con Montaigne, Adelphi, Milano, 2014


15) Bolscevichi - La rivoluzione contro il socialismo

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 10/2017 / / / rivoluzione russa

«Sono partito bolscevico e ritornato monarchico»: è il grande scrittore mitte-leuropeo Joseph Roth, che negli anni di entusiasmo si firmava ‘Roth il Rosso’, a dare testimonianza con il suo Viaggio in Russia del 1926 di tanto sconforto. La cocente delusione viene spiegata con sintesi schietta dallo storico Geoffrey Hosking: nell’ottobre 1917 «i bolscevichi arrivarono al potere promettendo al popolo pace, ter-ra, pane, controllo operaio nelle fabbriche, autodeterminazione per le nazionalità… Promisero al popolo pace, ma lo gettarono in una nuova terrificante guerra civile. Gli promisero pane, ma lo affamarono a un livello che non si era visto da tre secoli. Gli promisero terra ma lo privarono a forza dei frutti di quella terra. Promisero il control-lo operaio, ma aggravarono il tracollo economico causando disoccupazione di massa e quasi distruggendo la classe operaia. Promisero il potere dei soviet ma instauraro-no la dittatura di un partito unico, disperdendo l’Assemblea Costituente». Sì, perché non resta nella memoria di molti che alle elezioni per l’Assemblea Costituente indette nel novembre 1917, oltre il 40 per cento dei suffragi andò ai Socialisti rivoluzionari – che avevano un forte radicamento nelle campagne – mentre i bolscevichi ottennero circa il 25 per cento; il resto finì ripartito tra menscevichi, cadetti (costituzionali de-mocratici) e liste di minoranze nazionali. Ma l’Assemblea venne subito sciolta con l’ordine del comandante militare di sgombrare l’aula «perché la guardia è stanca»: l’Assemblea non aveva bisogno di guardia, ma la maggioranza dei costituenti dovet-te soccombere alla milizia bolscevica.
Non sarà un risentito conservatore ma la socialdemocratica rivoluzionaria te-desca Rosa Luxemburg a dare fin dal 1918 – ben prima dunque del Roth che viveva ancora nella sua illusione – la definizione più pregnante della dittatura politico-militare instaurata da Lenin e dai capi bolscevichi: «La guida effettiva è in mano a una dozzina di teste superiori; e una élite di operai viene di tempo in tempo convo-cata per battere le mani ai discorsi dei capi, votare unanimemente risoluzioni prefab-bricate: in fondo dunque un predominio di cricche, una dittatura certo; non la ditta-tura del proletariato, tuttavia, ma la dittatura di un gruppo di politici».
A sua volta l’anarchico Alexandr Berkman già nel 1921 aveva tirato conclusio-ni analoghe: «Ho visto la lotta di classe diventare una guerra di vendetta e di ster-minio. Ho visto gli ideali di ieri traditi, il senso della rivoluzione invertito, la sua es-senza capovolta in reazione. Ho visto gli operai sottomessi, l’intero paese zittito dalla dittatura del partito e dalla sua brutalità organizzata». Ancor più di lui, il filosofo e matematico Bertrand Russel nel suo viaggio a Pietrogrado nel 1920, era stato cate-gorico: il fanatismo del nuovo regime era destinato «a portare nel mondo secoli di oscurità e inutile violenza».
Luxemburg, Berkman, Russel, per non parlare di Roth, erano partiti da posi-zioni aperte verso la rivoluzione, ma trassero di lì a poco le conclusioni dette. Così successe alla libertaria Emma Goldman, 'Emma la rossa', che nel 1917 plaudì alla ri-voluzione bolscevica ma già «alla fine del 1921 – annota lo storico Emilio Gentile – disgustata dal regime di terrore, dall’oppressione degli operai, dai privilegi dell’oligarchia bolscevica, lasciò la Russia accusando il regime di aver tradito la rivo-luzione della libertà e dell’uguaglianza».
Anche in Italia, di fronte all’estremismo dei massimalisti che volevano «fare come in Russia», si levarono i socialisti riformisti di Matteotti, Treves e Turati, con quest’ultimo tempestivo nel considerare la fazione comunista che si staccò dal Psi nel gennaio 1921 come «la corrente reazionaria del socialismo». Ma quanti anni sa-rebbero passati perché i partiti comunisti europei cogliessero la natura nefasta del comunismo bolscevico? Il segretario del Pci Enrico Berlinguer arrivò addirittura nel 1981 a constatare la «fine della spinta propulsiva» della rivoluzione d'Ottobre! Se si pensa che tale spinta propulsiva si era retta su una guerra civile-terroristica che tra il 1917 e il 1922 aveva portato a circa 9 milioni di morti e poi – sempre quando la spinta era ancora «propulsiva» – a 50 milioni di morti nel periodo staliniano 1924/1953 [«media tra le varie fonti, esclusi quelli dovuti alla Seconda guerra mondiale» secondo il rendiconto riportato nella ricerca curata da Antonella Salomoni, La Rivoluzione Russa, Rcs, Milano, 2015], siamo all’ incredibile dictu.
Ma veniamo in breve alla cronologia. Senza riandare ai mali antichi della Rus-sia che già nel corso del 1800 avevano fatto osservare al viaggiatore e letterato francese Astolphe de Custine che la Russia sotto la tirannia degli zar era «una cal-daia d’acqua bollente ben sigillata, ma posta su un fuoco sempre più ardente e pronta ad esplodere», evidenziamo che nel 1905 c’era stato un prodromo significa-tivo. Nella maggiore città industriale della Russia, a San Pietroburgo, il 9 gennaio 1905 un corteo di operai disarmati si era presentato davanti al Palazzo d’Inverno «per presentare allo zar Nicola II una petizione che, assieme a migliori condizioni di vita per la popolazione – riporta la citata ricerca RCS – chiedeva anche la convoca-zione dell’Assemblea Costituente». L’esercito sparò sulla folla e quella giornata si ri-solse nella tristemente famosa 'Domenica di sangue', a cui seguirono ribellioni in al-tre città industriali come a Ivanovo-Voznesensk dove i lavoratori elessero i primi 'Consigli di deputati operai', i soviet, strutture rappresentative di base. A seguito di continue sollevazioni, nell’ottobre 1905 lo zar fu costretto a concedere l’istituzione della Duma, un’assemblea parlamentare che anche se con poteri non definiti contri-buì a sopire le ribellioni. Ma – spiega ancora la ricerca della storica Salomoni – «l’assaggio delle possibilità di una rivoluzione sarebbe rimasto vivo nei periodi suc-cessivi, e quando le condizioni lo consentirono nuovamente, all’inizio del 1917, mentre la Russia si trovava stremata dalle perdite umane e territoriali della Prima guerra mondiale, ripresero le manifestazioni, gli scioperi e le rivolte; scoppiò inattesa e non premeditata, la Rivoluzione di Febbraio, guidata dai rinati soviet di Pietrogrado [come San Pietroburgo era stata ribattezzata nel 1914, poiché questa denominazio-ne richiamava una terminologia propria della Germania, contro cui la Russia era ora in guerra] ma con una differenza rispetto al 1905: l’esercito, accorso allora a soste-gno dello Zar, questa volta si schierò dalla parte dei lavoratori». La Rivoluzione di Febbraio, frutto della sollevazione in gran parte spontanea della popolazione e della guarnigione di Pietrogrado, avvenuta tra il 23 e il 27 febbraio – secondo il calenda-rio giuliano vigente allora in Russia, tra l'8 e il 12 marzo considerando il calendario gregoriano – provocò la fine della dinastia dei Romanov, dell'Impero russo e dell'au-tocrazia. Tutto prese le mosse da un pacifico corteo di operaie, studentesse e bor-ghesi per la festa internazionale della donna dell’8 marzo, che originò una rivoluzio-ne «senza capi, spontanea e anonima» come osserverà lo storico William H. Cham-berlin, in grado tuttavia di costringere lo zar Nicola II ad abdicare, portando all’istituzione di un governo provvisorio con rappresentanti della Duma, dei costitu-zionali democratici e dei menscevichi, l’ala riformista del partito socialdemocratico russo. Accennavamo sopra che nessuno aveva previsto la Rivoluzione di Febbraio: tanto che rivoluzionari poi diventati famosi se ne stavano all’estero: Lenin a Zurigo, Trotskij a New York, mentre Stalin era in Siberia, lontano dagli avvenimenti. C’era chi invece stava sul campo, come Aleksandr F. Kerenskij, fiero avvocato socialista antizarista, difensore di tanti perseguitati politici e vicepresidente del soviet di Pie-trogrado. Egli partecipò al governo provvisorio diventando nel luglio 1917 primo mi-nistro. Si trovò nella situazione di dover continuare la guerra contro l’Austria e la Germania, pur non avendo votato i crediti di guerra nel 1914: cercò «di dar vita ad un patriottismo rivoluzionario – scrive Marcello Flores in 1917. La Rivoluzione – in un’ottica di guerra delle democrazie contro gli imperi autoritari». Ma viene debilitato dalla fallita offensiva in Galizia mentre deve sventare un tentativo reazionario del generale Kornilov, comandante in capo dell’esercito russo.
Ecco dunque alle porte l’Ottobre, il colpo di mano dei bolscevichi – che nel 1918 si denomineranno comunisti – i quali in pochi giorni, mettendosi in sintonia con la rabbia popolare e il rifiuto della guerra da parte dei soldati, esautorarono il governo e attraverso il Comitato militare rivoluzionario, organo del soviet di Pietro-grado, presero il potere. Consentono di lì a poco le elezioni dell’Assemblea Costi-tuente: ma l’esito si è visto e nel gennaio 1918 l’Assemblea viene dispersa. Scrive Vittorio Strada in Impero e rivoluzione, citando la fondamentale monografia sull’argomento di Lev Protasov: «L’accusa di aver usurpato il potere nell’ottobre 1917 sarebbe caduta, se i bolscevichi avessero mantenuto la loro promessa di tra-smettere il potere supremo all’Assemblea Costituente. Invece con la scelta repressi-va ''il potere bolscevico si privò della legittimità che, come è evidente in una retro-spettiva storica, non gli poterono conferire i congressi falsati dei soviet'' e il partito bolscevico accelerò così la sua evoluzione in una ''organizzazione chiusa di tipo poli-tico-militare'' identificandosi con lo Stato, facendo dei soviet un decoro di facciata».
Imprevista la Rivoluzione di Febbraio ma «ancor più sorprendente» fu l’Ottobre considera la storica Antonella Salomoni. E qui l’imprevisto è nelle mani di Lenin, che ancora nel gennaio 1917dalla Svizzera «prevedeva che la sua generazio-ne non avrebbe compiuto una rivoluzione in Russia»; ma poi – giunto in aprile a Pie-trogrado su un treno piombato messo a disposizione dai militari tedeschi per accele-rare le contraddizioni interne del nemico russo – attende l’ora giusta. «I rivoluzionari – sostenne la filosofa Hannah Arendt – sono coloro che sanno quando il potere gia-ce per la strada e quando lo possono raccogliere». Ecco, lui seppe raccoglierlo, senza tanti scrupoli e delicatezze, liquidando la democrazia formale in nome della dittatura rivoluzionaria. Nel libro di Vittorio Strada – sempre riportando testimonianze dall’opera di Protasov – il capo bolscevico Nikolaj Bucharin racconta che nella notte dello scioglimento dell’Assemblea Costituente si recò da Lenin «con una bottiglia di vino» per «ripetergli qualcosa dell’avvenuto scioglimento»: rise a lungo, Lenin, «ri-deva e continuava a ridere, con allegria, fino alle lacrime». Probabilmente – come ri-ferirà Trotskij – irrideva e scherniva i socialisti rivoluzionari che si erano recati all’Assemblea portando «candele nel caso i bolscevichi avessero tolto la corrente elettrica e una quantità di panini nel caso fossero stati privati di cibo». Commenta Trotskij: «Così la democrazia si presentava al combattimento con la dittatura: arma-ta di tutto punto di candele e panini». I cultori del «marxismo degli stupidi» – così Lenin bollava gli avversari socialisti, quelli che sostenevano la conquista graduale e democratica del potere, assecondando l’evoluzione economica e culturale della so-cietà – erano serviti.
Chiuso questo siparietto, comunque assai significativo dell’isterismo e cinismo che albergava tra i capi bolscevichi, è bene ritornare ad un appunto della storica Sa-lomoni, che considera anche «teoricamente poco chiara» la rivoluzione bolscevica: sì, perché ci si trova innanzi alla dittatura di un partito, anziché del proletariato, anzi più precisamente all’egemonia di un capo carismatico e di una nomenklatura ristret-ta sullo stesso partito e sullo Stato. Come ciò possa conciliarsi con l’immaginazione di Marx ed Engels che prevedeva «l’autogoverno delle masse» addirittura senza l’intermediazione del partito, pone un problema teorico insormontabile. Ma nella pra-tica Lenin aveva superato l’ostacolo e sentenziava: «Colui che attende una rivolu-zione sociale 'pura', non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capi-sce la vera rivoluzione» (in A. Salomoni, cit.). Così anche Marx ed Engels sono si-stemati. Ma non solo: «La spada forgiata da Lenin – scrive nel 1937 il socialista cri-stiano Georgij Fedotov – infliggerà al socialismo mondiale una profonda ferita» per aver scatenato «una rivolta contro la libertà instaurando un dispotismo mai visto nella storia russa» e per aver costruito «un grandioso inganno alle masse popolari promettendo pace, pane e libertà preparando invece violenza, fame e tirannia». Sa-ranno milioni le vittime di questa «corrente reazionaria del socialismo», una tirannia che da Lenin prosegue con Stalin e oltre fino ai carri armati su Budapest e Praga.
Alcuni testi, oltre a quelli considerati, risultano istruttivi. Il terrore rosso in Russia 1918-1923, di Sergej Mel’gunov – un fervente socialista 'tolstojano' perse-guitato dalla polizia bolscevica e costretto a rifugiarsi all’estero – riporta una testi-monianza di prima mano sul fatto che le stragi comuniste cominciarono subito dopo la presa del potere e che «Lenin fu maestro di Stalin nella pratica del terrore», come sintetizza il titolo di una recensione di Paolo Mieli sul “Corriere della Sera” del 27 lu-glio 2010.
Anche per Francine-Dominique Liechtenhan con il saggio Il laboratorio del gu-lag, prima di Stalin furono Lenin e Trotskij a «perfezionare il sistema di deportazione e la tecnica degli omicidi di massa imprigionando sulle isole Solovki, nel Mar Bianco, aristocratici, preti, borghesi, contadini, operai, artisti e cittadini caduti in disgrazia». Se Lenin nel Che fare? aveva affermato che «il Partito si rafforza proprio epurando-si», dal novembre 1917 questo concetto sarà esteso all’intera società con assassinii di massa.
Infine è da considerare la notevole, ponderosa opera di Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, che grazie all’apertura degli archivi moscoviti ricostruisce il periodo 1915-1945 con documentazione inedita e vasta. Vi si sostiene una tesi pro-blematica: quello sovietico non fu un «totalitarismo modernizzante», ma esercitò una violenza da Stato primitivo, con forti limiti culturali, che teneva «la barbarie co-me virtù». Insomma «le repressioni sovietiche furono ben più rozze dello sterminio scientifico attuato dalle SS». Ma questa non sarà un aggravante?
Resta da spiegare – ma noi siamo cittadini del XXI secolo, più o meno como-damente fuori dalle temperie del Novecento – come grandi partiti e una lunga schie-ra di intellettuali e membri delle società civili occidentali abbiano potuto partecipare o quantomeno assistere con entusiasmo alle vicende sovietiche, con le notevoli ecce-zioni di coloro che in nome di un ideale democratico fin dall’inizio vi si opposero, co-me qui abbiamo provato a ricordare. L’elenco della vergogna sarebbe infinito: re-stiamo definitivamente turbati citando solo un caso, quello penosissimo dell’Ode a Stalin di Pablo Neruda.

LIBRI:
-Joseph Roth, Viaggio in Russia, Adelphi, Milano, 1981
-Geoffrey Hosking, Russia: People and Empire, 1552-1917, Harvard University Press, Cambrid-ge (Mass.), 1988
-Rosa Luxemburg, Scritti scelti, Einaudi, Torino, 1975
-Alexandr Berkman, The Anti-Climax. The concluding Chapter of My Russian Diary, Maurer& Dimmick, Berlin, 1925
-Bertrand Russel, Teoria e pratica del bolscevismo, Sugar, Milano, 1963
-Emilio Gentile, Emma Goldman. Una vita per il proletariato, in “Domenica del Il Sole 24 Ore”, 16 luglio 2017, p. 27
-Antonella Salomoni (a cura di), La Rivoluzione Russa, Rcs, Milano, 2015
-Astolphe de Custine, Lettera dalla Russia, Adelphi, Milano, 2015
-William H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, Il Saggiatore, Milano, 1972
-Marcello Flores, 1917. La Rivoluzione, Einaudi. Torino, 2007
-Vittorio Strada, Impero e rivoluzione, Marsilio, Venezia, 2017
-Lev Protasov, Vserossijskoe Učreditel’ noe sobranie. Istorija roždenij i gibeli [Assemblea co-stituente panrussa. Storia della nascita e della morte], Moskva, 1977, in V. Strada, cit.
-Georgij Fedotov, Zaščita Rossii, [Difesa della Russia], Paris, 1988, in V. Strada, cit.
-Sergej Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia 1918-1923, Jaka Book, Milano, 2010
-Francine-Dominique Liechtenhan, Il laboratorio del gulag, Lindau, Torino, 2009
-Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, il Mulino, Bologna, 2007


16) I danni del giustizialismo: E. Scalfari & C. - La sinistra trent’anni dopo

>>>> Nicola Zoller


mondoperaio 4-5/2018 / / / / dibattiti

Nell’arco di pochi giorni abbiamo potuto leggere valutazioni pesanti sull’ultimo trentennio italiano. La prima, del giornalista e scrittore Pierluigi Battista: «Una delle cose più stupide predicate in questi decenni è stata il disprezzo dei partiti. I partiti erano quel che erano… ma le sezioni dei partiti erano cose serie, lì ci si riuniva, si andava la sera, dopo il lavoro, si discuteva, ci si confrontava, si litigava. La sezione di partito era un corpo intermedio pieno di vita, un punto di riferimento, un luogo caro a cui appartenere» (“Corriere della Sera”, 8 marzo 2018). Ora è tutto svanito, abbiamo la solitudine di massa, una «folla solitaria» come la definì il sociologo David Riesman. Tutto risulta «disintermediato», non ci sono corpi intermedi tra l’elettore e le istituzioni, tra il popolo e chi decide, insomma sedi reali di confronto per il cittadi-no. Su tutto domina il mezzo televisivo, i dibattiti – col popolo solo ascoltante e guardante – si svolgono nei
talk show; per quella folla solitaria resta Internet «a collegare gli scontenti, ad ali-mentarli, a rinfocolarli» aggiunge Aldo Cazzullo (stesso giornale, stesso giorno).
La seconda: «Verrebbe quasi da rimpiangere le vecchie ideologie», sostiene l’economista e politologo Michele Salvati, sempre in queste giornate postelettorali. Perché? Basta vedere cosa le ha sostituite: «Il rozzo appello xenofobo della Lega»? Oppure «il grido qualunquista ''onestà, onestà'' dei Cinque Stelle»? Un grido che nella storia – mutatis mutandis - ha accompagnato l’inizio di qualsiasi tirannia; un esempio eclatante: partiti dalla predicazione forsennata contro la corruzione degli al-tri, movimenti come quelli fascisti e nazisti si sono poi rivelati come i regimi più pu-trefatti e corrotti di tutti.
La terza: il discorso ora appena accennato, si collega ad altra analoga predica-zione, dimostratasi una fake news come ha spiegato nel febbraio 2018 lo storico An-gelo Panebianco: «Sul finire della Prima Repubblica il vecchio sistema dei partiti en-tra in crisi. Arriva Mani Pulite ed è il diluvio. Il prestigio dei politici crolla ai minimi termini (e non risalirà più). È allora che si diffonde quella che considero la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo». Non è così naturalmente, se proprio quando si scatena 'Tangentopoli' all’inizio degli scorsi anni ’90, la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori – situava l’Italia al 33° posto nel mondo su più di 180 nazioni. Poi i presunti nuovi 'moralizzatori', giunti al comando hanno peggiorato un po’ la situazione…
Richiamate queste tre valutazioni, ecco che Eugenio Scalfari su “la Repubbli-ca” del 9 marzo 2018 spiega involontariamente perché la crisi politica attuale abbia portato la sinistra allo sbando completo, lasciando campo libero a centro-destra e Cinque Stelle. «La sinistra moderna (sic!) cominciò con Tangentopoli nella Procura di Milano nel 1992. In cinque anni – continua Scalfari – venne smontato il sistema po-litico».

Bel risultato, potremmo dire, meditando sui tre punti sopra richiamati! Se la sinistra 'moderna' è quella descritta da Scalfari, meritava di finire ben prima di ades-so. Per rinascere, dovrebbe proprio ritornare sui suoi passi. Seguendo la trilogia pre-cedente, dovrebbe in primo luogo battersi per ridare fiducia e nerbo ai partiti, come prevede l’articolo 49 della nostra Costituzione, «la più bella del mondo»; in secondo luogo, dovrebbe rinverdire l’ideologia progressista, collegandosi agli ideali dell’unica sinistra democratica che c’è al mondo, quella del socialismo laburista e democratico europeo e del democratico-socialista americano Bernie Sanders: un movimento poli-tico che da anni e anni è dato per finito, ma che invece resta l’unico ancoraggio per non soccombere alla demagogia, per provare ad impedire che intere schiere di popo-lo di sinistra – operai e impiegati di vecchio e nuovo stampo, ceto medio, giovani, di-soccupati… – votino a destra o per liste populiste qualunquiste o si rifugino nell’astensione.
In terzo luogo, chi ha nel cuore la democrazia dovrebbe capire l’importanza di ridare onore e prestigio alla politica, sottraendola alla denigrazione esercitata dal po-tere mediatico e alla subordinazione alle «burocrazie amministrative e giudiziarie», che spadroneggiano dall’alto delle corti, delle procure, dei ministeri, avverte il prof. Panebianco: «I politici o sono al loro servizio o sono troppo deboli per tenerle a bada. Lasciate a sé stesse quelle burocrazie ci preparano un futuro di autarchia e di decli-no economico e culturale. Chi fosse interessato a far restare il Paese nel mondo mo-derno dovrebbe porsi il problema di come tagliare loro le unghie». Una conclusione da condividere e che la sinistra dovrebbe far propria: altro che sinistra delle procure, delle caste giudiziarie e burocratiche.


17) Il Sessantotto bifronte

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 9/2018 / / / / recensioni

Nell’estate di cinquant'anni fa i carri armati sovietici entravano in Cecoslovac-chia per spegnere quella che era stata definita la «Primavera di Praga», una speran-za di socialismo umanitario nel chiuso mondo comunista. «Il Sessantotto fu come un Giano bifronte – ha scritto recentemente Francesca Pini sulla rivista “Sette” – da una parte toglieva la libertà, come a Praga, e dall'altra la esaltava, come a Parigi, dove l'immaginazione andava al potere». In realtà il '68, anche quello 'occidentale', pensato come libertario, manifestò pulsioni diverse, alcune delle quali – intrise di ideologismi marxleninisti e perfino stalinisti – confliggevano con il messaggio di libe-razione tanto invocato: l'esaltazione del libretto rosso di Mao e della rivoluzione cul-turale cinese – che fu una macelleria politica infamante – faceva passare per libera-tori i carnefici comunisti, tanto che la stessa Primavera di Praga fu guardata con in-differenza se non con disprezzo. Ce l'aveva ricordato Raymond Aron, il grande pen-satore liberale francese che fu accompagnato nella sua opera da una costante sim-patia per il socialismo democratico. Alla fine del secolo scorso aveva pubblicato un saggio – Il concetto di libertà – dedicato alla 'nuova' sinistra rivoluzionaria, che ser-ve ancor oggi a fare i conti col Sessantotto, o almeno serve molto a me che nel 1968 avevo tredici anni e, in sovrappiù, non appena arrivato all’età della ragione mi iscris-si, nell’ottobre 1972, ad una formazione non proprio rivoluzionaria – almeno secon-do i canoni d’allora – come la Federazione giovanile socialista.
È piacevole trovare in questo liberale un atteggiamento aperto verso la Nou-velle Gauche, nonostante il dissenso esplicito con l’esperienza concreta dell’estremismo di sinistra. Ma Aron è un liberale autentico, che non si accontenta della libertà formale garantita dalla legge: «in alcune circostanze – rileva – è richie-sto l’intervento dello Stato affinché la maggior parte degli individui se ne possa av-valere»; insomma, «gli individui devono possedere i mezzi per esercitare talune li-bertà». Ecco, dunque, un liberale difendere i diritti economici e sociali che molti – in epoca di presunto liberalismo integrale – vorrebbero conculcare.
Si capisce dunque perché Aron non guardi con disprezzo al movimento che cerca di mettere in discussione l’autorità nell’impresa e nell’università: dare allo stu-dente e al lavoratore, nella «città professionale», gli stessi diritti del cittadino nella «città politica», sarebbe un atto di autentico liberalismo. Ma Aron non può tranquil-lamente accettare che la lotta per limitare il potere costituito sia in mano a settari, animati «dall’inesorabile volontà dei giusti o dei puri» che ritengono di incarnare il proletariato e di essere gli unici a poterlo guidare verso la terra promessa: costoro si trasformano in «teologi della violenza» che, rifiutando il mondo «corrotto» e nella certezza di essere gli unici a possedere la vera fede, manifestano il loro pensiero at-traverso il fanatismo. Così ben presto una lotta di liberazione si può trasformare in una impresa autoritaria per conquistare la guida del movimento rivoluzionario, e di lì il controllo del nuovo potere.
Può succedere dunque che la rivolta contro «la repressione, la manipolazione e l’alienazione» della società capitalistica, consumistica e paternalistica – per usare i termini di Herbert Marcuse – diventi il pallino di insoddisfatti e inesorabili romantici alla testa di una schiera di «ragazzi viziati in cerca di una causa da servire e di un despota da combattere». E quando non è così, può succedere che «la ricerca della libertà pura sbocchi nell’atto gratuito, talvolta nella droga, talvolta nel ritiro lontano dall’ambito serio e da quello lavorativo, verso le foreste, i prati, i campi».
Qual’ è l’alternativa? Per battere questi estremismi occorre una «resistenza» liberale, che non neghi la funzione positiva del conflitto nei cambiamenti sociali, nei rapporti tra i sessi e tra padri e figli, ma agevoli la sola vittoria possibile, cioè «il re-cupero liberale delle rivendicazioni libertarie, in parte realizzabili».
Sì, tali rivendicazioni saranno realizzabili solo in parte. Chi vuole «tutto e subi-to» prepara una soluzione violenta. Viceversa, la «resistenza» di Aron non implica il rifiuto delle riforme possibili. Riforme che hanno come prima condizione la difesa della sintesi democratico-liberale contro l'incoscienza «a-democratica» che ha spinto la Nouvelle Gauche «fino al disprezzo o all’indifferenza nei confronti della Primavera di Praga», come sopra ricordato: all'opposto, è bene rimarcare che uno dei lasciti migliori di quel '68, oltre al netto allargamento dei diritti femminili e sessuali in ge-nere, è proprio la scintilla libertaria che venne dall'Est a predire l'emancipazione dal giogo sovietico. Inoltre – continua il magistero di Aron – serve il recupero del rispet-to per l’esperienza e per il sapere: se genitori, insegnanti, superiori non destano più rispetto, non resta che l’imposizione della nuda autorità oppure l’anarchia. Infine oc-corre abbandonare il culto della giovinezza: questo, quando non manifesta un tratto «vitalistico» tipico di ogni regime totalitario, nasconde un atteggiamento puerile; gli adulti che praticano tale culto, che predicano l’indulgenza anche nei confronti delle peggiori smoderatezze, scivolano nel paternalismo e non aiutano i giovani a cresce-re, anzi non fanno che contribuire alle loro sventure.
Cosa può fare una società liberaldemocratica? Proseguire nel dare all’individuo oltre alla cittadinanza e alla sicurezza, anche i mezzi per usare i propri diritti e per non soccombere alla sorte. E ciò pur sapendo che la vicenda umana è una «immen-sa lotteria» determinata da diversi e conflittuali casi genetici, familiari e sociali. «So-no rari – ammette Aron – quelli che possono dire, secondo il mito platonico, di aver scelto liberamente il proprio destino», ma è solo un ordine mite, come quello liberale, che lascia a ciascuno la possibilità di trovare il senso della propria vita.

LIBRO:
-Raymond Aron, Il concetto di libertà, Ideazione editrice, Roma, 1997

18) 1914-1918 - L’inevitabile e l’imprevedibile

>>>> Nicola Zoller

mondoperaio 11/2018 / / / / grande guerra

''Noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali''
Paul Valéry, 1919

Nel novembre 1918 – cent’anni fa – giungeva al termine la Prima guerra mondiale. Nel mondo e in Italia ci sono state tante rievocazioni che, per quanto pos-sibile, in molti abbiamo visto e letto. In più, consultando libri e ricerche sulla vasta tematica, ho provato a stendere una concisa nota che di seguito presento. Partendo dall’inizio.
Quel periodo di fine Ottocento-primo Novecento non a caso chiamato Belle Époque faceva dell’Europa «il migliore dei mondi possibili». Racconta Stefan Zweig ne Il mondo di ieri: «Quel mondo guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero stati tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto debellate. Tale fede in un progresso ininterrotto e incoercibile ebbe per quell’età la forza della reli-gione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo vangelo sem-brava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienza e della tecnica».
Poi successe improvvisamente l’irreparabile: lo racconta Francesca Canale Cama nella sua ricerca curata per RCS La Grande Guerra, alla quale mi riferirò spes-so. Se prima del 1914 «la pace era il quadro normale della vita europea» nella quale potevano affermarsi accanto ad un tumultuoso capitalismo, anche un’apertura della politica alle istanze popolari e al riformismo sociale, va allora «considerato che le so-cietà nel loro complesso erano completamente disabituate allo sforzo bellico e, per giunta, molto poco sapevano dei caratteri della guerra moderna».
Tuttavia la lunga pace dell’Ottocento europeo – interrotta dalla guerra franco-tedesca del 1870 – era solo apparente: secondo lo storico inglese Eric Hobsbawm, la rivalità tra gli Stati, il nazionalismo, la pressione del complesso militare-industriale portavano inevitabilmente alla guerra. Ma anche chi prevedeva la guerra e premeva per essa, considerava pure che potessero frapporsi dei fattori che la rendessero evi-tabile: in Europa «nessuno previde – racconterà nelle sue memorie il presidente del Consiglio italiano Antonio Salandra – l’enormità delle immediate conseguenze che ne sarebbero derivate». La Prima Guerra mondiale divenne insomma una 'avventura' imprevista nelle sue dimensioni: innescata nel giugno 1914 dall’assassinio del prin-cipe ereditario d’Austria-Ungheria a Sarajevo e dall’ultimatum imperiale alla Serbia – considerata mandante dell’attentato – si vagheggiò di una sua conclusione entro il Natale 1914: in realtà si era alle soglie di «una lunga guerra dagli esiti incerti», rife-risce il lavoro della storica Canale Cama: noi sappiamo che durerà fino al novembre 1918, provocando 17 milioni di morti, di cui 7 milioni civili (esclusi quelli dovuti all’influenza spagnola), un ecatombe che avrebbe determinato «il passaggio ad una nuova era».
«Prepararci all’imprevedibile»: secondo il prof. Fulvio Cammarano questo sa-rebbe il compito degli storici che più attentamente scavino sotto gli intrecci degli av-venimenti e dei protagonisti. Ad esempio era abbastanza evidente che la Serbia avesse le sue responsabilità, avendo istruito ed equipaggiato gli attentatori di Sara-jevo: ma l’Austria le indirizzò un ultimatum così estremo che la Serbia non poteva che respingere per salvaguardare la sua indipendenza. L’Austria-Ungheria avrebbe potuto avere tutta l’opinione pubblica mondiale dalla sua parte. Eppure – scrive lo storico Golo Mann – «i signori di Vienna decisero di andare oltre». Perché? È qui che emerge la funzione dello storico capace di «prepararci all’imprevedibile», con un’analisi non superficiale. La menzionata ricerca RCS commenta così il casus belli: «La risposta, probabilmente, è nel fatto che già da tempo si stava affermando una tendenza bellicista all’interno dell’Austria-Ungheria, il cui principale esponente era il capo di Stato Maggiore Conrad, convinto che un grande successo di politica interna-zionale avrebbe indebolito tutte le forze centrifughe dell’Impero, mantenendone così la compattezza interna. Si voleva, insomma, una guerra per risolvere l’altrimenti in-solubile problema delle etnie. Per questo, anche l’Ultimatum fu redatto in forma tal-mente categorica da indurre la Serbia ad opporsi. Alla base di questa tendenza poli-tica stava – come spiega ancora Golo Mann - un problema essenziale che l’Impero multinazionale asburgico non riusciva a risolvere in maniera efficace e che nel mon-do di inizio Novecento prendeva un’urgenza inedita, quello delle diverse nazionalità. Un problema, peraltro, comune a tutte le entità imperiali del continente europeo e delle aree limitrofi che, non a caso, verranno spazzate via dalla guerra».
Dopo quattro anni e mezzo, la Grande Guerra terminò con la sconfitta degli Imperi austro-ungarico, tedesco e ottomano e la vittoria di Francia, Inghilterra, Italia e Usa, mentre la Russia fin dal 1917 – sotto la guida di Lenin – si era sfilata dal conflitto. Va ripetuto che la guerra all’inizio era stata pensata da molti come conflitto di breve durata, trasformatosi invece in una lunga contesa: un imprevedibile 'cigno nero' all’orizzonte, ossia una evoluzione inimmaginabile secondo le teorie di Nassim N. Taleb presentate nel suo saggio dal sottotitolo emblematico Come l’improbabile governa la nostra vita. Eppure la fine della guerra lasciò inizialmente «un senso di indefinitezza» tra i combattenti, tanto che la maggior parte dei soldati sul fronte oc-cidentale «rimaneva lì dov’era, dubitando ancora che la guerra fosse finita», come ha testimoniato lo storico James Sheehan. Riavutisi da tale impreparazione, non ca-pirono la nuova situazione, tanto che «i tedeschi, per esempio, in gran parte crede-vano d’aver vinto», non essendo a conoscenza «dell’immensità del quadro bellico»; comunque sperarono almeno in «una pace conciliatoria e non umiliante».
Ma nel giugno 1919 venne il Trattato di Versailles ad interrompere questi «fa-cili entusiasmi», peraltro innescati anche dalle aspettative che il presidente america-no Woodrow Wilson, sbarcando in Europa nel dicembre 1918, aveva sparso a piene mani proclamando: «Mai più guerra!». Questa voce – dichiarerà Stefan Zweig in Momenti fatali – venne «immediatamente capita in ogni paese, in tutte le lingue». Ma tra la pace sognata e la pace reale corse una distanza siderale. Il Trattato di Ver-sailles, soprattutto per l’intransigenza del Primo ministro francese Georges Clemen-ceau, oltre a confermare lo smembramento degli imperi austro-ungarico e ottomano, fu molto punitivo contro la Germania, considerata la vera regista dello scatenamento del conflitto di cui l’Austria-Ungheria aveva solo acceso la «imprevedibile» miccia, congetturando un Ultimatum così drastico alla Serbia sulla base di un premeditato avallo tedesco. Tanto che così testifica il Trattato di pace: «Gli Alleati e i Governi As-sociati affermano, e la Germania accetta, la responsabilità della Germania e dei suoi alleati per aver causato tutte le perdite e i danni che gli Alleati e i Governi Associati e i loro cittadini hanno subito come conseguenza della guerra loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati».
Sulla Germania cadde dunque l’obbligo maggiore di pagare i costi di riparazio-ne quantificati in 33 miliardi di dollari del 1913, di cui furono effettivamente pagati 21 miliardi tra il 1919 e il 1932 mettendo a durissima prova la tenuta economica e democratica post-bellica tedesca. «Questa non è una pace. È un armistizio per vent’anni» dichiarò Ferdinand Foch, comandante supremo delle forze alleate. Ugua-le fu il giudizio di un personaggio che poi diventerà un economista famosissimo e che allora fu presente a Parigi come rappresentante del Tesoro britannico: si tratta di John M. Keynes che abbandonerà la Conferenza di pace, sostenendo che le duris-sime riparazioni imposte alla Germania avrebbero portato il Continente nel giro di due o tre decenni ad un nuovo conflitto e «alla scomparsa dell’ordine sociale così come l’abbiamo conosciuto». Ecco due personalità – un militare e un economista – che ben incarnano la funzione della previsione storica in grado di «prepararci all’imprevedibile», che dunque diventa tale solo se non si analizza bene «la com-plessità degli intrecci», come richiamato più sopra dallo storico Cammarano. Peraltro c’è un’arguzia dello scrittore nordirlandese Robert McLiam Wilson che giustifica con sarcasmo anche gli insipienti cultori degli avvenimenti rappresentati come 'improba-bili': «Nella geopolitica c’è una sola legge: tutto quello che è improbabile è impossi-bile finché non succede, e a quel punto era prevedibile».
In questo commento non poteva mancare un richiamo alla posizione dell’Italia che era entrata in guerra nel maggio 1915 a fianco di Inghilterra, Francia e Russia contro l’Austria-Ungheria, alla quale fin dal 1882 era legata, insieme alla Germania, dal patto 'difensivo' della Triplice Alleanza da cui ora si sentiva slegata: infatti l’articolo 4 dell'alleanza esonerava dal patto se una delle parti avesse dichiarato guerra ad una quarta potenza, come aveva fatto l’Austria con la Serbia ; inoltre, la mancanza di un accordo preliminare, previsto dall'articolo 7 nel caso di intervento di Austria o Italia nei Balcani, implicava un’infrazione dell’accordo a carico di Vienna. Ma fuori e contro lo spirito della Triplice – che rappresentava comunque un trattato d’amicizia, stretto inizialmente per parte italiana in funzione antifrancese per la con-tesa coloniale in Nordafrica – agirono in Italia tutte le forze desiderose di completare l’ultima guerra risorgimentale dell’Italia, da combattere anche stavolta come le pre-cedenti contro l’Austria per unire Trento e Trieste alla madrepatria. Va però segnala-to che nel Trattato segreto di Londra del 26 aprile 1915, l’Italia aveva preteso ben di più, assecondando «le aspirazioni del nazionalismo e del conservatorismo liberale perché, oltre la rivendicazione delle province italiane dell’Impero asburgico, mirava-no a garantire confini sicuri, il controllo dell’Adriatico e la prospettiva dell’espansione coloniale». Precisa al proposito Lorenzo Cremonesi in una lunga ricerca curata a puntate per la rivista “Sette”: «Roma non solo voleva Trento e Trieste, ma anche l’Alto Adige a maggioranza tedesca, l’Istria, diverse isole e regioni croate abitate da slavi, l’Albania, il controllo militare dell’Adriatico, il Dodecaneso, una parte della Tur-chia occidentale e il pieno riconoscimento dei suoi interessi coloniali in Africa». In-somma lo spirito risorgimentale che avrebbe dovuto riconoscere e garantire le nazio-nalità – tutte le nazionalità – oppresse, veniva smentito. Addirittura il ministro degli Esteri Sidney Sonnino parlò apertamente di «sacro egoismo» lasciando il tavolo delle trattative di Parigi quando il presidente americano Wilson – in difesa dei principi di concordia fra tutte le nazionalità – considerò decaduto il trattato di Londra. In Italia si parlò di «vittoria mutilata»: in realtà la tesi wilsoniana corrispondeva agli obiettivi principali dell’interventismo democratico italiano, che puntando alla caduta dell’Impero asburgico per liberarne le nazionalità oppresse, non poteva che sostene-re «un accordo tra italiani e slavi come la sola soluzione pacifica praticabile nella re-gione» sostiene lo storico Rosario Romeo ne L’Italia unita e la prima Guerra mondia-le. Invece prevalse l’esasperazione nazionalistica, nonostante fosse stato già acqui-sito a vantaggio dell’Italia – «in violazione dei confini etnici» – il Sudtirolo di madre-lingua tedesca: una violazione – spiega Romeo – che se fu «avallata a Nord» trovò al tavolo di Parigi «una invincibile resistenza per ciò che riguardava i confini orienta-li, dove le aspirazioni italiane si urtavano con quelle degli slavi del Sud».
Ma succederà anche di più: la concitazione da 'vittoria mutilata' spinse nel settembre 1919 una spedizione eterogenea di «soldati ribelli, artisti e libertari ca-peggiati da Gabriele D’Annunzio» – come racconta Claudia Salaris nel suo saggio Al-la festa della rivoluzione – ad occupare la città di Fiume, che non era prevista come ricompensa all’Italia negli stessi accordi segreti di Londra. Fiume secondo il censi-mento del 1910 contava 49.806 abitanti, di cui la metà italiani, esattamente 24.212, mentre i restanti comprendevano abitanti di lingua serbo-croata, slovena, tedesca, ungherese: una realtà variegata – che si era andata dilatando negli ultimi decenni con l’immigrazione di cittadini non italiani – ma che comunque andava ri-spettata. Nella successiva storia italiana, l’avventura fiumana divenne «l’archetipo di successo» – rammenta ancora Cremonesi – della marcia su Roma e della sopraffa-zione fascista delle istituzioni liberali: con inevitabile sconcerto di chi era andato a Fiume con altre idealità e identità culturali.
In conclusione, riferirei in breve di due protagonisti dal percorso politico con-tradditorio e confliggente, attingendo alle biografie riportate nel citato lavoro La Grande Guerra. Parlo del presidente USA Thomas W. Wilson e di Georges Clemen-ceau, primo ministro francese. Wilson (1856-1924) giurista e politologo, partì da po-sizioni retrograde, tanto da considerare il diritto di voto per tutti come «fondamento di ogni male», propagandando anche il darwinismo sociale e «la superiorità biologica dei bianchi sulle altre etnie». Ma nel corso degli anni cambiò radicalmente posizioni tanto da essere designato nel 1912 alla presidenza degli Stati Uniti dalla componen-te progressista del partito democratico con l’ostilità di quella conservatrice. Diventa-to presidente, quando scoppiò la guerra mondiale mantenne gli USA dapprima neu-trali e pacifisti, per evitare che «lo spirito brutale della guerra entrasse nelle fibre più profonde della vita nazionale, infettando il Congresso, le Corti di giustizia, il poliziot-to di ronda, l’uomo della strada». Trascinato nel conflitto dalle provocazioni tede-sche che con la guerra sottomarina avevano affondato navi passeggeri e mercantili statunitensi, nell’aprile 1917 dichiarò guerra alla Germania per «ristabilire le libertà violate dalla mire tedesche» e perché il mondo doveva diventare «un luogo sicuro per la democrazia». Nel gennaio 1918 presentò i suoi celebri Quattordici punti riferiti ai liberi commerci marittimi, ai diritti delle nazionalità oppresse, al riconoscimento dell’indipendenza dei popoli soggetti ai vecchi imperi, all’abolizione della pratica illi-berale della diplomazia segreta, al bisogno di «instaurare un nuovo ordine fondato sulla pace», partendo dalla riduzione degli armamenti e arrivando alla proposta di fondare la «Società delle Nazioni, un organismo internazionale finalizzato ad assicu-rare il mutuo rispetto fra i singoli Stati». Accolto dall’opinione pubblica europea e mondiale come un 'nuovo Vangelo', il programma di Wilson fu accettato molto par-zialmente dalle potenze vincitrici, che seguirono una prospettiva punitiva, dominata dal «sacro egoismo» di ognuna di esse. I suoi Quattordici punti restarono in gran parte lettera morta: come consolazione ottenne il Premio Nobel per la pace nel 1920.
Percorso opposto fu quello di Georges Clemenceau (1841-1929). Di tradizioni repubblicane e anticlericali, sostenne dapprima posizioni radicali e anticapitaliste, di-stinguendosi nella difesa di Alfred Dreyfus, affiancando vibratamente il J’accuse di Émile Zola contro l’antisemitismo del militarismo francese. Le sue opinioni mutarono quando divenne primo ministro nel 1906, imprimendo una «svolta di carattere na-zionalistico al governo, in opposizione ai socialisti e ai sindacati». Scoppiata la guer-ra, fu «fervente militarista» e ostile ad ogni mediazione diplomatica. Come più sopra riferito, Clemenceau «mostrò una posizione intransigente nei confronti della Germa-nia, sostenendo la necessità di piegarla sia politicamente sia economicamente; tali posizioni lo misero in contrasto con il presidente americano Wilson, ma furono poi quelle adottate dalle nazioni vincitrici». E per l’Europa a sventura si aggiunse sven-tura…

LIBRI:
-Stefan Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano, 1994
-Francesca Canale Cama (a cura di), La Grande Guerra, RCS, Milano, 2015
-Eric Hobsbawm, L’Età degli imperi. 1875-1914, Laterza, Roma-Bari, 1988
-Golo Mann, Storia della Germania moderna 1789-1958, Garzanti, Milano, 1978
- Nassim N. Taleb, Il Cigno nero - Come l’improbabile governa la nostra vita, il Saggiatore, Mi-lano, 2008
-James Sheehan, L’età post-eroica. Guerra e pace nell’Europa contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2009
-Stefan Zweig, Momenti fatali, Adelpi, Milano, 2005
-John M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano, 2007
-Robert McLiam Wilson, Belfast, Dublino e oltre, in “La Lettura - Corriere della Sera”, 2 aprile 2017
-Lorenzo Cremonesi, La rabbia italiana per gli accordi traditi, rivista “Sette”, 21 ottobre 2016
-Rosario Romeo, L’Italia unita e la prima Guerra mondiale, Laterza, Bari, 1978
-Claudia Salaris, Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, il Muli-no, Bologna, 2002


19) APPENDICE

Questo articolo commenta un racconto sulla Grande Guerra (1914-1918) che - per quanto “maccheronico” - spiega meglio di altri la tragica vanità di tante contese umane e religiose. Non appare tra quelli pubblicati da “Mondoperaio”, ma reputo op-portuno inserirlo in questa rassegna sia perché si ricollega a personaggi e temi qui trattati sia perché sono stato spronato a farlo dalla nota del direttore del giornale “Trentino” Alberto Faustini, che ne ha accompagnato la pubblicazione con queste parole: «Una pagina insolita. Da leggere. Da mandare a memoria. Un’altra faccia del-la guerra. Di disarmante, genuina e semplice efficacia».

'Memento' controcorrente
Grande Guerra, racconto maccheronico

>>>> Nicola Zoller*

giornale “Trentino”, venerdì 30 novembre 2018, p. 8 e 9

Nel novembre di cento anni finiva la sanguinosa Grande Guerra: doveva esse-re – secondo i contendenti – uno scontro breve, durerà invece anni con milioni di morti, di cui 650.000 italiani. Alla fine di questo mese che ha visto numerose com-memorazioni, proporrei un 'memento' controcorrente, riportando le irriverenti ma umili e sincere note di un militare italiano finito al fronte come tanta gioventù d’allora.
È un riconoscimento anche a tutti quei pacifisti che – trovando un capofila in Giacomo Matteotti – videro nella guerra una scelta disumana: e che ancora pongono a molti di noi – eredi della tradizione politica di Cesare Battisti e del suo interventi-smo democratico – quesiti irrisolti che possono essere solo quietati da ricerche come quelle dello storico trentino Mirko Saltori, secondo il quale c’era una base comune per le due personalità. «Il socialismo non era stato né per Battisti né per Matteotti un’etichetta o una superficiale infatuazione, bensì un impegno costante e rigoroso, e certo nella concezione della realtà e della politica dell’uno e dell’altro vi sarà stata una larga identità di vedute». Una identità che avrebbe potuto portarli successiva-mente anche a revisionare i punti di vista divergenti, e comunque a svolgere un comune lavoro utilissimo per il popolo, di cui molti rimpiangeranno la mancanza: in-fatti non fu loro possibile, perché le vite di queste due personalità furono entrambe stroncate violentemente.
Lasciata questa premessa, veniamo al nostro militare. È grazie alla rivista “Ar-chivio trentino” della Fondazione Museo Storico del Trentino (Publistampa, 2017) che conosciamo la vicenda riportata in un saggio intitolato La «crante querra»: il manuale di sopravvivenza di Vincenzo Rabito, commentato dallo studioso Enrico Me-loni. Si tratta delle memorie della prima guerra mondiale scritte a distanza di cin-quant’anni tra il 1960-1970, quando al Rabito – annota il commentatore – parve che non ci fosse più nulla da temere dalla «violenza del potere e della società». Gio-vanissimo siciliano chiamato alle armi nel 1917 con i 'ragazzi del1899', racconta, con un linguaggio personale costruito su una base dialettale maccheronica ma com-prensibile con un po’ d’attenzione: 1) di come un socialista – o che tale si sentiva per legami familiari e di classe – poté nel vortice della guerra di trincea diventare un carnefice: «deventammo tutti macellaie di carne umana», «amme mi piaceva di fare la querra e magare sofrire assai, ma restare vivo»; 2) del suo comunque confermato disgusto per chi fa vanto d’atti eroici, come gli Arditi: «tutte delinquente, tutte fatte uscire a posetamente dela galera propia per queste deficile imprese… prima che par-tevino, si bevevino mezzo litro di licuore, e magare se umpriagavino»; 3) del suo ir-riverente seppur rassegnato disdegno per gli ordini letali, come quelli ricevuti dalla sua compagnia, che da reparto Zappatori li fa passare ad attaccanti muniti di bombe, pugnali e pistole a razzo: «Erino momente di paura e di morte. Tutte tremammo, perché come li oficiale dicevino 'Avante Savoia! ', certo che si doveva partire. E aspetammo quella infame e desonesta parola: 'Avante Savoia!'»; 4) della strage di vittime soprattutto civili che colpì con l’influenza spagnola almeno cinquanta milioni di persone nel mondo e diverse centinaia di migliaia anche in Italia, «quasi quanto tutti i militari italiani caduti nella Grande Guerra» commenta Meloni, mentre Rabito giunto nelle sue terre in sospirata licenza per «un bellissimo mese di stare lontano dalla morte» scopre che «qui con la spagnola ni moreno magare 20 o 24 a ciorno»; 5) di come l’Austria perse la guerra per fame: «Li povere austriece… non potevino stare all’empiede e se daveno tante pricioniere e dicevino: Abiamo perso la battaglia. E l’Austria non la puole sostenire, senza manciare, questa guerra»; 6) del tradimen-to delle promesse di spartizione delle terre ai combattenti per almeno 5 ettari a te-sta: «ci hanno improgliato che ci dovevano spartere li terre ai contadine»; 7) del perché venne il fascismo: «per fare fenire questa quantetà di sciopere, ci volevino propia questo movemento fascista qiudata di questo Benito Musseline»; 8) e infine dei mezzi con cui il fascismo si impose : «per levarene l’edeia socialista e farese tut-te fasciste, poi che a quelle che non zi volevino fare fasciste ci facevino prentere per forza mezzo litro di oglio di ricine».
È il romanzo di un uomo che cerca di destreggiarsi tra tante difficoltà pur di sopravvivere: non fa richiami retorici al pacifismo o all’antimilitarismo, come è suc-cesso ad altri 'romanzieri' più colti. No, lui è di una disarmante sincerità, che ce lo fa sentire più autentico e vicino anche se la sua è una vicinanza che può disturbare la nostra quiete. Ad esempio, turba e commuove allo stesso tempo il suo disperato elo-gio della bestemmia, quando in fronte alla fame e alla morte, sbotta: «Il nostro eli-mento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto, che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino e bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noi era il vero confor-to». L’imprecazione ripetuta era il retaggio di tanta passata e presente disperazione dei ceti diseredati, che permaneva nelle ordinarie quotidiane abitudini ma che ora in tempo di guerra riaffiorava ancor più impetuosamente contro ogni divinità costituita: «Ma il Padreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire».
E quale divinità poi? Di quale Dio stiamo parlando? Di quello del prete italiano che lo in-vocava a fine messa per «dare la crazia di vincere questa sanguinosa querra all’Italia», o quello del prete austriaco che lo implorava di fare la stessa «cra-zia» all’Austria per «vincere il suo potente nemico»? Domande desolate, che però spiegano la tragica vanità di tante contese umane e religiose.

*collaboratore della storica rivista “Mondoperaio” fondata da Nenni



20) Ringraziamenti e Note

-Ringrazio innanzitutto il direttore di “Mondoperaio” Luigi Covatta che ha visionato e ospitato fraternamente i miei articoli; ringrazio inoltre Michela Nanut per aver concepito ed elaborato la copertina della pubblicazione e Giorgio Andreolli per averne curato l’impaginazione; a Massi-mo Festini infine un grazie per questa edizione.

-I primi cinque articoli della presente rassegna sono presenti anche in una precedente pubblica-zione di Nicola Zoller, Pensieri lunghi, Stampe di “Lettera”, Trento, 2015.
-Tutti gli articoli riportano il testo originale dell’autore in forma integrale.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2019
per conto di Quaderni di “LETTERA”
da Tipolitigrafia Festini - Rovereto



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