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LENIN il capo di tutti i dittatori
23.4.2020

Lenin e i suoi fratelli
Da Stalin a Mao Zedong una cupa lezione per i dittatori del '900
Gianni Riotta LA STAMPA, mercoledì 22 aprile 2020, pg.22 s.

«Non è mai esistito lo stalinismo. Lo inventò il nuovo leader dell'Unione Sovietica Nikita Krusciov per addossare i difetti centrali del comunismo a Stalin e la mossa riuscì. In realtà fu Lenin a fondare la struttura politica russa, ben prima che Stalin arrivasse al potere»: il giudizio del premio Nobel Aleksandr Solženicyn recise il nodo che, da un secolo, divide studiosi e militanti. I milioni di morti nella carestia inflitta dalle politiche centraliste in Ucraina, le legioni di schiavi nei campi di concentramento, la strage cinese di contadini seguita al dissennato piano del Grande Balzo in Avanti furono responsabilità di Stalin e Mao Zedong, o invece erano già nel Dna ideologico di Lenin?
Vladimir Il'ič Ul'janov nacque 150 anni or sono, il 22 aprile 1870, da una famiglia di quella borghesia che avrebbe avversato per l'intera vita. Espulso dall'Università zarista di Kazan, come un eroe di Dostoevskij emigra a San Pietroburgo, all'ombra del Palazzo d'Inverno che avrebbe fatto assaltare nel 1917, e studia legge, consapevole lo «Stato borghese» fosse il vero nemico, come teorizza nel saggio Stato e rivoluzione, scritto nei giorni tumultuosi della Rivoluzione d'Ottobre. Conosce e sposa Nadežda Krupskaja, a sua volta dirigente comunista, figlia di un nobile decaduto alla povertà, schierata ora con l'aristocrazia della rivolta, non i menscevichi sempre pieni di dubbi, ma i bolscevichi guidati dal marito. Insieme son persuasi che la Russia capovolgerà le previsioni del padre del comunismo, Karl Marx, certo che la rivoluzione avrebbe trionfato nei Paesi industrializzati, non nelle sterminate plaghe feudali d'Oriente. Nessuna biografia di Lenin deve sottovalutare la formidabile Nadežda, che lo seguirà in esilio, andrà al governo come guida della Pubblica istruzione e, alla morte di Vladimir Il'ič, farà fronda irriverente a Stalin, irritata perché il georgiano dalla pelle butterata usurpa il manto leninista.
Il ruolo della Krupskaja fu importante nella vicenda del controverso «testamento di Lenin», documento in cui il leader, vicino alla morte che lo coglierà nel 1924, prova a indicare la strada ai bolscevichi e, in un poscritto assai discusso, diffida dal lasciare a Stalin il potere assoluto. Stalin, formidabile nel capire la natura degli uomini e sospettoso fino alla paranoia, fa dunque controllare, fino alla morte, la vedova Lenin, temendo lo spettro del fondatore.
È difficile indicare al lettore contemporaneo il magnetismo che la figura di Lenin - pizzetto elettrico, cappello stretto in pugno ai comizi, scelta ferrea di struttura del partito, mai dubbi, dibattiti, concessioni, la politica come fede assoluta - esercita sulla prima metà del Novecento. Per gli sfruttati di tutto il mondo, stavolta davvero come Marx preconizzava nel Manifesto del 1848, Lenin era la bandiera di emancipazione dalla tirannia capitalistica. Così Gramsci e Togliatti in Italia, Mao e Zhou Enlai in Cina, Ho Chi Min in Vietnam, Castro a Cuba e con loro una legione di artisti, il poeta Brecht, il pittore Picasso sono ammaliati dall'idea che un pugno di uomini dalla tempra d'acciaio ribalti il corso della storia. Nei reportage de I dieci giorni che sconvolsero il mondo, il passionale giornalista americano Jack Reed, sepolto al Cremlino davanti alla salma imbalsamata di Lenin, sintetizza questo carisma internazionale in un bestseller mondiale. Lenin muore solo sette anni dopo la presa del Palazzo d'Inverno, ma le sue politiche ci bastano a confermare il giudizio di Solženicyn, Stalin applica il metodo leninista, trasformandolo dal gelo razionale della dittatura sotto Lenin all'ossessione da antico despota asiatico che gli era propria.
La Nuova Politica Economica, varata da Lenin nel 1921, nel tardivo e fallimentare tentativo di far ripartire l'economia grippata dopo la rivoluzione, fu applicata con durezza spietata e, quando venne superata dal partito, innescò altre sofferenze e carestie.
Le democrazie del tempo, pompose, autoritarie, aristocratiche, non colgono in tempo l'innovazione del bolscevismo, la comprende meglio una rivoluzionaria tedesca, Rosa Luxemburg, di cui Lenin diceva snob «A volte un'aquila può volare più in basso di una gallina, ma una gallina non può mai salire in alto come un'aquila». Luxemburg sogna un comunismo capace di non rinunciare alla democrazia, come dopo di lei l'ultimo Gramsci della Costituente repubblicana e tanti militanti del '68, dalla Rossanda a Magri del Manifesto, ma cade invece vittima delle eterne faide della sinistra europea. Lenin resta solo al potere, Mussolini, Hitler, Franco lo studiano, e Curzio Malaparte, nel suo Tecnica di un colpo di Stato (Adelphi), illustra magistralmente il nesso fascismo-bolscevismo nella presa del potere. 150 anni dopo, se mai ci vedesse dalla sua faraonica teca sulla Piazza Rossa, Lenin potrebbe sorridere con la sua celebre ambiguità: la democrazia digitale ne irride il totem di governo, vero, ma la forza dei sistemi autoritari, da Mosca a Pechino, sembra imbevuta di Stato e rivoluzione. —


Gianni Riotta





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