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Bonafede e paradosso Pd sulla giustizia
21.4.

Il paradosso del Pd sulla giustizia:
Bonafede salvo, le sue idee no.
-di Stefano Cappellini
-la REPUBBLICA, giovedì 21 maggio 2020


Salvare Alfonso Bonafede dalla sfiducia era un atto dovuto per la maggioranza. Alla caduta del ministro della Giustizia sarebbe seguita quella del governo. Ma, salvato Bonafede, è bene che la sinistra e soprattutto il suo maggior partito, il Pd, si interroghino su un’altra faccenda: è giusto anche salvare le idee di Bonafede? La visione che il ministro ha della sua materia è compatibile con i valori di una vera sinistra dei diritti?

Bonafede è senz’altro una persona retta. Non è questa una concessione di galateo. È invece la constatazione della principale delle ragioni (e la più sbagliata) per cui si trova dov’è. Bonafede è il punto di approdo finale di una degenerazione giustizialista il cui presupposto è la teoria politica che divide il mondo in sole due categorie. I Retti e i Disonesti. Due universi paralleli in cui ai primi spetta il compito di perseguire e incarcerare i secondi, che naturalmente usano ogni mezzo per sfuggire alla condanna che meritano. I Retti restano sempre tali, qualunque cosa dicano o facciano. La loro dirittura morale è un teorema antropologico che legittima ogni mezzo, anche estraneo allo Stato di diritto: chi persegue il Bene ne ha facoltà. Anche i Disonesti restano sempre tali, e ogni loro tentativo di sfuggire alla sanzione è di per sé fraudolento anche quando si appoggia a diritti e garanzie costituzionali. «Il sospetto è l’anticamera della verità», recitava il comandamento giustizialista nell’era della sua formulazione compiuta, a cavallo di Tangentopoli. E per Bonafede, insieme al movimento che lo ha espresso, questo è un dogma. «Non esistono innocenti, solo colpevoli che l’hanno fatta franca», recita un altro famigerato motto di Pier Camillo Davigo, pm filosofo della teoria e guru dell’abbecedario M5S, tanto che in una trasmissione tv di poco tempo fa, nella foga di difendere le sue posizioni, a Bonafede scappò detta una versione ancor più brutale del concetto: «Non ci sono innocenti in galera».

Questa costruzione manichea è una finzione che taluni inseguono per dannata convinzione, molti anche per convenienza: ha fruttato carriere, royalties , prebende. Si tratta ovviamente di una colossale mistificazione che, per geometrico contrappasso, ha portato ieri Bonafede medesimo sul banco degli imputati. L’impudico incrocio di telefonate in diretta tv, nel quale prima il pm Di Matteo alludeva a pressioni occulte che avrebbero bloccato la sua promessa nomina a capo del Dap e poi il ministro replicava respingendo le accuse, è il millennium bug del giustizialismo, il crash del sistema binario che è stato purtroppo da anni adottato anche da un pezzo di opinione pubblica progressista. Che succede quando un rappresentante del Bene utilizza contro un suo sodale le armi che di solito si usano contro l’altra metà del mondo?

Succede che Bonafede, in patente contraddizione con se stesso, deve presentarsi in Senato — come è accaduto ieri — a biasimare che si possano costruire accuse sulla base di «un dibattito gravemente viziato da allusioni e illazioni», un biasimo che in otto parole sconfessa di fatto dieci anni di campagne M5S (ma non solo dei grillini) basate su questi presupposti: allusioni e illazioni. Però sufficienti, sempre, per chiedere la testa di chi ne era oggetto. Al povero Bonafede è stata fin troppo facilmente rimproverata un’intervista concessa proprio a Repubblica tempo fa nella quale sosteneva che «anche uno pulito deve dimettersi se è sospettato». Naturalmente il ministro si è dimenticato di applicare il principio a se stesso, e meno male, perché lo Stato di diritto viene molto prima della coerenza di chi lo vuole smontare. Del resto, il M5S ha già da tempo cambiato linea sul tema degli avvisi di garanzia, lettera scarlatta sul petto degli avversari finché non hanno cominciato a riceverli anche gli esponenti del Movimento, evento che ha fatto imbattere i vertici grillini nella conoscenza del principio costituzionale della presunzione di innocenza. Principio che gli aedi del Bene spacciano da anni come lo scudo dei colpevoli, convinti di condurre battaglie anti casta mentre invece minano le uniche armi in mano a chi è debole e senza i mezzi per ricche battaglie legali: le garanzie del giusto processo, il rispetto dei codici di procedura penale, la terzietà del giudice, lo stop all’abuso delle misure preventive e ai tribunali mediatici. Principi liberali, in sé. Principi che dovrebbero essere più cari alla sinistra, perché unica forma possibile di tutela per chi non li può surrogare con mezzi economici o sociali.

Bonafede è sopravvissuto come ministro al cortocircuito del giustizialismo. Ora ci sono due possibilità: la prima è che abbia imparato dai propri errori e che non userà mai più le armi del passato, tantomeno nell’esercizio delle sue funzioni di Guardasigilli. La seconda è che da oggi Bonafede sarà ancora più Bonafede, per dimostrare al suo pubblico votante che non ha perso un’oncia della sua purezza primigenia. C’è da sperare che la sinistra, almeno questo secondo Bonafede, lo ritenga indifendibile.






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