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LA RINASCITA DOPO OGNI PANDEMIA dicembre 2021

LA RINASCITA DOPO OGNI GRANDE PANDEMIA
-di Nicola Zoller – RIVISTA U.C.T. Trento, dicembre 2021

Intanto una questione di dati: l’umanità da sempre convive con le epidemie – malattie infettive riguardanti una comunità o una regione geografica circoscritta – e le pandemie (estese a più continenti e a vaste aree del mondo). Covid-19 ad ottobre 2021 ha causato la morte di oltre cinque milioni di persone su una popolazione mondiale di 7,85 miliardi. Scorrendo la storia troviamo devastante la pandemia di Giustiniano (541-542 d.C.) che causò almeno 25 milioni di vittime su una popolazione di circa 200 milioni di esseri viventi sulla Terra. La terribile peste nera del XIV secolo portò alla morte circa un terzo della popolazione europea stimata allora attorno ai 75-80 milioni di abitanti. Con riferimento specifico al nostro Paese seguirà la cosiddetta peste manzoniana, così definita perché raccontata dal Manzoni ne “I promessi sposi”: riguardò l’Italia settentrionale dove tra il 1630 e 1631 morirono oltre 1 milione di persone su circa 4 milioni di abitanti.
Un riferimento eccezionale va fatto alla strage procurata dagli Europei alle popolazioni del Nuovo Mondo tra il XVI e XVIII secolo: con l’occupazione dell’America gli indigeni si trovarono senza difese immunitarie contro le malattie portate dai colonizzatori, tra cui vaiolo, salmonella e peste. Gli storici stimano che nel 1500 la popolazione del Nuovo Mondo era di circa 80 milioni; nel 1550 solo 10 milioni sopravvivevano. Saltiamo alcuni secoli, che non lasciarono comunque tranquilla l’umanità, per giungere alla notissima influenza spagnola che alla fine della Prima guerra mondiale tra il 1918 e 1920 provocò circa 50 milioni di decessi. Nel corso del Novecento va segnalata la cosiddetta influenza di Hong Kong del 1968 con oltre 1 milione di vittime mentre il virus Hiv causa circa 25 milioni di morti. Non possiamo dimenticare che ancor oggi la tubercolosi – secondo le stime di Telmo Pievani – è responsabile di 1 milione di vittime all’anno, mentre la malaria uccide annualmente 400 mila persone, di cui il 70 per cento sono bambini africani; va menzionato inoltre che una “normale” influenza – come riporta la biologa Barbara Gallavotti nel libro “Le grandi epidemie” (Donzelli editore, 2019) – colpisce ogni anno decine di milioni di persone in tutto il mondo, causando fino a 600 mila morti soprattutto per complicazioni respiratorie e cardiache, complicazioni mortifere peraltro associate a tutte queste tipologie di contagi, Covid- 19 compreso.
Va infine menzionato che il vaiolo è stato definitivamente eradicato nel mondo nel 1979 dopo una massiccia campagna mondiale di vaccinazione; lo stesso dicasi per la peste bovina nel 2011, mentre la poliomielite risulta eradicata in Europa dai primi anni 2000: con le campagne di vaccinazione in corso, nel prossimo decennio si dovrebbe eradicarla globalmente.
Da questa premessa si capirà che col Covid- 19 ci troviamo immersi in una storia di epidemie e pandemie ricorrenti, dalle quali l’umanità è riuscita a sollevarsi. Anche questa pandemia passerà! È un messaggio contro la paura quello che proviene dall’elencazione dei dati sopra riportati. Il sociologo Marzio Barbagli in un libro toccante “Alla fine della vita” (ed. il Mulino, 2018) spiega che la paura, il panico da emergenza, è generato sempre «da una mancanza di familiarità con i dati»: non c’è consapevolezza di quello che è stato il passato, di come si moriva, spesso in modi orribili. È chiaro che si continuerà a morire, «la medicina ancora non ci ha reso immortali ma essa ci aiuterà ancora a vivere meglio». Come?
Si vive più a lungo grazie ai vaccini! Non è un’opinione, ma sempre una questione di dati, che vogliono rappresentare il “sugo” di questo intervento. Danilo Taino tiene una concisa rubrica di statistiche sul “Corriere della Sera”: dovrebbero leggerla i No vax che incrudeliscono la nostra vita sociale. Taino ha riferito le statistiche di ourworldindata.org – pubblicazione scientifica dell’Università di Oxford – le quali mostrano che, prima della scoperta del vaccino, a Londra moriva una persona su 13 a causa del vaiolo, con punte di 1 su 6 attorno al 1750. Dopo il 1796, quando Edward Jenner sviluppò il vaccino antivaiolo, il numero di morti iniziò a calare e il Regno Unito raggiunse la completa libertà dal vaiolo nel 1934. Dopo il 1955, quando Jonas Salk sviluppò il vaccino contro la polio, i casi di malattia negli Stati Uniti, che a inizio decennio erano stati quasi 60 mila, crollarono e il Paese fu dichiarato polio-free nel 1979. Lo stesso per i casi di morbillo, sempre in America, dove il vaccino fu introdotto nel 1963: erano fra i 400 e i 700 mila all’anno e in media ora sono 160. La conclusione è che se oggi le aspettative di vita sono in media di 73 anni a livello globale (fino al 19° secolo erano sui 40 anni) e se sono raddoppiate in ogni angolo del mondo, una parte consistente del merito va ai vaccini. Sarà così anche per Covid-19.
Anche questa pandemia passerà, dicevamo. Sì, ma una inquietudine comunque ci assale. «Nessuno aveva previsto nulla» dichiarava nella primavera 2020 un grande vecchio pensatore, il francese Edgar Morin. Per tutto il 1900, dopo l’immensa influenza “spagnola”, le successive epidemie più contagiose non erano riuscite a diventare globali, pandemie appunto: avevano parzialmente interessato continenti lontani dall’Occidente, dall’Asia al Medio Oriente, all’Africa, o come nel caso del virus Hiv segmenti di popolazione particolarmente esposti al virus. A noi occidentali continuava ad andar bene, o quasi, e potevamo attribuire la predisposizione a contagiarsi ad altri Paesi o a chi assumeva comportamenti imprudenti. E invece ci scordavamo di quanto richiamato all’inizio, che le pandemie possono essere sempre alle porte; e dimenticavamo la profezia del biologo, premio Nobel, Joshua Lederberg: «La minaccia più rilevante al costante dominio dell’uomo sul pianeta sono i virus». Così il nostro mondo, l’Occidente in particolare, si è trovato impreparato, a lungo non si trovavano né disinfettante per le mani, né le mascherine che poi sarebbero diventate un nostro corredo quotidiano. Ma qui tra le tante impreparazioni e/o contraddizioni va menzionato il decalogo che il nostro Ministero della Salute fece affiggere nella primavera 2020 in ogni luogo pubblico e che abbiamo ritrovato ancora esposto nel settembre 2021 davanti ai seggi elettorali per il referendum trentino sul territorio agricolo come distretto biologico. Al settimo punto stava e sta ancora scritto: «Usa la mascherina solo se sospetti di essere malato o se assisti persone malate». Con quel decalogo si seguiva una direttiva dell’OMS: quell’agenzia sanitaria delle Nazioni Unite aveva infatti comunicato che «le mascherine vanno indossate solo dai malati e dal personale sanitario mentre nelle persone sane sono addirittura dannose perché diffondono un falso senso di sicurezza». Capito? Arrivarono poi tanti contrordini, sparirono del tutto i guanti di plastica che invece eravamo stati obbligati ad indossare all’ingresso di ogni esercizio pubblico, seguirono lockdown stringenti , poi allentati e poi riconfermati…
Queste impreparazioni e contraddizioni hanno alimentato anche sospetti di un eccesso di autoritarismo autoreferenziale dei responsabili politici e sanitari ai quali era ed è affidata la pubblica salute. L’uso di metafore belliche si è imposto: «siamo in guerra» era diventata – ed ancora permane – la parola d’ordine. Il mio storico filosofico di riferimento, Mauro Bonazzi, ha ricordato che solo Angela Merkel è stata uno dei pochi leader mondiali a non evocare scenari di guerra. L’invocazione perentoria di un clima emergenziale può mirare a spaventare i cittadini anziché a rendere un buon servizio alla democrazia che è basata su una cittadinanza responsabile. Se invece si punta ad impaurire la gente, si fa venir meno la dignità delle persone che diventano «pronte a tutto pur di farsi difendere la vita, anche a dar via la libertà»: sono concetti espressi da personalità prudenti e miti come il presidente del Bundestag tedesco Wolfgang Schäuble e il ministro italiano Enrico Giovannini, accademico di economia e statistica; quest’ultimo ha concluso che «dopo il virus siamo tutti più cattivi e meno liberi».
Se vogliamo invertire questa tendenza, occorre riandare alla storia dell’umanità, segnalando i pericoli che abbiamo corso e corriamo ma anche le grandi possibilità di vita dignitosa che possiamo aspettarci. Covid- 19 ha troncato tante relazioni sociali e lavorative, arrestato molte attività di inclusione, ha generato ansia e depressione tra giovani e anziani, ha bloccato milioni di interventi sanitari per malati “non-Covid”. Occorre reagire. Non sarà questo Coronavirus ad interrompere definitivamente la tendenza in atto da ormai diversi decenni e che porterà l’umanità ad aspettative di vita verso gli 80 anni. Paolo Mieli presentando il suo ultimo lavoro “Il tribunale della storia” (Rizzoli, 2021) ricorda che dopo ogni pandemia segue una rinascita. L’aveva confermato anche il filosofo già citato, Edgar Morin: «Ogni grave difficoltà per l’umanità getta anche un fascio di luce sulle sue capacità di sopravvivenza e di trasformazione». Un acuto docente di Storia medioevale Amedeo Feniello, in un libro profetico edito in questo autunno 2021 (“Demoni, venti e draghi”, Laterza) riconferma le potenzialità innovatrici a seguito delle catastrofi: scrive che fu proprio l’apocalittico Trecento – quello della peste nera – a dare la spinta al grande balzo verso la modernità e a vasti progressi economici e culturali. Mutatis mutandis, potrà essere così anche questa volta.



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