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Tangentopoli/trentennale, in Mondoperaio dic.2023

Tangentopoli/trentennale
Un racconto 'controvento' per una politica mite
-di Nicola Zoller MONDOPERAIO 11-12/2023

A distanza di trent’anni dal 1993, l’anno che segnò lo svolgersi dei processi su 'Tangentopoli', è possibile proporre una ricostruzione controcorrente rispetto alla vulgata tradizionale di quegli avvenimenti, sollecitati da contributi competenti di studiosi e commentatori. È del 20 agosto 2023 una dichiarazione risoluta del giurista Giovanni M. Flick, già presidente della Corte costituzionale: in quel lontano 1993 «non si poteva e non si doveva azzerare una classe politica attraverso i processi penali; aver permesso che l’operazione di cambiamento avvenisse attraverso la giustizia penale apre degli interrogativi». A questi interrogativi proviamo a rispondere con una ricerca essenziale sui passaggi mediatico-giudiziari di quel periodo, con il supporto di testimonianze autorevoli, che vorrebbero anche indagare sul quesito politico appena menzionato e sollecitato da un editoriale de “La Stampa” del 29 aprile 2023: perché «la redazione di una storia d’Italia è stata affidata alle procure», perché «i partiti portatori delle grandi tradizioni su cui è stata redatta la Costituzione sono stati ridotti alla caricatura di macchine della corruzione e alla fandonia di compari della mafia»? In un recente intervento per il Primo maggio 2023 mi sono chiesto perché la maggioranza degli operai votino a destra e una risposta l’ho trovata sempre in quell’editoriale de “La Stampa”: le continue campagne populiste e moraliste contro i partiti costituzionali di governo hanno scavato tra i lavoratori e la memoria democratica un solco incolmabile giacché quella memoria «l’abbiamo diffamata e continuiamo a diffamarla». Questa nota può servire anche a ridare dignità e merito alla storia del primo cinquantennio repubblicano.
Il professor Angelo Panebianco, commentando il 7 ottobre 2016 sul “Corriere della Sera” il libro di Paolo Mieli In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, scriveva: «Non si è mai estinto il vizio di mettere in piedi processi per corruzione o sottrazione di denaro pubblico contro gli avversari politici». Cita un caso della Roma antica: «Il processo contro Verre, che diede tanto lustro al suo inflessibile accusatore Cicerone, non sarebbe stato imbastito se Verre non fosse stato legato alla fazione politica perdente, quella di Silla». E conclude facendo meditare più d’uno sulla politica contemporanea: «Nelle cronache degli ultimi decenni, qui in Italia, possiamo trovare diversi casi che hanno affinità con quella vicenda storica».
Queste considerazioni ci aiutano a capire meglio la caduta di Tangentopoli – intesa come 'prima Repubblica' italiana – prendendo più di uno spunto dal libro di memorie sul Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite, scritto da Mattia Feltri, attuale editorialista de “La Stampa”. Eccone l’incipit: «Quella che sembrava un’epoca di catarsi e rinascita si è rivelata un periodo cupo, meschino, di furori e di paure, di follia collettiva, in cui una cultura politica era stata spazzata via in modo dissennato». Dominata da mass-media legati a poteri economico-finanziari irresponsabili, da politici e tecnici riciclati, da esponenti di partiti e movimenti finora esclusi dall’area governativa, da nuovi arrivisti e soprattutto da «una magistratura che si sentiva a capo di un moto rivoluzionario», l’Italia è precipitata in aridi decenni privi di speranze esaudite. Esangue il bilancio a partire dalla pretesa moralizzazione, risoltasi in effetti opposti: il giurista Michele Ainis in un editoriale del 16 giugno 2014 ha ricordato che «all’alba degli anni ’90 la classifica di Transparency International – l’Associazione che misura l’indice di percezione della corruzione, partendo dai Paesi migliori – situava l’Italia al 33° posto nel mondo; ora siamo precipitati alla sessantanovesima posizione» sui 180 Paesi considerati.
D’altronde cosa poteva esser successo in Italia fino al 1990 in una situazione che, se appariva per alcuni versi problematica, non era radicalmente dissimile dagli altri paesi progrediti d’Europa? Partiamo da un fatto rilevato da Carlo M. Cipolla – uno dei maggiori storici economici internazionali – riportato in un libro accessibile a tutti, intitolato Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo ad oggi: «Il bilancio economico del quarantennio postbellico è, in termini quantitativi, a dir poco lusinghiero. Certo, nulla di simile era stato nelle speranze dei padri della Repubblica. Un reddito nazionale cresciuto di circa cinque volte dal 1950 al 1990 colloca l’Italia fra i Paesi a più elevato tenore di vita nel mondo». Anche sulla base di questi dati Carla Collicelli, vicedirettore del CENSIS poteva dichiarare esattamente quanto segue: «Il periodo fino al 1992 indicato come più corrotto è anche quello nel quale l’Italia è cresciuta di più. Ora, siccome è senz’altro vero che è la corruzione a bloccare lo sviluppo nei paesi poveri, l’Italia non doveva essere poi così corrotta» (cfr. giornale “l’Adige” del 22 agosto 2002). Molti anni dopo, sul “Corriere della Sera” del 7 febbraio 2018, sempre l’accademico Panebianco, spiegherà: «Sul finire della prima Repubblica il vecchio sistema dei partiti entra in crisi. Arriva 'Mani pulite' ed è il diluvio. Il prestigio dei politici crolla ai minimi termini e non risalirà più. È allora che si diffonde quella che considero la madre di tutte le fake news, la falsa idea secondo cui questo sarebbe il Paese più corrotto del mondo». Abbiamo visto poc’anzi che l’Italia si situava nella fascia medio-alta tra i ''Paesi migliori'', almeno fino ai primi anni ’90 dello scorso secolo. Pure la situazione economica appariva positiva. Anche due competenti studiosi di Bankitalia, L. Federico Signorini e Ignazio Visco, lo ribadivano nel saggio L’economia italiana: «L’Italia è dunque una delle maggiori economie al mondo per dimensione del PIL; ha avuto anche negli ultimi venticinque anni una crescita soddisfacente rispetto agli altri paesi industriali; ha un reddito pro capite elevato e una ricchezza crescente».
In questo quadro poteva dunque esserci più riflessione, per arrivare ad affrontare con una condivisa soluzione politica il problema sempre più emergente del finanziamento della politica, un problema anch’esso non solo italiano ma europeo. Ma mentre in Europa si seguì la strada del confronto politico, in Italia si preferì la via giudiziaria.
Al dunque, per un complesso di coincidenze interne e internazionali, nei primi anni ’90 si saldarono interessi variegati. Il capitalismo italiano e i poteri economico-finanziari internazionali, dopo la caduta del muro di Berlino, si sentirono autorizzati a liberarsi dalla direzione di una politica democratica autorevole, che nel passato aveva difeso la libertà, ponendo anche delle regole per la crescita sociale di tutti: gran parte dei mezzi mediatici vennero diretti nell’opera di rimescolamento delle vita politica nazionale. Lo spiega bene l’ex-condirettore de “l’Unità” Piero Sansonetti in un’intervista a “Il Foglio” del 10 febbraio 2010 intitolata Craxi e la sera della politica: «L’inchiesta di 'Mani pulite' è stata utilizzata dall’economia per liberarsi della politica. Quando l’inchiesta si conclude, la politica è rasa al suolo mentre l’economia ottiene la subordinazione della politica, la sconfitta dei sindacati, la fine dei contrappesi, l’aumento dei profitti, il controllo sociale. La svolta liberista in Italia si concretizza con 'Mani pulite' e con la sconfitta dell’autonomia della politica».
Come corollario seguirà la distruzione dei partiti. Il commentatore Pierluigi Battista spiegherà: «Una delle cose più stupide predicate in questi decenni è stata il disprezzo dei partiti. I partiti erano quel che erano… ma le sezioni dei partiti erano cose serie, lì ci si riuniva, si andava la sera, dopo il lavoro, si discuteva, ci si confrontava, si litigava. La sezione di partito era un corpo intermedio pieno di vita, un punto di riferimento, un luogo caro a cui appartenere» (“Corriere della Sera”, 8 marzo 2018). Poi tutto svanirà, avremo la solitudine di massa, una «folla solitaria» come la definì il sociologo David Riesman. Tutto risulterà «disintermediato», senza corpi intermedi tra l’elettore e le istituzioni, tra il popolo e chi decide, insomma sedi reali di confronto per il cittadino. Sulla politica dominerà il mezzo televisivo, i dibattiti – col popolo solo ascoltante e guardante – si svolgeranno nei talk show; per quella folla solitaria resterà Internet «a collegare gli scontenti, ad alimentarli, a rinfocolarli» aggiunge Aldo Cazzullo (stesso giornale, stesso giorno).
Quest’opera trovò allora un alleato potente e determinante nella magistratura, che intravide la possibilità di una riaffermazione abnorme del proprio ruolo: una ricerca curata nel 2009 dal giornalista de “L’Espresso” Stefano Livadiotti, con il titolo Magistrati, l’ultracasta, descrive le ambizioni eccessive di questo mondo, che aveva mal sopportato l’iniziativa promossa dai radicali e dai socialisti con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati poi approvato – sull’onda del caso Tortora – dalla grande maggioranza degli italiani. Questi due poli, quello mediatico/finanziario – di cui inizialmente furono parte molto attiva le reti berlusconiane – e quello giudiziario, trovarono poi nella manodopera politica disponibile degli utili interlocutori: dal ribellismo leghista al massimalismo giustizialista, fino al revanscismo fascio/comunista plasticamente rappresentato dalle comuni operazioni di piazza contro il capro espiatorio designato, tra cui spicca il lancio di monetine contro Bettino Craxi il 30 aprile 1993, definito «l'episodio simbolo di Mani Pulite», in cui «il leader del Psi viene affrontato da una folla inferocita che urlava 'Ladro'». Successivamente l’ambasciatore Sergio Romano, intravedendo l’imporsi sempre più marcato di una menzogna, con tratto realistico scrisse in un saggio del 1995 intitolato meditatamente Finis Italiae: «Gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cederanno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo da questo peccato. E dopo, temo, avranno un’altra ragione per disprezzarsi».
Per tornare al lavoro di Mattia Feltri, tra il 1991 e il 1994 il dado era tratto, specialmente per la magistratura che si mosse sulla base di calcoli politici, come ai tempi di Verre/Cicerone. Annusò nell’aria le difficoltà della coalizione di centro-sinistra al governo, allora guidata da Craxi, Andreotti e Forlani, definita sbrigativamente CAF: prima con il referendum sulla preferenza unica del 1991, vinto dai referendari nonostante la richiesta di disimpegno dal voto delle forze governative, poi con le elezioni dell’aprile 1992 che segnarono una flessione, pur non drammatica, del quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI. Qualche anno dopo, nel 1998 il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio – il quale, a testimonianza palmare della politicizzazione di quella magistratura, sarà poi eletto parlamentare nelle liste dei Democratici di Sinistra, come peraltro il collega e animatore di 'Mani pulite' Antonio Di Pietro lo era stato del PDS nel 1987 su designazione di Massimo D’Alema – dichiarerà spavaldamente: «Quando dopo le elezioni del 1992 capimmo che quel quadripartito non avrebbe raggiunto la maggioranza in Parlamento, intuimmo che era il momento di dare un’accelerazione all’inchiesta». Accelerarono dunque, tra arresti quotidiani e suicidi degli indagati, per giungere ai capi, ai Forlani e ai Craxi ora in difficoltà (Verre docet, ndr). Eppure il quadripartito nel 1992 aveva ottenuto la maggioranza dei seggi in Parlamento grazie a 19 milioni di voti: come ha ricordato spesso l’on. Ugo Intini, nel trentennio successivo mai nessuna coalizione vincente avrebbe ottenuto un risultato in voti popolari così elevato! Eppure allora – nonostante i 331 seggi al Camera su 630 componenti e 167 al Senato su 315 che poi portarono alla fiducia per il Governo Amato con complessivi 503 voti favorevoli contro 422 tra contrari e astenuti – una vasta campagna mediatica dichiarò delegittimato quel Parlamento e la famosa «accelerazione» delle inchieste fece il resto.
Ecco perché di fronte a quei numeri parlamentari, più di un commentatore ha potuto definire «golpe mediatico-giudiziario» quel complesso di eventi che portarono traumaticamente alla fine della 'prima Repubblica'. Sul punto si veda anche l’agghiacciante resoconto di Daniel Soulez Larivière Il circo mediatico-giudiziario, tanto che, anni dopo, un prestigioso studioso progressista come Michele Salvati nel suo saggio Tre pezzi facili sull’Italia ebbe a definire «un fatto unico in Europa la scomparsa dei partiti democratici di governo, un esito che solitamente si associa a traumi ben più gravi, a guerre e rivoluzioni». Qualcuno potrebbe giudicare sproporzionate queste parole se non avesse visto in diretta quella transizione agitata. Ma per riprodurre il clima dissennato di quel periodo basterà ricordare quanto scritto il 3 maggio 1995 sul “Corriere della Sera” da Giuliano Zincone: egli, denunciando l'inquietante clima politico- giudiziario che aleggiava sul nostro Paese, riferirà di una inchiesta svolta presso gli studenti universitari di Perugia. Richiesti di indicare il personaggio più odioso e ripugnante di tutta la storia dell'umanità, questi figli del sonno della ragione scartavano Giuda o Nerone, Caino o PolPot, Erode o Stalin: al primo posto collocavano Andreotti, al secondo Craxi, il cinghialone, buon terzo nella graduatoria dei mascalzoni ecco Hitler. Ma che giovani 'studiosi' aveva partorito il vento fustigatore dell'operazione denominata 'Mani pulite'? Tuttavia il problema non era solo dei giovani: anche un maturo pensatore come Gianfranco Miglio – al tempo ideologo della “Lega Nord” – mentre scoppiava Tangentopoli arriverà a dire che ''il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola''.
Così i leader democratici più emblematici vennero sistematicamente criminalizzati. Ci si accanì soprattutto con Bettino Craxi, rifugiatosi all’estero in Tunisia, come nella storia dovettero fare tanti altri 'fuoriusciti' di fronte alla spietatezza degli avversari. Quando il danno irreparabile alla persona e a quello che rappresentava era stato ormai fatto, proverà lo stesso citato magistrato D’Ambrosio a metterci una pezza con un’intervista a “Il Foglio” del 22 febbraio 1996, dichiarando che «la molla di Craxi non era l’arricchimento personale, ma la politica». Parole che dovevano esser dette prima, non dopo l’annientamento. Alla turba e ai nuovi capipopolo, convenne considerarlo – testualmente – un «criminale matricolato», dedito agli affari personali e ad una vita dorata: solo nel rovesciamento di regimi dispotici corrono frasari del genere, inconcepibili per una personalità democratica come Craxi, uno dei premier repubblicani più affermati, oltre che autorevole vicepresidente dell’Internazionale Socialista. Craxi sarà infamato da neofascisti, leghisti e da risentiti giustizialisti.
Sarà Piero Fassino, dapprima dirigente PCI e poi dei DS, a rimettere le cose a posto, a dramma consumato purtroppo. Nel suo libro del 2003 Per passione definirà Craxi «uomo profondamente di sinistra», aggiungendo in schietta autocritica che «il Pci negli anni ’80 non appare capace di affrontare il tema della modernizzazione dell’Italia, spingendo così ceti innovatori e produttivi verso chi, come Craxi, dimostra di comprenderli». Altro che criminale! E tutt’altro che uomo pronto a porsi nella mani o addirittura alla guida di una deriva di destra, secondo l’affermazione di taluni; un altro ex dirigente comunista come Petruccioli la considererà solo una malevola insinuazione: in una intervista a “Mondoperaio” del gennaio 2012 dichiarerà che «Craxi è sempre stato un uomo della sinistra». E anche tra i più capaci: il suo governo – asserirà un leader storico del PCI come Macaluso in una intervista a “La Stampa” del 21 gennaio 2006 – va considerato «fra i migliori che abbia avuto l’Italia». E fra le opere migliori – scriviamo 'opere' perché nei bilanci ostili di tanti detrattori vengono platealmente ignorate – vanno annoverate le azioni davvero efficaci contro l'inflazione, «la tassa dei poveri» che colpisce soprattutto i redditi medio-bassi: i governi Craxi dal 1983 al 1987 hanno determinato un calo dell’inflazione dal 14,70 % del 1983 al 4,72 % del 1987. E se è vero che il rapporto Debito/Pil in quello stesso periodo passò dal 68,38 all’88,60 %, è anche vero che ci fu un notevole incremento del Prodotto interno lordo dall’1,17 al 3,19 %. Dopo Craxi si sono succeduti numerosi governi di vario e opposto orientamento. Risultati? Ad esempio, nel 2013 il rapporto Debito/Pil ha raggiunto il 132,74 per cento mentre il Pil è precipitato al -1,9 %; nel dicembre 2022 l'Italia ha un debito pubblico di circa 2.762 miliardi di euro, pari a circa il 145% del PIL italiano.
Riprendiamo il filo per denunciare la doppiezza dei falsi moralisti. È significativo il caso degli ex-comunisti, sostanzialmente graziati dall’inchiesta 'Mani pulite'. Eppure appartenevano all’area politica che intercettò il più largo finanziamento illecito (da loro pudicamente definito 'aggiuntivo') proveniente dalla sovietica casa-madre Russia, da cooperative italiane, assicurazioni, banche, aziende. Scrive al proposito Gianni Cervetti, responsabile amministrativo del PCI durante la segreteria di Berlinguer, dunque uno dei principali collaboratori del leader che pretese di legare il proprio nome alla 'questione morale': «Non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fonti per finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il contrario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera superficiale e ingenua o, viceversa, insincera e ipocrita». Lo scrive, proprio nel torrido 1993, in un libro dal titolo emblematico: L’oro di Mosca. La tanto propagandata 'questione morale' di Berlinguer veniva schernita: definita o superficiale oppure ipocrita in quanto riguardava semmai in primo luogo il PCI e il suo apparato burocratico da mantenere e sovvenzionare, sicuramente il più ampio fra le organizzazioni partitiche italiane. Rincarerà la dose Barbara Spinelli su “La Stampa” del 26 maggio 1993, aggiungendo che il finanziamento dei comunisti russi ai partiti 'fratelli' dell’Occidente è la vera colpa morale di quest’ultimi (altro che problemi «morali» da accollare agli altri): «Quelle decine di miliardi che ogni anno affluivano da Mosca erano tolti a popolazioni che non vivevano una povertà bella, ma un inferno di miseria senza fine».
Tiriamo il fiato e accenniamo ora ad altri soggetti. Parliamo in primis della “Lega”. Giovanni Tizian e Stefano Vergine, aggiornando al 2019 le gesta finanziarie leghiste, presentano così Il libro nero della Lega, edito da Laterza: «La truffa milionaria ai danni degli italiani, le alleanze con personaggi impresentabili al Sud, le trame opache sullo scacchiere internazionale – tutta la verità sul partito di Matteo Salvini». E cosa dire degli ex-neofascisti, prima Msi, poi Alleanza nazionale e ora Fratelli d’Italia – eredi politici dei più esperti saccheggiatori pubblici del Novecento con la copertura di un regime dispotico: infatti, per quanto i sistemi democratici possano essere corrivi «è difficile superare l’impunita voracità dei gerarchi di un governo totalitario» (si legga il libro di Mario Cereghino e Giovanni Fasanella, Tangentopoli nera - Malaffare, corruzione e ricatti all'ombra del fascismo nelle carte segrete di Mussolini). Il fatto stucchevole è che quegli eredi siano diventati grandi esaltatori dell’operazione 'Mani pulite' e tra i più intransigenti interpreti della colpevolizzazione sommaria di tutti i partiti democratici di governo che nel primo cinquantennio repubblicano avevano risollevato l’Italia dopo l’epoca predona e militaresca del fascismo e della sua alleanza sanguinaria col nazismo.
Torniamo a Craxi. Morirà espatriato in Tunisia, in semplicità, fuori dagli agi e dagli ori immaginati dagli avversari. Nonostante sia morto di malattia, per anni in sofferenza e lontano dal suo Paese, resterà ancora per una parte dell’opinione un pericoloso 'latitante'. Craxi è comunque in buona compagnia. Il contumace più illustre fu addirittura il Padre della nostra lingua, finito per ritorsione sotto «accusa di concussione». Dante Alighieri, che come priore aveva ratificato una condanna contro tre banchieri papali, fu a sua volta perseguito dopo che papa Bonifacio VIII riprese il controllo di Firenze. «Fu giudicato colpevole di aver ricevuto denaro in cambio dell’elezione dei nuovi priori, di aver accettato percentuali indebite per l’emissione di ordini e licenze a funzionari del Comune e di aver attinto dal tesoro di Firenze più di quanto correttamente dovuto», come testualmente riporta la ricerca di Carlo Brioschi Breve storia della corruzione. Dante non si presentò al processo – si difese dunque dal processo diventando il «ghibellin fuggiasco» – e fu condannato in contumacia: se fosse entrato nel territorio fiorentino «sarebbe stato mandato al rogo; fu così che a 37 anni Dante intraprese la strada dell’esilio», della 'latitanza' avrebbero detto altri nella italica parlata tribunalesca. È l’emblema di sentenze che risentono delle circostanze e degli umori. Oggi Dante non sarebbe assolutamente considerato un ladro! Ma venendo a vicende più minute e contingenti, anche i processi di Tangentopoli se venissero celebrati ora – solo a pochi lustri di distanza – potrebbero prendere altra direzione. Conta lo spirito del tempo, l’aria che tira. È cosa antica: fin dai tempi di Socrate in teatro come in tribunale non conta la realtà ma come essa viene rappresentata e percepita. Tutto è umano e volubile.
In conclusione, la sorte di Craxi dovrebbe ravvivare sempre più il dispiacere delle persone ragionevoli. Ma anche tra gli irriducibili colpevolisti aveva aperto la strada al ripensamento un personaggio come l’ex-magistrato e poi parlamentare del PCI Luciano Violante, che in una intervista al “Corriere della Sera” del 5 aprile 2007 intitolata «Sbagliammo. Craxi capro espiatorio», definì un errore l’aver fatto di Craxi appunto «un capro espiatorio sull’altare del codice penale». In seguito, un numero sempre maggiore di osservatori democratici si è sempre più interrogato sulla «pessima prova» data dagli italiani, rimeditando le accorate osservazioni di Norberto Bobbio formulate subito nei primi anni ’90. Il grande filosofo su “La Stampa” del 20 gennaio 1993 aveva infatti scritto: «La 'prima Repubblica' è proprio finita. Non lo dico, come la maggior parte degli italiani, con un sospiro di sollievo o addirittura con aria di trionfo… ma perché una conclusione così miseranda è l’espressione del fallimento di tutta intera la nazione, e non solo della classe politica che è ormai rabbiosamente messa sotto accusa da parte di coloro che per anni l’hanno sostenuta e le hanno offerto il consenso necessario per governare. Come paese democratico, come Stato di liberi cittadini, abbiamo fatto, bisogna riconoscerlo, una pessima prova». Porre rimedio a quella infausta «prova», cercare di non ripeterla, resta il compito di una politica dal volto umano, democratica e partecipata: nella prima Repubblica votava il 90 per cento dell’elettorato, ora si stenta ad arrivare oltre il 50 per cento.
Dopo tanta politica sguaiata, dopo una giustizia perfino violenta, dai tratti polizieschi, condotta manu militari come al tempo del terrore evocato nel libro qui più volte citato, c’è bisogno di «qualcosa di nuovo, anzi d’antico», direbbe il poeta studiato nei nostri anni più belli. Dunque – come proponevo in un conciso trattato intitolato Breviario di politica mite – una politica basata sulla cultura, che rifiuta il semplicismo, che coltiva l’attaccamento alle idee, che cessa d’essere preda di umori populisti che spingono formazioni elettorali ballerine al 30 o 40 per cento dei voti per poi poco dopo sprofondarle verso numeri irrisori, e viceversa. Occorre ritornare ai partiti organizzati, a quei partiti tanto disprezzati dalla propaganda stupida di questi anni, ma che sono alla base della vita democratica prevista dalla nostra Costituzione (articolo 49) e come il più grande teorico della democrazia rappresentativa Hans Kelsen ha incessantemente spiegato: «La moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, la cui importanza è tanto maggiore quanto maggiore applicazione trova il principio democratico». Un principio che si può declinare con la ripresa del confronto mite, anche critico ma non 'gridato' tra partiti diversi, aggiungendovi segnatamente nuove forme sociali di comunicazione attiva e circolare fra i cittadini. È quello che lo storico inglese Martin Conway ha definito un modello «misto tra vecchio e nuovo» che possa garantire una transizione della democrazia verso la pienezza del XXI secolo.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
-Mattia Feltri, Novantatré. L’anno del Terrore di Mani pulite, Marsilio, Venezia, 2016.
-Paolo Mieli, In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia, Rizzoli, Milano,2016.
-Carlo M. Cipolla, (a cura di), Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a oggi, Il Sole 24 Ore-Mondadori, Milano, 1995.
-L. Federico Signorini-Ignazio Visco, L’economia italiana, il Mulino, Bologna, 1997.
-Stefano Livadiotti, Magistrati, l’ultracasta, Bompiani, Milano, 2009.
-Sergio Romano, Finis Italiae, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1995.
-Daniel Soulez Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macerata,1994.
-Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia, il Mulino, Bologna, 2011.
-Piero Fassino, Per passione, Rizzoli, Milano, 2003.
-Gianni Cervetti, L’oro di Mosca, Baldini&Castoldi, Milano, 1993.
-Carlo Alberto Brioschi, Breve storia della corruzione, TEA Editori, Milano, 2004.
-Mario Cereghino, Giovanni Fasanella, Tangentopoli nera - Malaffare, corruzione e ricatti all'ombra del fascismo nelle carte segrete di Mussolini, Sperling&Kupfer, Milano, 2016
-Giovanni Tizian, Stefano Vergine, Il libro nero della Lega, Laterza, Roma, 2019
-Nicola Zoller, Breviario di politica mite, Temi, Trento, 2003
-Martin Conway, L’età della democrazia. L’Europa occidentale dopo il 1945, Carocci, Roma, 2023





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