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Foibe, la complessità del male
10.2.07

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 10 Febbraio 2007
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l'azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
tel. 338-2422592 - fax 0461-944880
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 4°

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SOMMARIO:

o UN LIBRO, per cominciare: Luciana Palla, TITA PIAZ A CONFRONTO CON IL SUO MITO
o SULLE CONVIVENZE LA CHIESA NON PUÒ PROIBIRE LE LEGGI CIVILI
o SE IL DIO DI RUINI DIVENTA DI DESTRA
o ERNESTO ROSSI, IL LAICO LIBERALE D’ALTRI TEMPI
o LA COMPLESSITA’ DEL MALE NELLE STRAGI DELLE FOIBE




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UN LIBRO, per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Luciana Palla
o Titolo: TITA PIAZ A CONFRONTO CON IL SUO MITO
o pagine 288 – Ed. Istitut Cultural Ladin – Museo Storico in Trento, 2006


Presentazione del volume
VENERDI’ 16 FEBBRAIO 2007- ore 18.00
presso la sede della Sezione operaia della Società alpinisti tridentini – SOSAT
via Malaga, 17 - Trento

Il volume è frutto di una collaborazione fra Istituto culturale ladino di Vigo di Fassa e Museo storico in Trento.
L'autrice inquadra la figura di Tita Piaz - famoso alpinista noto come il diavolo delle Dolomiti - inserendola nell'ambiente fassano-trentino dell'epoca (fine Ottocento-secondo dopoguerra), segue passo passo il suo percorso esistenziale, cerca di capire come si è costruito nel tempo il mito intorno alla sua persona.
Si passa in sintesi dall'agiografia alla storia: vengono ripercorsi i successi alpinistici di Piaz, ma soprattutto i rapporti familiari, di paese, le amicizie e inimicizie, gli affetti, la sua passione per il teatro, l'impegno politico, con l'intenzione di riportarlo da eroe a uomo di tutti i giorni, senza togliere nulla alla grandezza del personaggio.

Sommario: Fabio Chiocchetti, Paroles dantfora; Giuseppe Ferrandi, Presentazione.
Introduzione; I. Dall'infanzia alla prima giovinezza: esperienze e ricordi; II. Attività e pensiero di Tita Piaz, guida alpina di nuovo genere (1900-1914); III. Vicende pubbliche e private di Tita Piaz tra guerra e dopoguerra (1914-1926); IV. Il periodo del fascismo; V. «Nelle grinfie delle SS»; VI. Il ritorno della democrazia (1945-1948): un altro sogno tradito; VII. Il mondo della montagna; VIII. La famiglia; Conclusione: nel ricordo dei posteri. Appendice documentaria; Indice dei nomi di persona; Indice dei toponimi di interesse alpinistico.

Luciana Palla si è occupata di storia delle comunità ladine e della Grande Guerra in area alpina. Nelle edizioni del Museo storico ha pubblicato Il Trentino orientale e la Grande Guerra (1994) e curato i volumi Mein Kampf um die Kunst: autobiografia di Francesco Ferdinando Rizzi (1998) e Opzioni guerra e resistenza nelle Valli ladine: il diario di Fortunato Favai: Livinallongo 1939-1945 (2000).

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SULLE CONVIVENZE LA CHIESA NON PUÒ PROIBIRE LE LEGGI CIVILI

E' necessario fare nel nostro Paese una buona legge sulle convivenze. C'è in tutta l'Europa civile, anche in quella cattolica. Non si capisce perché non sia possibile solo in Italia.
I Socialisti non credono che il dialogo con la Chiesa - che certamente deve esserci - possa essere confuso con il divieto per il Parlamento italiano di fare una buona legge civile. Le autorità ecclesiastiche non hanno infatti alcun diritto di proibire allo Stato di avere buone leggi civili.

Ci sono oltre un milione e mezzo di italiani che convivono. Non hanno scelto, pur amandosi e rispettandosi, il matrimonio ma convivono. E' assolutamente giusto che non si sentano cittadini di serie B o peccatori per la legge dello Stato. Se per la morale religiosa convivere senza sposarsi è un peccato, è un affare della morale religiosa e non una questione dello Stato laico. Per noi non è un peccato. Occorre che la legge dello Stato stabilisca obblighi reciproci nella convivenza affinché ci sia rispetto. Noi dobbiamo essere preoccupati di questo, non del peccato.

SDI - Regionale Trento/Bolzano

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SE IL DIO DI RUINI DIVENTA DI DESTRA
• La Repubblica del 7 febbraio 2007, pag. 1
di Ezio Mauro

C'è una domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell'Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?
Nel silenzio della coscienza individuale è senz'altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l'organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua "forma" culturale, l'esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l'alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell'Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l'identità incerta della sinistra italiana.
Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese "naturalmente cristiano", la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico - la Democrazia Cristiana - la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell'ombra dei corridoi vaticani, perché l'impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l'identità culturale dell'episcopato nazionale.
Poi, a cavallo del giubileo e all'apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente "terra di missione" per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da "tutto" la Chiesa deve diventare "parte".
L'uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa - la seconda fase - e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.
Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si "lobbizza" agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte - dopo Tangentopoli e la caduta del Muro - partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.
La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre "parti". Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l'assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come "senso comune", una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.
È un discorso che ha in sé l'obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull'episcopato italiano: la riconquista dell'egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell'esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l'ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici - o quasi - si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.
Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l'intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d'uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara "un risultato che collocherebbe l'Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia"? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l'egemonia culturale, che è appena incominciata.
Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello "strano cristiano" che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell'incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell'unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo "cristianismo", con la fede svalutata in ideologia.
Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i "progressisti cattolici": "Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l'avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano". Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: "Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell'inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo".
La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l'alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs - dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori - è riecheggiato addirittura il solenne "non possumus" di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è "uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana".
Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.
Anche se bisognerebbe aggiungere un'ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell'era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.

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ERNESTO ROSSI, IL LAICO LIBERALE D’ALTRI TEMPI
• da L'opinione online del 8 febbraio 2007
di Pier Franco Quaglieni

Ernesto Rossi fu un uomo difficile, spigoloso, non disposto ai compromessi, anche nei confronti dei suoi stessi amici. La sua morte - avvenuta quarant’anni fa nel 1967 a Roma - per molti significò la fine di un incubo, perché le sue implacabili polemiche non risparmiavano nessuno. Altri lo considerarono un ingenuo solo perché era onesto, vedendo in lui un solitario don Chisciotte incapace di fare i conti con la realtà. Anni fa, un prete (che suscitò un certo scalpore perché inaugurò il dialogo tra cattolici e massoneria) parlò sprezzantemente di lui come un anticlericale “fanatico, cieco, integrale”, dimenticando volutamente tutto ciò che egli aveva rappresentato nella storia di questo Paese. In effetti, il peso politico, il significato culturale e il magistero morale di Rossi ci portano oggi a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle di chi ha ritenuto di poterlo liquidare con poche battute.
Nato a Caserta nel 1897 da padre piemontese appartenente all’aristocratica famiglia dei Rossi della Manta, egli,dopo aver partecipato come volontario alla Prima guerra mondiale (intervenuto, non interventista, come egli stesso disse di sé), conobbe nel 1919 a Firenze l’uomo che decise il suo destino futuro: Gaetano Salvemini verso cui si sentirà sempre in debito “di quel poco che (era) riuscito a fare per la giustizia e la libertà”. Nella sua formazione politico-culturale furono altresì decisivi Vilfredo Pareto la cui sociologia fu oggetto della sua tesi di laurea in Giurisprudenza a Pisa, e soprattutto Luigi Einaudi, che portò Rossi a diventare un convinto e coerente liberista in economia e un fervente sostenitore dell’idea federalista europea. Dell’influenza di Einaudi su Rossi si è ancora scritto troppo poco, mentre in realtà molte delle polemiche che caratterizzarono le battaglie di Rossi furono ispirate, oltre che dal “concretismo” salveminiano, dal liberismo del grande studioso piemontese. A far sì che Rossi divenisse un oppositore irriducibile del fascismo e si trasformasse in uno tra gli animatori più coraggiosi e spericolati di “Giustizia e Libertà” fu però Gaetano Salvemini che, come egli stesso scrisse gli “ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti delle passioni suscitate dalle bestialità dei socialisti e dalle menzogne della propaganda governativa dei fascisti”.
Rossi considerò Salvemini non solo come un maestro ma come un padre. Infatti non va dimenticato il fatto che Rossi, come tantissimi reduci della grande guerra, simpatizzò per l’impresa dannunziana di Fiume e per il fascismo nascente, collaborando tra il 1919 e il 1922 al “Popolo d’Italia” diretto da Mussolini. Alla radice di queste scelte, spesso non ricordate in molte delle sue biografie, c’era la profonda insoddisfazione che Rossi sentì per la classe politica prefascista (non dimentichiamo che anche Einaudi e Gobetti furono antigiolittiani) e la netta condanna per l’atteggiamento delle sinistre nei confronti degli ufficiali reduci di guerra considerati come “delinquenti,nemici del proletariato, mercenari al servizio della borghesia” e dei 650.000 Caduti in guerra che venivano dileggiati da molti socialisti. L’opera di Salvemini, andato anche lui volontario in guerra ed eletto deputato in rappresentanza dei Combattenti, fu decisiva a far prendere coscienza al giovane Rossi di cosa realmente fosse il fascismo, impedendogli di “sdrucciolare” anche lui verso il regime che stava instaurandosi in Italia.
Nel 1930 venne arrestato a Bergamo per la sua attività clandestina e condannato a vent’anni di carcere. Nel suo epistolario intitolato beffardamente “Elogio della galera” ci ha lasciato la testimonianza di cosa significasse per lui “Non mollare” (per dirla con il nome del giornale antifascista fiorentino che egli fondò insieme a Salvemini ed ai Rosselli nel 1925). Visse l’esperienza del carcere con una intransigenza ferrea che gli indurì il carattere, senza privarlo della sua arguzia scanzonata e senza impedirgli di abbandonarsi alla dolcezza dei sentimenti, quando scriveva alla “Pig”, il diminutivo di “Pigolina” attribuito, con “catulliana” tenerezza, alla sua Ada. Successivamente relegato al confino di Ventotene, scrisse nel ‘41, con Altiero Spinelli, il famoso “Manifesto” da cui trasse impulso l’idea federalista di un’Europa libera ed unita; due anni dopo a Milano fu tra i fondatori del Mfe. Sottosegretario nel governo Parri, tra i fondatori del Partito d’Azione prima e del Partito Radicale dopo, collaborò al “Mondo” di Pannunzio, di cui fu una delle “colonne”. Le sue inchieste appartengono ormai alla storia del giornalismo italiano ed alcuni suoi libri hanno sicuramente lasciato un segno; pensiamo, ad esempio, ai “Padroni del Vapore”, “Il manganello e l’aspersorio”, “Borse e borsaioli”, “Settimo: non rubare”. Rossi rappresentò nella vita politica italiana l’esempio tipico del ribelle, del “rompiscatole”, del “pazzo malinconico”, come lo definì Salvemini.
Fu uno dei pochissimi antifascisti autentici che pagarono con il carcere la propria scelta politica e coerentemente con la sua intransigenza morale si trovò molto presto ad essere in dissenso con chi aveva fatto dell’antifascismo una bandiera da sventolare e un motivo per ottenere cariche e prebende. L’epistolario tra Rossi e Salvemini dimostra in modo inoppugnabile come il maestro e l’allievo avessero visto con disgusto l’antifascismo del 25 luglio se non addirittura del 25 aprile che pretendeva di vantare dei meriti inesistenti al fine di ottenere riconoscimenti non dovuti. E’ significativo che Rossi, al pari di un suo compagno di carcere, il grande musicologo Massimo Mila, non riuscì a superare il concorso per il posto di professore ordinario nelle università italiane. E’ impossibile far rivivere il suo gusto per la battuta tagliente, per il paradosso, per la polemica feroce, ma nel contempo sempre lucidissima. E sicuramente l’indipendenza di giudizio e il coraggio di andare sempre concorrente furono le cause che portarono di fatto Ernesto Rossi ad essere una specie di straniero in patria.
Il momento migliore de “Il Mondo” fu quello rappresentato dalla feconda collaborazione tra Pannunzio e Rossi. Poi il sodalizio disgraziatamente si ruppe nel 1962 e si giunse al distacco traumatico che contrappose i due principali protagonisti di quell’esperienza. Ma al di là delle infuocate polemiche contingenti, Pannunzio riconosceva già nello stesso anno in una lettera indirizzata ad Alessandro Galante Garrone (che me ne fece dono prezioso): “Continuamente ripenso con nostalgia ai tanti anni in cui abbiamo lavorato insieme come due fratelli”. Ed Ernesto Rossi, dal canto suo, scriveva nel 1966: “Da quattro anni non sono più collaboratore del “Mondo”, ma il mio dispiacere per la fine del settimanale è profondo e sincero. Non posso non ricordare la libertà assoluta (…) di scrivere su ogni argomento quello che volessi e come lo volessi”. Rossi e Pannunzio erano giunti alla rottura per il caso “Piccardi”, ricorrendo addirittura al Tribunale. Si trattava di uomini tutti di un pezzo, duri nel mantenere le proprie posizioni fino ad apparire testardi, ma c’era in loro un’onestà intellettuale e una sensibilità umana che prevalevano anche sui dissensi più aspri.
Nel buio morale dei nostri giorni la lezione scomoda di Ernesto Rossi è una di quelle che non devono andare disperse e vanno anzi ricordate soprattutto ai giovani che appaiono sempre più apatici e indifferenti nei confronti dell’impegno civile, dopo le drammatiche sbornie ideologiche di un ‘68 che in Italia è durato oltre un decennio e il sostanziale fallimento della II° Repubblica che per molti versi si è rivelata peggiore della prima. Rossi parlava spesso del “cerino acceso della nostra ragione” che rischiava il nostro agire. Egli stesso ci appare oggi una piccola luce che indicava la rotta giusta da seguire per non lasciarsi sedurre dalle sirene dei conformismi vecchi e nuovi. Se Rossi fu don Chisciotte, lo fu solo perché non dismise mai né le armi né l’armatura. Un esempio difficile da seguire oggi perché in questa Italia in cui non si fa carriera se non si china la schiena ai potenti di turno, la testimonianza di Rossi diventa quasi quella di un marziano capitato per caso a Roma,come diceva Flaiano. Parlare oggi di passione civile di fronte ad una classe politica rozza, incolta, prepotente, arruffona diventa quasi impossibile. La politica sta diventando davvero intollerabile, ma sono proprio uomini come Rossi, Salvemini, Einaudi, Pannunzio che ci danno ancora la forza per andare avanti, per non cedere al conformismo che più mai domina nel campo della cultura e della politica e rendono quasi del tutto vano l’impegno degli uomini liberi...

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LA COMPLESSITA’ DEL MALE NELLE STRAGI DELLE FOIBE
Il ricordo di Rovereto, città della pace


Sabato 10 febbraio 2007 abbiamo partecipato con tanti altri cittadini democratici di Rovereto al ricordo delle vittime delle foibe, in cui furono gettati migliaia di italiani dai comunisti iugoslavi. La tragedia fu conseguenza – come ricorda l’ autorevole storico Gianni Oliva – di due cause: da un lato, la politica di italianizzazione forzata perseguita durante il ventennio fascista nell’Istria e nelle aree mistilingue del confine orientale, con la sistematica snazionalizzazione delle comunità slovene e croate; dall’altra, la politica espansionistica di Tito e l’ambizione di annettere alla nuova Jugoslavia comunista non solo la Dalmazia e l’Istria, ma anche Trieste e il Goriziano.
Sbagliano bersaglio gli estremisti che ricordano solo una delle due cause, come i facinorosi che volendo disturbare la manifestazione di Rovereto gridavano solo contro la prima causa. In realtà l’intento dei comunisti titini e che sfugge ai contestatori pseudo-progressisti odierni era anche quello di impedire l’affermazione di personalità italiane antifasciste in grado di legittimarsi di fronte agli Alleati: per questo vennero gettati nelle foibe tanti italiani in quanto tali, anche fior di antifascisti che preferivano la bandiera tricolore a quella con la stella rossa.
E’ bene ricordare ogni anno le vittime delle foibe, anche perché la memoria di questa vicenda disgraziata possa aiutarci a indagare meglio sulla complessità del male e a non cadere in altrettante barbarie.

Nicola Zoller - segretario regionale Sdi

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