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ALI DI PIOMBO
25febbraio2007

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 25 Febbraio 2007
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l'azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
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Quindicinale - Anno 4°



SOMMARIO:

o UN LIBRO, per cominciare: Concetto Vecchio, ALI DI PIOMBO (commento di Paolo Morando – giornale TRENTINO: “Quell’anno di sangue che cambiò l’Italia”)
o Cristian Sala: AL TRENTINO SERVE UNA SCOSSA MA NON PUO’ ESSERE UN ULIVO-BIS
o Nicola Zoller: IL CONCORDATO VA SUPERATO
o Pia Locatelli: ANTONIO RUBERTI, PADRE DELLO SPAZIO EUROPEO DELLA RICERCA

Segnalazioni: ESSERE SOCIALISTI E’ COME PORTARE LA CROCE – intervista a Enrico Boselli, magazine del Corriere della Sera IO DONNA – sabato 24 febbraio 2007 , p.133-136

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UN LIBRO, per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jorge L. Borges)

o Autore: Concetto Vecchio
o Titolo: ALI DI PIOMBO
o Editore BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2007

In sintesi: Questo libro è la cronaca appassionata di un caso italiano: il 1977. Un nuovo Sessantotto, culminato nelle morti tragiche di tre militanti: Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi. Ma è anche l'anno che segna la drammatica ascesa delle Brigate rosse, che a Torino uccidono il presidente dell'Ordine degli avvocati Fulvio Croce e il vicedirettore della "Stampa" Carlo Casalegno. Concetto Vecchio, trent'anni dopo, è tornato a Bologna, Roma, Torino, rivisitando i luoghi di allora, e ha ripercorso gli ultimi mesi di vita di Casalegno e dei suoi assassini. Attraverso quasi quaranta testimonianze, tra cui quelle di Gad Lerner, Ezio Mauro, Diego Novelli, Giancarlo Caselli, Giampaolo Pansa, Gianfranco Bettin, Diego Benecchi, Bifo Berardi, Silvio Viale, Renato Nicolini, racconta l'attacco dei giovani del movimento al Pci, la nascita di Radio Alice, il trionfo della controcultura. Spiccano figure indimenticabili come quella di Carlo Rivolta, giovane promessa di "Repubblica" stroncato dalla droga, e di Antonio Cocozzello, un piccolo democristiano che si ritrova incredibilmente nel mirino del terrorismo.


QUELL’ANNO DI SANGUE CHE CAMBIÒ L’ITALIA
di Paolo Morando – giornale TRENTINO


«Ali di piombo», il nuovo libro di Concetto Vecchio: il movimento, il terrorismo, le vittime

È il gennaio dell’86 quando Repubblica, festeggiando il proprio decennale, pubblica una serie di fascicoli allegati al quotidiano, uno per ogni anno. Sulla copertina di quello del 1977, dopo il ’76 dedicato a “L’alba di Craxi”, campeggiano una enorme rivoltella, disegnata da Tullio Pericoli, e il titolo “I giorni delle P38”. E a scorrere la cronaca di quei dodici mesi, si capisce quanto la scelta fosse obbligata.
Quello che anche Walter Veltroni ricorda come «l’anno più duro della nostra generazione» si chiude infatti con un bilancio di 2.188 attentati terroristici, contro i 1.198 dell’anno prima, con 32 persone gambizzate (tra cui Indro Montanelli e il direttore del Tg1 Emilio Rossi) e una dozzina di morti: avvocati come il presidente dell’ordine del Piemonte Fulvio Croce, giornalisti come il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno, tanti giovani militanti di sinistra (da Francesco Lorusso a Giorgiana Masi, da Walter Rossi a Benedetto Petrone) fino al povero Roberto Crescenzio, studente lavoratore torinese che non aveva mai fatto politica, una fine orribile nel rogo di un bar assaltato perché ritenuto un covo di fascisti. E poi agenti di polizia, da Antonino Custrà a Settimio Passamonti, da Giuseppe Ciotta alla guardia giurata Remo Pietroni. Ma la prima vittima è il brigadiere della polizia stradale Dino Ghedini: è la sera del 19 febbraio quando, nell’hinterland milanese, ferma per un controllo una Simca guidata da Enzo Fontana, allora 25enne e già con un passato nei Gap di Giangiacomo Feltrinelli, ora invece brillante studioso di Dante e trentino d’adozione (è tra gli editorialisti dell’Adige). Sta per perquisire l’auto, Ghedini, quando il giovane estrae una pistola uccidendolo sul colpo e ferendo gravemente l’appuntato Adriano Comizzoli, Arrestato, Fontana si dichiara prigioniero politico: sul sedile posteriore trasportava documenti delle Brigate rosse. Sarà condannato a 26 anni.
Di quell’anno tremendo si occupa, meritoriamente, il giornalista del Trentino Concetto Vecchio nel suo “Ali di piombo” (281 pagine, 9,40 euro), che uscirà domani nella collana “Futuro Passato” della Biblioteca Universale Rizzoli. Catanese, 35 anni, Vecchio è al suo secondo libro, dopo quel “Vietato obbedire” dedicato due anni fa alle vicende e ai protagonisti di Sociologia e vincitore dei premi Capalbio e Pannunzio. Ma non aspettatevi uno dei soliti libri sul terrorismo: d’altra parte gli scaffali ormai sono stracarichi di memoriali e interviste di leader e manovali della lotta armata, l’ennesima autoanalisi difficilmente aggiungerebbe qualcosa di rivelatore per capire quella parabola di sangue.
Vecchio ne è consapevole, e sceglie invece la chiave che gli è più familiare: quella della cronaca. E il suo “Ali di piombo” è così un racconto formidabile e documentatissimo, serrato nei passaggi più tesi (l’uccisione di Lorusso negli scontri di piazza a Bologna, quella di Giorgiana Masi a Roma, la clamorosa contestazione del leader della Cgil Luciano Lama alla Sapienza), ma anche dolente di fronte, e accade spesso, all’insensatezza che pervade quel maledetto 1977. Ed è un libro che, restando saggiamente lontano da sociologismi e politichese (e non era facile, dovendo spiegare ad esempio che cosa fosse Autonomia operaia), scava tanto a fondo da recuperare figure dimenticate o di secondo piano, a tutti i livelli: da Carlo Rivolta, giovane cronista di Repubblica che come pochi raccontò il movimento, morto stroncato dalla droga (un altro lato drammatico di quell’anno), ad Antonio Cocozzello, oscuro consigliere comunale della Dc, impegnato nel sociale e nei quartieri della Torino proletaria, bersaglio di un terrorismo cieco e ostinato.
Il metodo di Vecchio è trasparente: lasciar parlare i fatti. E quello che non è recuperabile dalle cronache di allora, le emozioni “di pelle” ma anche il senno di poi, “estrarlo” da decine di testimonianze. E così, a rafforzare una solida ragnatela cronologica di eventi, concorrono i racconti di Gad Lerner, del direttore di Repubblica Ezio Mauro (allora giovane cronista alla Gazzetta del Popolo di Torino), Diego Novelli, Giampaolo Pansa, Gianfranco Bettin, Arrigo Levi, Marco Boato, Enrico Deaglio e tanti altri, 37 in tutto, senza dimenticare il contributo fondamentale del procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli, allora in prima linea contro le Br, nel ricostruire gli esiti giudiziari di tanti fatti di sangue. E che il metodo sia quello autentico del cronista, lo dimostrano i “sopralluoghi” compiuti dall’autore in alcuni dei luoghi più tragici di quell’anno: l’abitazione di Casalegno a Torino, ferito a morte nell’androne di casa, e soprattutto il centro storico di Bologna, teatro di guerriglia a marzo ma anche cornice di quel convegno sulla repressione che, in settembre, sarà il canto del cigno dell’ala “creativa” del movimento. Un po’ come l’anno prima quello a Rimini di Lotta continua, un “rompete le righe” che porterà molti a ingrossare le fila del partito armato.
Perché non c’è solo piombo, nelle ali del 1977. A Bologna ci sono Andrea Pazienza e Radio Alice, e “Bifo” Berardi ne rievoca peripezie e imprese (tutta da leggere, per chi ancora non la conoscesse, l’irruzione della polizia raccontata in diretta). E c’è un’Italia che cambia, con il femminismo e i “Porci con le ali” di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, con la prima Estate Romana di Renato Nicolini (pure tra i testimoni), ma anche con le università dei “baroni” e di migliaia di giovani, soprattutto del Sud, che ne escono inevitabilmente disoccupati. E c’è anche, è vero, un’Italia che in tv passa dal bianco e nero al colore, che si appassiona a Fonzie e Furia cavallo del West, o al duello Torino-Juventus per lo scudetto.
È un’Italia che Vecchio pure racconta, ma di passata, quel che serve per contestualizzare una realtà comunque fatta di altro: perché è anche l’anno dell’affare Lockheed in Parlamento, della fuga del criminale nazista Herbert Kappler dall’ospedale militare del Celio, delle polemiche per il “Mistero buffo” in tv di Dario Fo. E soprattutto del ministro degli interni Kossiga, disegnato da Forattini armato e vestito da autonomo dopo la morte di Giorgiana Masi. E di bollettini come quello del 1º luglio, citato non a caso anche da Guido Crainz nel suo “Il Paese mancato”: una guardia giurata uccisa da tre fascisti durante una rapina, due dirigenti della Fiat gambizzati, l’esplosione di tre vagoni ferroviari carichi di elettrodomestici Zanussi, un attentato sventato per caso alla Liquichimica di Augusta dove vengono ritrovati quattro chili di gelignite, altri attentati a Bologna alle sedi dei vigili urbani e dell’Associazione industriali, bottiglie molotov a Roma, bombe delle Br contro il carcere di Spoleto, sparatorie dei Nap contro una caserma dei carabinieri a Catania e sabotaggi vari. Tutto lo stesso giorno.
Scrive Vecchio, alla fine nei ringraziamenti (dove rende anche merito all’efficienza del sistema bibliotecario trentino), di aver desiderato per anni scrivere la storia di Carlo Casalegno e del suo rapporto con il figlio Andrea, militante di Lotta continua. E d’altra parte proprio quel delitto, e la sua “rielaborazione” da parte della sinistra extraparlamentare, fu una sorta di spartiacque, grazie alla celebre intervista di Lerner e Marcenaro allo stesso Andrea Casalegno, in cui i due cronisti scrivevano che «ridurre il nemico a simbolo significa stravolgere la realtà credendo di semplificarla». E ammette, Vecchio, d’aver pensato a lungo che senza un racconto dell’intero contesto («il terrorismo, la Torino fordista, le inquietudini dei ragazzi del ’77, i tanti morti del movimento») la vicenda non avrebbe retto un intero libro.
Ha ragione: l’“Ali di piombo” che ne è uscito è infatti molto di più di un ritratto di famiglia. Ma quella morte, quell’agonia di 13 giorni in ospedale a cui alla fine, il 29 novembre del ’77, il fisico dell’ex partigiano Casalegno non resse, è comunque il filo rosso dell’intero libro. Ed è un bene che sia così: proprio perché rappresenta, in anticipo di pochi mesi sul delitto di Guido Rossa (l’operaio e sindacalista genovese ucciso nel gennaio del ’79 perché “delatore”), l’inizio del tramonto delle Br. Non di quello militare, certo, il sequestro Moro deve ancora arrivare, ma di quella “contiguità” ideologica nel movimento, per non dire aperta simpatia, che era il terreno su cui fiorivano le azioni terroristiche.
Un solo appunto, al libro di Concetto Vecchio. Non cita l’editoriale che Eugenio Scalfari dedicò il 15 settembre a Felix Guattari, l’intellettuale francese allora impropriamente accomunato ai “nouveaux philosophes” e tra i promotori del convegno sulla repressione di quei giorni a Bologna, che in una lunga intervista a Repubblica aveva spiegato di non preoccuparsi dei detenuti di destra. «C’è dunque chi nasce cattivo e chi buono? - scriveva Scalfari - Chi è stato baciato dalla grazia una volta per tutte e chi si porta addosso il peccato originale? Guattari non sarà un nuovo filosofo, ma sotto a questa tesi c’è una gran puzza di sacrestia». E via così, per colonne e colonne: memorabile. Ma è un dettaglio, che non offusca i due grandi meriti di “Ali di piombo”: l’arrivare per primo nella “corsa” editoriale già apertasi per il trentennale del ’77 (sono infatti annunciate a breve opere analoghe di Lucia Annunziata e di Stefano Cappellini del Riformista). Ma soprattutto, il raccontare con la sobria passione del cronista un anno decisivo della storia recente d’Italia. E incredibile visto con gli occhi di oggi.

Paolo Morando

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AL TRENTINO SERVE UNA SCOSSA MA NON PUO’ ESSERE UN ULIVO-BIS
di Cristian Sala – giornale l’ADIGE del 12 febbraio 2007

Leggo con attenzione ed un po’ di “apprensione” il corsivo pubblicato sull’Adige di giovedì 8 febbraio, nel quale si propongono alcuni stimoli assolutamente interessanti con riferimento alla necessaria “scossa” che il nostro Trentino deve riuscire a darsi in vista degli importanti appuntamenti che lo attendono (non solo elettorali!) e che ne delineeranno il nuovo volto.
Con attenzione perché conosco bene alcuni dei firmatari dell’appello, avendo condiviso con loro significativi momenti e percorsi politici: con Giorgio Tonini l’appassionante momento referendario che in un qualche modo ha dato la svolta agli inizi degli anni ‘90, con Carlo Stefenelli la significativa esperienza di Alleanza Democratica che, ahimé, ha avuto il difetto di anticipare troppo i tempi e con Beppe Zorzi l’entusiasmo e la grande forza popolare dei Comitati Prodi.
Con un po’ di apprensione perché quelle alcune firme sotto un unico documento facevano presupporre un disegno che in qualche modo poveva s-travolgere l’attuale panorama politico.
L’analisi da loro proposta è assolutamente condivisibile.
L’esperienza dell’Ulivo nasce in momento critico, sia per la disgregazione della forma partito nel post-tangentopoli, sia per la totale delegittimazione della politica.
Nasce certamente privilegiando quello che unisce piuttosto che quello che avrebbe potuto dividere.
E l’esperienza ha quell’insperato successo proprio perché non si parte dal contenitore ma dal contenuto, perché la nascita dell’Ulivo non avviene per parto indotto ma in modo naturale, perché non vi è stata la firma di un accordo fra segreterie di partito, ma perché nascono i Comitati Prodi, che vedono seduti l’uno affianco all’altro il segretario di partito, il militante e il semplice cittadino.
Ma tale forza propulsiva, ricordiamocelo bene, non ha lunga vita. Quando, dopo la vittoria di Prodi nel 1996, la parola ripassa alla politica (con la p minuscola), abbiamo tutti ben presente quello che accade e come quella forte spinta rinnovatrice, lentamente ma inesorabilmente, svanisce nel nulla.
Come allora, partendo da queste riflessioni sugli accadimenti di ieri (che sembrano appartenere ormai alla “preistoria della politica”) ragionare sull’oggi? Come riuscire a ricreare quei presupposti, ingenerando meccanismi di partecipazione e di condivisione dal basso, elemento vincente di quelle esperienze?
Non certo riproponendoli tali e quali. E’ necessario pensare ad ingredienti nuovi con una ricetta che non può essere la stessa; rischierebbe di uscirne una “pietanza stracotta”.
Partiamo allora da un punto fermo: con l’attuale scenario, il Partito Democratico Trentino non può nascere certamente prima delle elezioni del 2008. Cado in contraddizione? No.
Non possiamo pensare che un progetto di questa portata nasca con il solo obiettivo di dare risposta all’appuntamento elettorale del 2008. Nascerebbe “morto” o almeno “fortemente limitato”.
Mancano oggi almeno due presupposti che con l’Ulivo erano invece di stretta attualità.
Le “regole del gioco”; un sistema elettorale che favorisca il “mettersi assieme”, l’aggregare, piuttosto che la rendita di posizione, che il mantenere alta la bandierina del particolare.
Ma soprattutto la presenza di due solide e allo stato difficilmente scalfibili strutture partitiche quali quelle rappresentate da Margherita e DS che, data la loro complessa articolazione interna, stanno frenando (a livello locale oltre che a livello nazionale) qualsiasi prospettiva che prefiguri percorsi che vadano in questa direzione.
Questo non significa che “il tutto è perduto”, che ogni azione posa risultare inutile.
E’ infatti fondamentale avviare un processo che possa dar vita, in embrione, a quel “baricentro politico e culturale” di cui parlano i firmatari, fortemente caratterizzato da un approccio riformista.
Un percorso per forza di cosa trasversale, che si ponga come obiettivo primo quello di creare momenti di confronto e di crescita dell’idea riformista, coinvolgendo certamente chi è “nella politica” e “nelle istituzioni” ma aprendo significativamente a chi non lo è.
Lo sport, una volta di più, può forse aiutarci a chiarire meglio i concetti: formare la squadra, determinare i ruoli, definire gli schemi, sono sicuramente obiettivi principali che l’allenatore e il suo staff devono privilegiare: ma il tutto risulterà vincente solo se si riuscirà a stimolare e a far crescere il cosiddetto “spirito di squadra”, dentro e fuori lo spogliatoio, in campo e sugli spalti. E per fare questo, tutti devono essere coinvolti.
Non significa con questo “ridimensionare” o “sminuire” gli obiettivi declinati dai firmatari, anzi.
Sono convinto con loro e come loro che l’obiettivo è importante, è fondamentale.
E proprio per questo incontriamoci e confrontiamoci, definendo attentamente un percorso che ci possa portare a costruirlo con solide fondamenta.
Non costruiamo, come altre volte abbiamo fatto, un castello di sabbia, spazzato via dalla prima onda, il giorno dopo le elezioni.

Cristian Sala – segretario provinciale SDI

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IL CONCORDATO VA SUPERATO
di Nicola Zoller - giornale CORRIERE DEL TRENTINO del 21 febbraio 2007

In una democrazia liberale, nella quale sono assicurati a tutti i diritti di libertà, compresi quelli religiosi, il Concordato è uno strumento di altri tempi. E quindi può essere superato. Il Concordato ha un valore o in paesi totalitari dove non c'è libertà di religione o in paesi in cui, in forma illiberale, c'è una religione che di fatto è di Stato.

Noi socialisti riteniamo che la questione del superamento del Concordato debba maturare. Del resto, quando fu siglato da Craxi nel 1984 la revisione del medesimo, veniva consensualmente stabilito tra Stato e Chiesa che il cattolicesimo non era più religione di Stato e quindi, già in questo modo, si ponevano le premesse per il superamento del Concordato stesso. E ricordiamo che il presidente del Consiglio in carica lo disse chiaramente nel discorso al Senato.
Ci aspettiamo che il Governo di centro-sinistra e il Parlamento tutto riaffermino il carattere laico dello stato italiano.

Nicola Zoller – consigliere nazionale SDI

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Approfondimenti
ANTONIO RUBERTI, PADRE DELLO SPAZIO EUROPEO DELLA RICERCA
di Pia Locatelli

intervento al convegno della Fondazione Ruberti: “Università e ricerca: la visione di Antonio Ruberti”

Credo che se ho qualche modesto titolo per partecipare oggi, a fianco di figure tanto illustri e che, diversamente da me, hanno potuto condividere anche personalmente con Antonio Ruberti anni di esperienze e proficuo lavoro, questo si debba al lavoro svolto a Strasburgo per il 7° Programma Quadro europeo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico; programma che siamo orgogliosi di aver approvato entro il dicembre scorso, superando non poche difficoltà, affinchè ne fosse resa possibile la puntuale partenza con il 1° gennaio 2007. Ebbene, quante volte, durante il lavoro in commissione parlamentare, l’elaborazione delle linee guida, e infine del programma definitivo, la figura di Antonio Ruberti è stata richiamata e ricordata! Tant’è che il convegno di oggi mi appare una logica conclusione del nostro lavoro, e un doveroso tributo, proprio in coincidenza con il varo del nuovo programma europeo.
Il 7° Programma Quadro mostra il suo debito alla visione di Antonio Ruberti, dando finalmente l'avvio al progetto dello Spazio Europeo della Ricerca, l’orizzonte da lui indicato anni fa, quando era Commissario europeo. Una proposta rimasta lettera morta per anni e ripresa da un altro Commissario socialista, Philippe Busquin. Lo Spazio Europeo della Ricerca ci appare come uno dei contenuti più importanti e vitali della lezione di Ruberti, che ce ne aveva indicato l'importanza, in un’Europa che univa i suoi mercati, quale mercato unico della merce che si è rivelata essere la più preziosa, la Conoscenza. Nell’ormai lontano 1989, in un convegno socialista sulla risorsa scientifica e tecnologica, Ruberti già menzionava i problemi che si frapponevano sul cammino dello Spazio Europeo, che nelle aree più lontane “dall’immediato impatto con il sistema produttivo –spiegò- conserva i caratteri storici della libera circolazione dei risultati della ricerca e degli scienziati, ma nelle aree più vicine alle applicazioni tende ad essere condizionato dalle divisioni geopolitiche”. Massimo, allora, nella fisica delle particelle o nella ricerca spaziale, il grado di internazionalizzazione, e quindi di innovazione, qualità, competitività e libertà, scendeva a livelli minimi, o comunque insufficienti, man mano che si veniva, e si viene, a cozzare con consolidati equilibri di tipo corporativo, protezionistico, nazionalistico, che coinvolgono forti interessi privati troppo spesso difesi a spada tratta dai governi, in nome di un presunto interesse nazionale che però non è quello dei consumatori né dei cittadini, né tanto meno di chi fa ricerca.
Ecco, con il nuovo Programma Quadro, abbiamo cercato di dare corpo e realtà alla visione che Ruberti perseguì come Ministro della Repubblica e come Commissario Europeo, di uno Spazio Europeo della Ricerca, dando vita anche a strumenti operativi importanti, primo tra tutti quel Consiglio Europeo della Ricerca (contro il quale purtroppo proprio in Italia si erano sollevate incomprensibili resistenze, poi fortunatamente rientrate) che finanzierà la ricerca di base, singoli ricercatori e équipes, messi in concorrenza a livello europeo: l’eccellenza sarà il solo criterio che guiderà la selezione. Un’iniziativa in grande sintonia con quanto ci ha insegnato Ruberti sulla centralità della ricerca di base, che quindi deve ricevere la massima cura dal sistema pubblico. Lo dico anche pensando alle contestazioni portate avanti dai collettivi studenteschi nel 1990 contro la riforma dell’università da lui promossa: quel movimento studentesco - peraltro assai minoritario tra gli studenti, e, in prospettiva storica, non certo paragonabile ai grandi movimenti studenteschi, davvero importanti, degli anni 60 e 70 - basò la sua contestazione su un equivoco madornale: che l’autonomia universitaria, attuata secondo il dettato costituzionale, sino ad allora dimenticato, significasse privatizzazione e sottomissione agli interessi dell’industria privata, cosa quanto mai lontana dalla visione di Ruberti e dall’intenzione dei riformisti di allora. E, del resto, si trattava di una paura del tutto ipotetica, se al contrario il problema che viviamo oggi è che l’industria e i capitali privati si diisnteressano dell’università, o comunque non contribuiscono come potrebbero alla ricerca. Allora, nel 1990, una parte della sinistra italiana, al governo, si trovò contrapposta all’altra, che cavalcò il movimento degli studenti come arma di opposizione: credo che la storia politica di Ruberti, uomo di governo, riformista, mai settario, ci insegni anche questo: che mai più le forze riformiste devono trovarsi divise, di fronte alle grandi sfide. Ruberti fu non soltanto un grande tecnico, ma anche un politico di grande lucidità, e un politico di sinistra, che aveva ben chiaro come l’interesse pubblico andasse tutelato dalle intromissioni degli interessi di parte, nel campo della ricerca, e non solo. La ricerca che funziona è la ricerca libera: credo che sia stato giusto, quindi, che nel 7° Programma Quadro siano stati previsti, entro un quadro di regole e controlli severi, alcuni progetti sulle cellule staminali embrionali, e molto opportunamente il ministro Mussi ha tolto l’anacronistico veto italiano.
Ancora una considerazione: la misura dell’importanza che diamo alla ricerca e allo sviluppo è testimoniata, molto semplicemente, dai finanziamenti che vi dedichiamo. Quando Ruberti diventò ministro, l’Italia aveva nel corso degli anni 80 aumentato sensibilmente i propri investimenti in ricerca, riguadagnando posizioni in Europa: eppure, egli denunciava come, con l’1,49% di rapporto tra spese per ricerca e PIL, fossimo (allora!) ancora indietro rispetto ai grandi partners europei. Oggi siamo all’1,1%, siamo tornati indietro, mentre non è chi non veda come l’investimento sul futuro della conoscenza sia più importante di tutto.
Un'ultima considerazione, che mi sta particolarmente a cuore, perchè a cuore mi sta l'approvazione del Trattato Costituzionale europeo. I trattati di Roma non prevedevano una politica europea della ricerca, anzi non prevedevano affatto la ricerca, mentre ad esempio, in ambiti affini, si parlava di armonizzazione dei titoli di studio. Solo con l'Atto Unico dell'86, per la prima volta, la ricerca diventa materia europea. Ruberti diventò Commissario pochi anni dopo ma a lui il disegno della costruzione dello Spazio Europeo della Ricerca era già chiaro. Se la ricerca entrò nell'Atto Unico, non così uno Spazio Europeo della Ricerca, che non vi entrerà nemmeno con il Tratto di Nizza del 2000, ben 14 anni dopo.
Lo prevede invece il testo del Trattato Costituzionale che al comma 1 dell'art.III-248, recita: "L'azione dell'Unione mira a rafforzare le sue basi scientifiche e tecnologiche con la realizzazione di uno spazio europeo della ricerca nel quale i ricercatori, le conoscenze scientifiche e tecnologiche circolino liberamente...". Ecco quindi che anche in questo campo l'approvazione del Trattato Costituzionale, in cui tanti di noi vedono un passo avanti indispensabile per tutti i popoli d’Europa, recherebbe un grande e duraturo beneficio.

on. Pia Locatelli – europarlamentare socialista

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