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ICHINO: un sindacato "europeo"
10.3.07

n.zoller@trentinoweb.it
INFO SOCIALISTA 10 Marzo 2007
a cura della segreteria regionale SDI, per i rapporti con l'azione nazionale dei
socialisti e del centro sinistra
tel. 338-2422592 - fax 0461-944880
Trento/Bolzano: www.socialistitrentini.it - www.socialisti.bz.it
Quindicinale - Anno 4°


SOMMARIO:

o UN LIBRO, per cominciare: Pietro Ichino, A che cosa serve il sindacato?
o UN NUOVO INIZIO PER I SOCIALISTI
o SI’ ALLA COSTITUENTE SOCIALISTA – LA MOZIONE DI ENRICO BOSELLI PER IL 5° CONGRESSO STRAORDINARIO S.D.I.




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UN LIBRO, per cominciare ("Tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro" Jor-ge L. Borges)

o Autore: Pietro Ichino
o Titolo: "A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino".
o Ed. Mondadori, 2005

PER UN SINDACATO SUL MODELLO SOCIALDEMOCRATICO EUROPEO CON CA-PACITÀ COOPERATIVA PIUTTOSTO CHE CONFLITTUALE

La rivista socialista MONDOPERAIO ospita sul numero di gennaio-febbraio 2007, da pochi giorni in distribuzione sotto il titolo tranciante "I sindacati: da risorsa a zavorra” una mia recensione al libro del professor Ichino.
In effetti Ichino propone di riformare il diritto del lavoro nell'interesse della parte più debole dei lavoratori e sostiene che il sindacato confederale debba avere un ruolo importante nel governo del mercato del lavoro; per far questo ci sarebbe bisogno di un sindacato in grado di assumere una maggiore capacità cooperativa piuttosto che un ruolo conflittuale, quella stessa capacità cooperativa e addirittura partecipativa pro-pria del modello socialdemocratico europeo (come avviene nella cogestione tedesca); mentre merita una seria riflessione l'abuso del diritto di sciopero specialmente nei servizi pubblici anche rammentando la posizione responsabile di sindacalisti “costituenti” come Foa e Di Vittorio.
Certo, se il sindacato non avverte queste necessità da "risorsa" diventerà "zavorra". Qui si capisce perché le posizioni apertamente riformiste di Ichino creino tanto dibattito.Molti di noi le sostengono convintame-ne. Purtroppo nell'area oltranzista finiscono per dare spazio addirittura a propositi di ritorsione violenta contro il coraggioso professore giuslavorista. (n.z.)

da MONDOPERAIO - "I sindacati: da risorsa a zavorra"/Nicola Zoller/ p. 114-117 – n. 1/2007

di Nicola Zoller

L’AUTORE
“A che cosa serve il sindacato? ” è l’opera recente di Pietro Ichino che ha suscitato un notevolissimo dibattito nel corso del 2006. Intanto diciamo dell’autore. Pietro Ichino (Milano 1949) è stato dirigente della Fiom-Cgil, responsabile dei servizi legali della Camera del lavoro di Milano e deputato al Parlamento del Pci. Professore di diritto del lavoro all’Università Statale di Milano ed editorialista del “Corriere della Sera”, ha scritto numerosi libri in materia di lavoro, rivolti anche al pubblico di non giuristi: Diritto del lavoro per i lavoratori (De Donato, 1975-77), Il collocamento im-possibile.Problemi e prospettive della riforma del mercato del lavoro (De Donato, 1982), Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro (Giuffrè, 1984-85), Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro (Giuffrè, 1989), Il lavoro e il mercato (Mondadori, 1996), Il contratto di lavoro (Giuffrè, 2000-2003), Lezioni di diritto del lavoro - Un approccio di labour law and economics (Giuffrè, 2004).
L’OPERA
E veniamo all’opera così come viene presentata dall’editore Mondadori. Nell'ottobre del 2000, proprio mentre la Fiat prendeva la decisione di chiudere lo stabilimento dell'Alfa Romeo di Arese, la casa automobilistica giapponese Nissan annunciava di voler produrre in Europa un suo nuovo modello destinato al mercato comunitario. Si candidarono un sito industriale spagnolo, uno francese e uno inglese. Da noi, invece, a candidare lo stabilimento di Arese, con i suoi duemi-la operai in procinto di perdere il posto, non ci pensò nessuno. Fu distrazione? No. Il sistema italiano dei rapporti di la-voro e sindacali non avrebbe neppure consentino di aprire una trattativa sulla base delle proposte della casa nipponica.
La gara venne vinta dalla Gran Bretagna. Bassi stipendi? Lavoro precario? Niente affatto: nello stabilimento inglese, scelto poi dalla Nissan, il lavoro è retribuito il doppio di quello dei metalmeccanici italiani, è sicuro e altamente qualifi-cato. Ma è regolato da un accordo sindacale incompatibile con il contratto collettivo italiano di settore. Così, mentre al-l'Alfa di Arese i lavoratori restano in cassa integrazione per anni e il nostro sindacato vagheggia un impossibile inter-vento pubblico che consenta di non mettere in discussione nulla del vecchio modello di relazioni industriali, il sindacato inglese negozia e accetta di sottoscrivere una scommessa comune con l'investitore straniero.
Pietro Ichino ripropone, come in una cronaca giornalistica, questa vicenda emblematica e alcune altre parimenti signifi-cative del difficile stato delle relazioni sindacali nell'Italia contemporanea, dal caso dell'Alitalia, dove le hostess si am-malano a comando per scioperare anche quando è proibito, a quello del ministro del Lavoro che appoggia il sindacato che le organizza; dalle agitazioni che paralizzano due volte al mese ferrovie e trasporti urbani all'incredibile vicenda de-gli uomini radar. E ne prende spunto per formulare una proposta di riforma molto chiara e semplice. Una riforma che assume anch'essa il carattere di una scommessa comune a tutte le parti responsabili del futuro economico dell'Italia. Perché il nostro paese non può uscire dal declino senza eliminare i fattori istituzionali e culturali che paralizzano il suo sistema di relazioni sindacali.
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RIFORMARE IL DIRITTO DEL LAVORO NELL’INTERESSE DELLA PARTE PIU’ DEBOLE DEI LAVO-RATORI
Ichino nella prefazione menziona il suo precedente saggio Il lavoro e il mercato ricordando che “i nostri legislatori e sindacalisti sono ancora lontani dall’essere pienamente consapevoli del fatto che la precarietà di una metà dei lavoratori italiani è conseguenza della iperprotezione dell’altra metà, ne è l’altra faccia; e che l’unica via per superare l’enorme sperequazione tra le due parti è quella di una redistribuzione delle tutele: dar vita a una rete di protezione essenziale e universale capace davvero di applicarsi a venti milioni di italiani e non soltanto a dieci, come accade oggi”. Si viene dunque al significato del nuovo libro: “Anche se troppo lentamente le idee comunque maturano. La cultura del lavoro italiano è ancora vischiosa, ma lo è per fortuna sempre meno, costretta com’è a confrontarsi sempre più apertamente con quella degli altri Paesi e in particolare di quelli più civili e avanzati del nostro su questo terreno. Vale dunque la pe-na di affrontare le fatica di un dibattito a tratti bloccato dai tabù e dagli esorcismi ideologici, per proseguire il lungo di-scorso sull’indispensabile profonda riforma del nostro diritto del lavoro; un discorso necessario nell’interesse della parte più debole dei lavoratori, di quei milioni che del diritto del lavoro attuale beneficiano poco o per nulla, oltre e prima che nell’interesse di tutta la collettività… Tema prevalente de Il lavoro e il mercato era l’assetto dei rapporti individuali e la disciplina del mercato del lavoro; in questo libro tema prevalente è invece l’assetto dei rapporti collettivi: la contratta-zione e la rappresentanza sindacale nelle aziende, lo sciopero, la possibilità di scelta dei lavoratori tra modelli più con-flittuali e modelli più cooperativi di rapporto con gli imprenditori, i fattori istituzionali che nel nostro Paese limitano indebitamente quella possibilità di scelta, per certi aspetti penalizzando l’approccio cooperativo, per altri favorendo ir-razionalmente quello conflittuale”.
RELAZIONI COOPERATIVE E RELAZIONI CONFLITTUALI : PERCHE PREVALGONO QUEST’ULTIME?
La nuova opera di Ichino si propone quindi di “fornire alcuni dati di natura giuridica che possono contribuire a spiegare perché in Italia il modello cooperativo e ancor più quello partecipativo abbiano vita più difficile che altrove, perché e come la nostra cultura giuslavoristica privilegi nettamente il modello conflittuale”. E precisa: “L’opzione per le rela-zioni sindacali di tipo cooperativo non è, di per sé, più di ‘destra’, né quella per il modello conflittuale più di ‘sinistra’. Prova ne sia che la storia delle relazioni industriali è ricca di esempi di sindacati politicamente orientati a sinistra impe-gnati con convinzione e per lunghi periodi in comportamenti tipicamente cooperativi, e di sindacati genuinamente apoli-tici – come molti sindacati autonomi operanti in Italia oggi nel settore dei servizi pubblici – impegnati stabilente in comportamenti conflittuali”.
Ora, osserva Ichino, “la nostra Costituzione garantisce, in linea di principio, diritto di cittadinanza a tutti i modelli di rapporto sindacale, in una gamma che va dai più conflittuali ai più cooperativi e in particolare ai più intensamente par-tecipativi. Garantisce inoltre diritto di cittadinanza a tutti i modelli di rapporto individuale di lavoro: da quello a più alto contenuto ‘assicurativo’, nel quale il lavoratore acquista il massimo di sicurezza dall’imprenditore pagando un ‘premio’ elevato e restando poco interessato al controllo dell’andamento dell’impresa, al modello a più alto contenuto partecipa-tivo, che nella sua versione integrale comporta per il lavoratore minore sicurezza, maggiore incentivo alla produttività – ma anche maggiore stress, maggiore possibilità di guadagno e maggiore coinvolgimento nell’andamento dell’impresa”.
Ma se in linea teorica esistono queste opzioni, in pratica – secondo la tesi di Ichino, come già accennato – “la cultura giuslavorista e la legislazione ordinaria affermatesi in Italia nell’ultimo mezzo secolo, nonché i contenuti della contrat-tazione collettiva nazionale, hanno finito per spingere il nostro sistema verso il polo delle relazioni conflittuali penaliz-zando nettamente i modelli più vicini al polo cooperativo e partecipativo”. La proposta nuova è quella di riformare que-sto meccanismo “per far sì che modelli diversi di rapporti sindacali e di lavoro, nella vasta gamma che si estende tra po-lo conflittuale e polo partecipativo, possano convivere e competere fra loro con pari opportunità ed essere sperimentati senza indebite penalizzazioni nell’ambito del nostro tessuto produttivo nazionale, in modo che lavoratori e imprese pos-sano confrontare costi e benefici e scegliere tra di essi secondo le circostanze”. In particolare Ichino osserva che “il di-vieto della contrattazione al livello aziendale in deroga rispetto allo standard nazionale si fonda sull’idea che la valuta-zione data dai sindacati nazionali stipulanti di ciò che è ‘meglio’ e ciò che è ‘peggio’ per i lavoratori sia in ogni caso più affidabile rispetto alla valutazione che ne danno i lavoratori stessi nel caso concreto, nel singolo posto di lavoro”. “E’ un’idea sbagliata” – ribatte Ichino: in ciò “ è evidente la limitazione del principio costituzionale del pluralismo sin-dacale prodotta dal ‘diritto vivente’ attuale, che di fatto affida la scelta dell’assetto del rapporto di lavoro alla contratta-zione collettiva nazionale” impedendo qualsiasi operatività alla contrattazione a livello inferiore. “E’ probabilmente op-portuno – segnala Ichino – che il contratto collettivo nazionale continui a costituire un punto di riferimento di carattere generale, come fonte della disciplina applicabile in assenza di altre fonti più vicine al caso concreto; ma dove un sinda-cato genuino, sorretto dalla maggioranza dei lavoratori di un’azienda, di una zona o di una regione, negozi con la con-troparte una disciplina diversa, non si vede perché non debba essere quest’ultima a prevalere”.
LA CAPACITA’ COOPERATIVA E’ UNA RISORSA FORMIDABILE COME IL RUOLO DEL SINDACATO CONFEDERALE NEL GOVERNO DEL MERCATO DEL LAVORO
Comunque sia, non si può affermare con certezza quale sia il modello di relazione migliore per i lavoratori, per l’economia e per la collettività nel suo complesso. “Una cosa però è certa – stabilisce Ichino -: che il conflitto riduce la ricchezza prodotta, mentre la capacità di accordarsi per investire insieme sul futuro – il lavoro da una parte, il capitale dall’altra – costituisce una risorsa competitiva formidabile. Oggi proprio il difetto di questa capacità costituisce una delle cause della minore capacità di competere delle nostre aziende nel mercato internazionale dei capitali. Se vogliamo tirare fuori l’economia italiana dalle secche in cui si sta arenando, imprenditori e lavoratori devono serrare i ranghi, evi-tare i costi del conflitto, recuperare al più presto la capacità di mettere credibilmente in comune tutte le informazioni di cui dispongono ed elaborare una visione condivisa dei vincoli su cui occorre fare i conti, in modo da potersi accordare su progetti coraggiosi di largo respiro: progetti fondati su di una ripartizione concordata dei costi e dei benefici, oltre che su di una solida affidabilità reciproca delle parti, almeno a medio termine. Se non ci sono – come oggi sembra – le condizioni perché questo avvenga al livello nazionale, è indispensabile creare le condizioni perché questo possa avveni-re almeno al livello delle singole aziende”.
Al proposito deve comunque restar chiaro che Ichino non ritaglia affatto un ruolo marginale o localistico per il sindaca-to. Avverte semmai l’importanza di un’azione a tutti i livelli – aziendale, territoriale, nazionale - ma vorrebbe affidare al sindacato confederale un ruolo che guardi al di là di interessi limitati. Non basta difendere i posti di lavoro esistenti, un sindacato moderno deve governare efficacemente il mercato del lavoro. Si può capire che difendere sempre e co-munque “il lavoro esistente così com’è” sia la strategia miope di un comitato di base o di un sindacato aziendale; “ma un sindacato confederale dovrebbe avere una visione generale dei problemi, essere capace di progettare e gestire gli strumenti di protezione degli interessi dei lavoratori anche al di fuori del singolo rapporto di lavoro e dei cancelli della singola azienda; capace, cioè, di operare efficacemente nel mercato del lavoro e non soltanto dentro le aziende. Si può capire il disinteresse e l’incompetenza di un comitato di base o di un sindacato aziendale circa i problemi del funziona-mento dei servizi ai lavoratori nel mercato; non il disinteresse e l’incompetenza di un sindacato confederale, che proprio sul buon funzionamento di quei servizi, sulla costruzione di reti estese ed efficienti di servizi nel mercato, dovrebbe co-stituire la conciliazione possibile tra l’interesse dei lavoratori alla sicurezza e quello vitale delle imprese alla possibilità di aggiustare la propria struttura in relazione al mutare continuo delle necessità oggettive”.
E’ PREFERIBILE IL PLURALISMO SINDACALE ALL’UNITA’ ORGANICA
Da queste considerazioni viene l’affondo ‘innovativo’ più vigoroso. Questa visione comporta relazioni sindacali nuove rispetto a quelle prevalenti nel passato. Se per anni Ichino e tanti altri con lui hanno considerato auspicabile l’unificazione organica tra le tre confederazioni sindacali, ora Ichino ritiene preferibile che Cgil da una parte e Cisl e Uil dall’altra “diano corpo con decisione e coerenza a una scelta alternativa; e che tra i due orientamenti si apra un civile confronto. Perché questo possa accadere è necessaria una cornice istituzionale in parte nuova, che renda possibile la competizione – oggi di fatto inibita – tra due o più modelli alternativi di sindacato e di relazioni industriali, in modo che il dissenso sia causa non di paralisi ma al contrario di una feconda varietà di esperienze concrete. Le tre confederazioni sindacali maggiori avrebbero la possibilità di costruire una nuova cornice direttamente, superando antichi tabù reciproci niente affatto insuperabili e stipulando un accordo-quadro con le maggiori confederazioni imprenditoriali; ma se non ne saranno capaci, dovrà essere il legislatore a creare la nuova cornice e a rimuovere gli ostacoli che oggi impediscono un vero ed effettivo pluralismo sindacale nel nostro Paese”.
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UNA SERIA RIFLESSIONE SULL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI SCIOPERO RICORDANDO I PADRI COSTITUENTI
Venendo alla parte centrale del libro, la questione qui sollevata è una seria la riflessione sull’esercizio del diritto di sciopero. Ichino ricorda le parole pronunciate dal leader sindacale Giuseppe Di Vittorio all’Assemblea costituente nel momento solenne in cui veniva introdotta per la prima volta la garanzia costituzionale del diritto di sciopero: “Noi oggi cerchiamo di evitare al massimo, nella misura del possibile, degli scioperi in regime democratico e repubblicano, perché noi desideriamo concorrere, con tutte le nostre forze, a consolidare e sviluppare lo Stato democratico e repubblicano”. Interveniva anche Vittorio Foa con questo taglio: “L’impronta con la quale il diritto di sciopero rinasce nella legisla-zione italiana, dopo tanti anni di divieto, la solennità con la quale rinasce è tale, il senso di misura e il senso di fiducia sono tali, che noi possiamo augurarci che questo senso di misura e di fiducia presieda all’esercizio del diritto di sciopero negli anni futuri”.
Cosa è avvenuto in realtà? Annota Ichino: “Quella concezione dello sciopero come strumento di lotta cui fare ricorso con grande misura e parsimonia, come evento eccezionale in un sistema di relazioni sindacali tendente a creare e man-tenere un quadro di cooperazione tra produttori, si è persa per strada”; si è imposto un modello di relazioni sindacali conflittuale. Eppure, si domanda Ichino, “non è forse proprio negoziando validamente e credibilmente l’astensione dal conflitto che il sindacato può ottenere in cambio le migliori condizioni di lavoro per i propri rappresentati?”.

La ricerca di Ichino va oltre. Egli rammenta che quando alla Costituente – con la responsabile posizione espressa da pa-dri costituenti come Di Vittorio e Foa – si scelse di assegnare un rango costituzionale al diritto di sciopero lo si fece perché “si voleva escludere che l’obbligazione contrattuale di lavoro potesse privare totalmente il lavoratore della sua signoria sul lavoro stesso, affermando la libertà di rifiutarlo, sia pure al costo della perdita del corrispettivo, nella sola forma allora conosciuta, ovvero quella della protesta collettiva. Questo spiega l’aura di universalità e intangibilità – quasi sacralità – di cui questo diritto è stato circondato per lungo tempo nella nostra cultura giuslavoristica, come sigillo della diversità del contratto di lavoro rispetto agli altri, della non riducibilità del lavoro a merce”.
Ma cosa succede a tale “sacralità”, quando è un gruppo di lavoratori che con lo sciopero crea un danno non tanto o non solo al datore di lavoro ma ad un altro gruppo di lavoratori o alla più vasta collettività, come palpabilmente avviene con lo sciopero nei pubblici servizi e in altri settori cruciali?
In questo quadro si spiega “la non universalità del riconoscimento del diritto di sciopero negli ordinamenti democratici e la perdita progressiva, in epoca recente, del carattere di universalità e assolotezza della tutela di questo diritto anche nel nostro ordinamento nazionale”. Sul punto vale la pena di riandare ancora alle parole premonitrici di Di Vittorio, sempre all’Assemblea costituente, quando a proposito dello sciopero nei pubblici servizi aveva sottolineato la necessità di una “remora che ne freni l’uso e ne eviti gli abusi” sostenendo che essa debba consistere essenzialmente “nella co-scienza civica degli stessi lavoratori dei servizi pubblici, i quali sono consapevoli delle conseguenze particolarmente gravi del loro sciopero. Un'altra remora spontanea è costituita dall’interesse che hanno i lavoratori di altre branche di lavoro di evitarne gli abusi (dato che sarebbero fra i danneggiati) e che sono rappresentati dalla stessa organizzazione sindacale”. Di Vittorio avvertiva infine che “la Confederazione generale italiana del lavoro ha sancito spontaneamente nel proprio statuto sociale il principio che lo sciopero nei servizi pubblici sia da evitare in tutta la misura del possibile”.
Non ci si può quindi non stupire quando nel dibattito italiano di oggi – a 60 anni dalle sagge parole del grande sindaca-lista – si continuano ad alzare barricate per consentire scioperi senza limiti nei servizi pubblici.

Pietro Ichino scende più nello specifico quando avanza le seguenti proposte che potrebbero attuarsi grazie ad una autori-forma tra le parti “anche a legislazione invariata”.
1) La clausola di tregua come vincolo per chi gode dei benefici del contratto collettivo. “Non è giusto – sostiene Ichino – consentire che un lavoratore si consideri ‘confederale’ quando si tratta di beneficiare del contratto col-lettivo, ma si consideri ‘autonomo’ quando si tratta di aderire allo sciopero proclamato da un comitato di base o da un sindacato minoritario contro le scelte operate dai sindacati confederali”.
2) L’applicazione della regola maggioritaria per la proclamazione delle sciopero, che quindi potrebbe essere in-detto da una coalizione sindacale effettivamente maggioritaria nell’azienda o nel settore oppure dalla maggio-ranza dei lavoratori interessati mediante un referendum.
3) L’obbligo di informazione preventiva circa la partecipazione allo sciopero dei singoli lavoratori specificata-mente nei pubblici servizi per consentire ai gestori dei servizi stessi di informare gli utenti degli effetti dello sciopero con almeno 5 giorni di anticipo.

Uno spazio specifico merita la proposta dello sciopero virtuale o solidale. Se il sindacato opta per questa innovativa forma di lotta “durante il periodo di agitazione – spiega Ichino – il servizio viene svolto regolarmente, ma i lavoratori che vi aderiscono rinunciano alle proprie retribuzioni e l’azienda si obbliga a devolvere a un’iniziativa socialmente utile una somma pari a un multiplo dell’ammontare delle retribuzioni stesse. In altre parole, i lavoratori esercitano la propria pressione sulla controparte in modo diretto, incidendo immediatamente sul suo bilancio, e non in modo indiretto (come avviene nei servizi pubblici) prendendo in ostaggio gli utenti, la collettività”. Naturalmente occorrono buone ragioni da far valere, che reggano bene il confronto con la controparte; ci vuole un maggior grado di consapevolezza, di condivi-sione degli obiettivi e di determinazione a conseguirli da parte dei singoli lavoratori. “Lo sciopero virtuale – commenta Ichino – non è una forma di lotta adatta a sindacati deboli, a lavoratori opportunisti. L’essere capaci di ricorrervi costi-tuisce prova di un impegno morale e politico che è ancora dato di trovare diffusamente nel sindacato confederale, assai più raramente nei sindacati autonomi”.
FORTUNATI QUELLI CHE SONO CAPACI DI COOPERARE
Il sugo – per usare un termine manzoniano - della ricerca di Ichino è in queste sue parole conclusive: La fortuna di un popolo non sta principalmente nei beni di cui dispone, ma nella coesione tra le sue parti, nella loro capacità di dividersi il lavoro e concordare la distribuzione dei frutti; litigando, magari, ma sempre nella consapevolezza che non c’è futuro per nessuno se non insieme agli altri… Fa parte della ricchezza di tutti anche un sistema di relazioni sindacali capace di realizzare il buon contemperamento degli interessi collettivi in gioco, sulla base di una visione condivisa dei vincoli ge-nerali, ma anche di un disegno di giustizia sociale da costruire progressivamente, perché tutti siano partecipi dei guada-gni.

Nicola Zoller

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UN NUOVO INIZIO PER I SOCIALISTI

Anche in Trentino-Alto Adige i socialisti si stanno preparando al confronto congressuale in vista di un im-portante appuntamento nazionale. Infatti dal 13 al 15 aprile 2007 si svolgerà il congresso straordinario dei Socialisti aderenti allo SDI che prospetta la formazione anche in Italia di una più ampia area politica e parti-tica che abbia nel nome e nei fatti il diretto riferimento al Partito socialista europeo-Pse. Lo SDI in questi anni ha provato a creare "una nuova forza riformista nella quale la presenza socialista abbia un valore e un ruolo autonomo". Ora ci troviamo di fronte alla ipotizzata creazione di un partito democratico che purtroppo sempre più appare la sommatoria dei gruppi dirigenti di DS e Margherita, una sorta di compromesso storico "bonsai" con un orizzonte incerto e limitato sui temi della collocazione europea (con i centristi o con il Pse?) e della laicità dello Stato. Ecco perché a maggior ragione i socialisti fanno appello a tutti coloro che nella sinistra e nel mondo laico non si rassegnano a confluire in un tale "partito democratico" e preferiscono lavo-rare per costruire una forza che chiaramente si richiami ai valori del socialismo riformista e liberale europeo. In tal senso si sarà più utili al centrosinistra anche in Italia.

SDI – REGIONALE TRENTINO ALTO ADIGE

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SI’ ALLA COSTITUENTE SOCIALISTA
Congresso straordinario il 13 aprile

Un congresso straordinario, il quinto, a Fiuggi dal 13 al 15 aprile per decidere la direzione di marcia del par-tito in una fase politica delicata e con tante incertezze per il futuro”, il rilancio del dialogo con tutta l’area della diaspora socialista “con il Nuovo Psi di Gianni De Michelis e con i socialisti di Bobo Craxi” per avvia-re “un processo aperto a tutte quelle componenti progressiste, dai liberali riformatori agli ambientalisti rifor-misti, che non si ritrovano nel Partito democratico così come Fassino e Rutelli lo stanno costruendo”. Così ha esordito il segretario dello Sdi Enrico Boselli nel corso del Consiglio Nazionale del partito, illustrando la sua mozione congressuale, spiegando il no al Partito democratico e il sì a una Costituente socialista. Contraria-mente a quanto ci si aspettava, non ci saranno altre mozioni oltre quella presentata da Boselli. Il Consiglio Nazionale ha approvato all'unanimità la data del congresso, la nomina per la commissione per le norme con-gressuali, e il tesseramento con due astenuti e un contrario.


CON LA BUSSOLA SOCIALISTA
Mozione presentata da Enrico Boselli

Il socialismo italiano ha varcato il secolo XXI per l’azione e la passione di chi, tra tante vicende drammati-che e con tanti sacrifici personali, si è pervicacemente impegnato a mantenere vivo ed autonomo un movi-mento politico tra i più importanti della storia d’Italia. Se questa impresa che poteva apparire impossibile in una situazione nella quale i socialisti erano accerchiati dalla diffidenza o se non peggio dalla denigrazione è stata portata avanti, il principale merito spetta allo SDI che ha continuato a rappresentare nella sinistra italia-na, nell’Internazionale Socialista e nel Partito socialista europeo una fondamentale tradizione politica. Ab-biamo cercato di sviluppare la grande eredità dei nostri padri che fin dalla fondazione del partito alla fine dell’Ottocento combattevano per la causa della classe operaia e bracciantile e per quella del popolo più umile e diseredato, dando una speranza di un futuro migliore a chi non ce l’aveva. Questa storia dei socialisti è sta-to ricca di apporti e di contributi: il libertarismo di Andrea Costa che ha raccolto il meglio della tradizione degli anarchici italiani; il riformismo di Filippo Turati che ha indicato la via da seguire per il socialismo ita-liano; il femminismo d’avanguardia di Anna Kulisciov che ha sostenuto il ruolo della donna in una condizio-ne di assoluta parità con l’uomo; il municipalismo e il rigore morale di un martire, come Giacomo Matteotti, che ha posto nel suo grande significato l’esperienza amministrativa delle comunità locali e ha esaltato il va-lore ideale della politica; il liberalsocialismo di Carlo e Nello Rosselli che hanno costruito un ponte ideale con i liberali riformatori, come sono stati Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Guido Calogero, Piero Cala-mandrei e Norberto Bobbio; il federalismo europeo di Eugenio Colorni che, con la sua partecipazione all’elaborazione del ‘Manifesto di Ventotene’ ha lanciato l’idea degli Stati Uniti d’Europa; il sindacalismo riformista di Bruno Buozzi che ha sempre lottato per l’unità del mondo del lavoro; la socialdemocrazia euro-pea di Giuseppe Saragat che è stato il rifondatore italiano dell’Internazionale socialista a Francoforte nel 1951; l’idealità e la concretezza che deve avere la politica impersonata da Pietro Nenni che è diventato il simbolo di tutta la storia socialista; l’antifascismo di Sandro Pertini che è stato un eroe della Resistenza e il presidente della Repubblica più amato dagli italiani; la grande capacità strategica e programmatica di Ric-cardo Lombardi che fu uno dei principali ideatori del centro sinistra, la ricerca dell’unità del movimento ope-raio da parte di Francesco De Martino che s’impegnò sempre per far approdare la sinistra al riformismo; il meridionalismo di Giacomo Mancini che fece della battaglia per il Sud il suo principale obiettivo; le iniziati-ve per l’ampliamento dei diritti civili di Loris Fortuna che hanno portato, assieme a Marco Pannella, all’introduzione del divorzio e dell’aborto in Italia; l’opera di modernizzazione di Bettino Craxi che ha cerca-to di rinnovare la sinistra e affermare nel nostro Paese un grande spirito d’innovazione. E’ trascorso più di un secolo.
Il mondo è cambiato. Senza i socialisti l’Italia non sarebbe diventata un paese moderno e civile. Ma ancora ci sono molte cose da fare, da riformare e da innovare e per riuscire a farlo occorrono ancora una volta i sociali-sti. Come SDI abbiamo avuto alleanze politiche e progetti comuni con tutti i riformisti italiani, dai cristiani democratici di sinistra ai liberali riformatore, agli ambientalisti e ai radicali, ma non abbiamo mai perso la bussola del socialismo europeo ed internazionale. Nello svolgere il nostro Congresso a Fiuggi, i socialisti non si apprestano a concludere, ma a continuare quella che una delle più belle storie d’Italia
Le rivoluzioni in corso
Le trasformazioni in atto nelle società contemporanee richiedono una sempre maggiore capacità di innova-zione.
I nuovi fenomeni si presentano con la caratteristica di vere e proprie rivoluzioni: la diffusione e crescita delle tecnologie informatiche; la sempre più radicale riduzione delle distanze geografiche e le conseguenze di tale riduzione in ambito economico e politico (crisi dello stato-nazione); le progressive scoperte scientifiche nel campo delle bio e delle nano-tecnologie; l’aumento incontrollato della popolazione; le massicce migrazioni e la trasformazione delle nostre società, sempre più multietniche e multireligiose; l’aumento delle disparità so-ciali, legato da un lato alla crisi dei modelli classici di stato sociale, dall’altro alle trasformazioni profonde del mondo del lavoro, progressivamente spogliato dalle sue indispensabili tutele; infine, i preoccupanti cam-biamenti climatici e ambientali. Siamo di fronte a processi che impongono alla politica un vero e proprio mu-tamento di paradigma, e non solo un adattamento della nostra visione della società. Come è accaduto agli al-bori del capitalismo industriale, una fase nuova è sempre segnata da resistenze, antagonismi, ritorni all’indietro. Ci troviamo di fronte ad un mondo che avanza e nel quale però non automaticamente vi sarà più libertà, più giustizia sociale, più benessere, più sicurezza e più pace. Anzi, nel corso di una rapida accelera-zione del cambiamento, aumentano vertiginosamente le disuguaglianze sociali, si restringono e si spostano i centri di decisione e vi è una acutizzazione dei conflitti sociali, interetnici, religiosi e geopolitici.
Tuttavia, sarebbe un errore colossale fare un’opera di pura resistenza al cambiamento. Si tratta invece di mu-tamenti che, se contrastati nelle loro derive negative, possono determinare un miglioramento delle condizioni di vita su scala planetaria. In questo contesto è difficile segnare linee di demarcazione tra chi è l’alleato e chi è l’avversario, come è avvenuto con le concezioni più semplicistiche della lotta di classe tra proletari e capi-talisti. È lo stesso carattere che assumono le trasformazioni in atto a rendere i movimenti della politica assai più complessi. Le semplificazioni, come quella della lotta alle multinazionali, ripropongono in una nuova ve-ste antichi schemi ideologici come quello della lotta antimperialistica. In realtà, non esistono poteri buoni e poteri cattivi: ciò che conta è che qualsiasi potere sia bilanciato da pesi e contrappesi, muoversi secondo cri-teri di trasparenza e senza violare le regole.
È cambiata, inoltre, la scala dei valori e degli interessi. Le cittadine e i cittadini non avvertono più come e-sclusiva la dimensione del lavoro, ma sono sempre più interessati a tutti gli aspetti che concernono la qualità della vita, la salute, il sesso, la famiglia, le conoscenze reciproche, la comunicazione. Non si può pensare di costruire un blocco sociale che si contrapponga ad un altro. Le classi, i ceti, le differenze professionali, gli orientamenti valoriali e sessuali fanno parte di una società che, e non a torto, è stata definita “liquida” per il superamento delle rigidità conosciute nel secolo scorso. Si tratta, invece, di rivolgersi a tutti sulla base di o-biettivi che non assomiglino ad un libro dei sogni, ma costituiscano i cardini essenziali di un programma di governo. Come è accaduto già altre volte, di fronte a processi che mettono in crisi tradizioni, morale, costumi e stili di vita, si determinano forti reazioni che vogliono bloccare qualsiasi novità perché in contraddizione con apparati cristallizzati di tipo dottrinale. Contro i segni positivi che emergono dalle trasformazioni in atto, si ergono da più parti fondamentalismi ideologici e religiosi di vario tipo, che si presentano come i difensori di un mondo fatto di antiche certezze ormai destinate ad andare in frantumi.
Dopo l’11 settembre una nuova epoca
Su scala planetaria, dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo, è emerso un nuovo pericolo costi-tuito dal fondamentalismo islamico e dalle sue ramificazioni terroristiche. Con l’11 settembre si è verificato un punto di svolta su scala planetaria. Le risposte date dall’amministrazione Bush si sono fondate su azioni unilaterali, senza un adeguato coinvolgimento preventivo delle Nazioni Unite. L’approccio multilaterale se-guito nel caso dell’Afghanistan, purtroppo, non è stato adottato anche nel caso dell’Iraq. Si tratta invece di un approccio che deve essere seguito sempre, senza eccezioni. La lotta al terrorismo è un impegno collettivo della comunità internazionale. Non si può escludere in assoluto il ricorso all’uso della forza, ma il terrorismo si contrasta innanzitutto con l’isolamento politico e con la soluzione dei problemi delle aree esposte a mag-giori tensioni e crisi, come in Medio Oriente per quanto riguarda il contenzioso israeliano-palestinese. Oc-corre tuttavia essere consapevoli che, nel caso del terrorismo di matrice islamica, le cause non possono esse-re ricondotte unicamente all’irrisolto problema palestinese o a locali fenomeni di disagio politico, economico e sociale, ma anche ad un fondamentale e più generale problema di adattamento di alcune correnti dell’Islam alla modernità. In questo contesto, Israele si trova oggi in una situazione di gravissima difficoltà, dovuta es-senzialmente a due variabili: le imprevedibili conseguenze della crisi senza fine in Iraq, ed il fattore demo-grafico legato alla crescita della popolazione palestinese nei territori occupati e nello stesso Stato di Israele. Vi sono due popoli che hanno entrambi ragioni da far valere: va garantito non solo il diritto all’esistenza ma anche alla sicurezza per lo Stato di Israele; ma questa aspirazione è indissolubilmente legata alla creazione di uno Stato palestinese vitale, indipendente e con continuità geografica. Preoccupazione suscita la politica del governo iraniano, che non si limita ad odiosi proclami antisemiti, ma che non offre le adeguate garanzie circa la natura veramente pacifica del suo programma nucleare. Nei confronti dell’Iran vanno utilizzati innanzitut-to tutti gli strumenti della pressione politica e diplomatica, senza tuttavia rinunciare al dialogo. Sarebbe, in-vece, assai pericoloso mettere in opera un attacco aereo sulle centrali nucleari, come stanno ipotizzando la Casa Bianca e il Pentagono.
Dopo gli strappi del governo Berlusconi, il nostro paese è tornato a guardare all’Europa come il punto di rife-rimento primario. L’Italia sta svolgendo un ruolo di notevole importanza nella regione mediorientale, a co-minciare dalla presenza delle nostre forze armate in Libano. La conferma del nostro impegno in Afghanistan e lo stesso ampliamento della base militare di Vicenza, scelte contestate dall’estrema sinistra in nome soprat-tutto dell’antiamericanismo, dimostrano che è possibile, anche in dissenso con alcune scelte dell’amministrazione Bush, condurre comunque una politica di cooperazione con gli Stati Uniti, ai quali siamo in ogni caso legati, a prescindere dalle maggioranze politiche e dai Governi, da una serie di valori condivisi. Su questi come su altri temi l’Europa, un’Europa veramente unita, può fare la differenza facendo valere sia nell’ambito del cruciale rapporto transatlantico con gli Stati Uniti, sia nelle diverse crisi regionali, il proprio patrimonio di valori e di cultura politica. Solo se i paesi europei saranno in grado di ritrovare le ra-gioni fondamentali della costruzione europeista, dopo le battute d’arresto dei referendum francese e olande-se, l’Europa sarà in grado di giocare nell’arena mondiale quel ruolo che giustamente le spetta e che la stra-grande maggioranza dei paesi del mondo sollecita e reclama. In un mondo nel quale si riaffaccia la barbarie del terrorismo, ma dove talvolta gli strumenti per contrastare tale fenomeno violano la nostra cultura e civiltà giuridica, la difesa dei diritti umani assume sempre più una valenza prioritaria. La campagna per la moratoria per la pena di morte costituisce un forte impegno morale e politico, una grande battaglia di civiltà, di cui l’Italia si è di nuovo fatta interprete dinanzi alle Nazioni Unite. I socialisti non hanno mai fatto mancare la propria solidarietà a chi è oppresso da dittature e da sistemi totalitari. Ciò che valeva per le dittature reazio-narie e i regimi comunisti dell’est europeo vale oggi per quasi tutti i paesi islamici, per quelli asiatici, tra cui la Cina, e per altri in via di sviluppo. La diffusione dei commerci e della globalizzazione non contrasta con questa impostazione. Attraverso l’intensificazione degli scambi, si favorisce una diffusione di informazioni e di relazioni, che può provocare un allentamento delle azioni repressive contro il dissenso politico e favorire il dialogo che, seppur perseguito a fini egoistici, risulta poi socialmente benefico.
Il commercio può essere un veicolo di libertà. I diritti umani non negoziabili della persona valgono all’Est come all’Ovest, al Nord come al Sud. Non si può efficacemente difendere la democrazia liberale se ne ven-gono calpestati i principi fondamentali, come accade a Guantanamo (e altrove), dove vi sono reclusi senza alcuna delle garanzie basilari del nostro patrimonio giuridico. La tutela dei diritti umani è un esempio di co-me il relativismo culturale non implichi relativismo etico: anzi, l'etica laica, assunta da credenti e non creden-ti come riferimento nella sfera pubblica, conduce a principi non contrattabili pur essendo fondata sulla ragio-ne. Non possono essere dimenticati i problemi della salvaguardia dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, con i quali siamo inevitabilmente chiamati a confrontarci. Sono questi i temi in cui probabilmente, negli anni a venire, ci verranno chiesti i sacrifici maggiori, nella consapevolezza che essi saranno cruciali per assicurare la salvezza del nostro pianeta. Gli strumenti e i rimedi esistono già, si tratta di avere la determinazione ed il coraggio per attuarli.

Le virtù e i vizi dell’Italia
In un’età di incertezza e insicurezza, ridare fiducia è il principale compito che spetta a tutte le forze democra-tiche. Infondere ottimismo nei cittadini è la vera sfida del riformismo, proprio perchè trasformare le fragilità in paura è la più insidiosa strategia del conservatorismo. Si tratta di un’impresa che in Italia non sembra alla portata delle classi dirigenti, sia al governo come all’opposizione. Il centro sinistra, che ha vinto con uno scarto minimo le elezioni, è diviso politicamente ed è privo di una comune volontà di cambiamento. L’opposizione è altrettanto frazionata e vive con un profondo travaglio il lento tramonto, troppo presto an-nunciato, della leadership di Berlusconi. Dopo il collasso del vecchio sistema politico, si è diffusa una sfidu-cia profonda verso i partiti, che non ha equivalenti negli altri paesi dell’Europa occidentale. Non c’è campa-gna promossa contro la classe politica, i suoi privilegi veri e presunti, i suoi difetti e le sue incapacità, che non raccolga un grande favore popolare. Nonostante il grande afflusso di elettrici e di elettori alle urne, con primati da record in Europa, il rapporto di cittadine e cittadini con le istituzioni rappresentative non è mai stato così difficile. Tuttavia, il rilievo dato ai problemi personali non costituisce una riscoperta del valore del-la responsabilità individuale, ma è sovente espressione di un rinnovato arroccamento a difesa di interessi corporativi, localistici e familistici, che costituiscono mali secolari dell’Italia. Manca una piena consapevo-lezza dell’appartenenza ad una comunità nazionale. Persiste una contrapposizione tra il proprio interesse e-goistico e quello generale. Il particolarismo, che ha pesato sempre sull’Italia e che ci ha fatto arrivare con se-coli di ritardo all’unità nazionale, è ancora il fattore dominante e condizionante il progresso della nostra so-cietà. Eppure le caratteristiche dell’Italia, il paese dei mille campanili, non sono solo difetti, ma anche grandi potenzialità. Le nostre città a dimensione umana non sono solo forti fattori di tenuta sociale di fronte alla cri-si delle megalopoli, ma anche comunità nelle quali si esprime una grande vivacità culturale. La rete delle piccole e medie imprese, che sono una caratteristica fondamentale dell’economia italiana, ha assicurato un alto grado di flessibilità prezioso per affrontare il mercato. Allo stesso modo, il grande valore del nostro pa-trimonio artistico e naturale costituisce una risorsa fondamentale. Tuttavia, di fronte alle grandi trasforma-zioni in atto, l’Italia appare un paese nel quale non vi è lo slancio necessario per affrontare le nuove sfide. È in ritardo la politica, così distante dall’Europa occidentale, di cui l’Italia ha sempre fatto parte. È in affanno l’economia, che troppo lentamente si allontana da una produzione basata su settori tradizionali. Riesce a do-minare la scena dei commerci internazionali la moda e ad essere presente nel mercato la nostra originalità ar-chitettonica. Le piccole e medie imprese, tranne lodevoli eccezioni, non riescono a mettersi insieme per so-stenere gli investimenti necessari alla ricerca e dotarsi di consistente risorse finanziarie. Nel campo delle nuove tecnologie non riusciamo a svolgere alcun ruolo se non quello di consumatori. La struttura dei grandi gruppi industriali è ancora fondata prevalentemente su basi familiari, quasi le stesse del secolo passato; per di più, viviamo il retaggio di un capitalismo assistito, affiancato da un’industria pubblica e a partecipazione sta-tale che spesso ha rappresentato l’unico asse delle sfide economiche del nostro Paese. Di fronte ad un cam-biamento così rapido e incessante, che è avvenuto dopo il crollo del Muro di Berlino, l’Italia ha chiuso un capitolo della propria storia senza avere la forze, e forse il coraggio, di aprirne uno completamente nuovo.
Laicità e diritti civili
Il ruolo della Chiesa come potere temporale, a differenza degli altri paesi europei, come la Francia o la Ger-mania, grava ancora sul destino del nostro paese. Anche la Spagna, grazie all’iniziativa di Zapatero, si è e-mancipata dalla sorveglianza speciale delle gerarchie ecclesiastiche. In Italia la laicità fa ancora scandalo, e viene retrocessa a “laicismo” di sparuti drappelli anticattolici. Basti pensare a come è stata trattata la posizio-ne del gruppo parlamentare della Rosa nel Pugno in occasione della scorsa finanziaria, in favore dell’avvio di rapporti più corretti tra la Chiesa e lo Stato, attraverso, ad esempio, l'eliminazione di ingiuste esenzioni fisca-li per le attività commerciali o l'attribuzione allo Stato dell'8 per mille di quei contribuenti che non esprimo-no alcuna preferenza, provvedimenti prontamente rifiutati anche dalla nostra maggioranza. La battaglia per l’estensione dei diritti civili, sulla ricerca, sul contrasto del mercato della droga deve essere portata avanti sulla base di alcuni punti fondamentali: - semplificazione delle procedure e riduzione dei tempi per ottenere il divorzio; - riconoscimento delle Unioni di fatto dello stesso sesso o di sesso diverso: - possibilità di ricorso all’aborto farmacologico; - libertà della ricerca scientifica e di procreazione medicalmente assistita sul mo-dello britannico; - eutanasia e testamento biologico: legalizzazione, regolamentazione e controllo della som-ministrazione, nei casi terminali, di farmaci contro il dolore anche se ad elevato rischio, interruzione del mantenimento artificiale in vita, nei casi di coma profondo e irreversibile e comunque in quelli in cui non vi sia un ulteriore aspettativa di vita che non sia puramente vegetativa: la scelta deve essere espressamente indi-cata in un apposito testamento biologico da prevedere per ogni cittadino; - legalizzazione dei derivati della cannabis e sperimentazione della somministrazione controllata dell’eroina come avviene in Olanda e in Sviz-zera; - prostituzione: legalizzazione, regolamentazione e controllo..
La stessa questione, posta da socialisti e radicali, di una abolizione del Concordato, che è stata interpretata strumentalmente come un attacco alla Chiesa cattolica, nasce dalla constatazione che in una democrazia libe-rale, come è la nostra, dove non può esistere una religione di Stato, la libertà di culto è già assicurata da una più generale libertà di espressione. Solo così si ha “Libera Chiesa e libero Stato” .
La sinistra riformista è in crisi
Questa arretratezza culturale e politica dell’Italia, che ha lontane e forti radici storiche, ha sinora impedito l’affermazione di forze politiche di ispirazione socialista, come di quelle di impronta liberale. La geografia politica italiana durante la storia della Repubblica è stata sempre diversa da quella delle grandi democrazie occidentali. Lo era ieri, lo è oggi. Nonostante siano esistite correnti liberali e socialiste di grande vivacità culturale, il nostro Paese è stato, e per troppo tempo, dominato da un cattolicesimo integralista, pervasivo della nostra cultura e della nostra politica, come di un comunismo che si presentava con una forza ideologica totalizzante tale da sfidare quella della Chiesa. Di questa lettura, espressa per altro in chiave positiva, si fece interprete un cattolico e comunista come Franco Rodano. È vero, pur tuttavia, che nel mondo cattolico sono emerse personalità, come quella di Alcide De Gasperi, che si sono impegnate a legare la sorte dell’Italia a quella delle altre democrazie europee e americana. Le fortune politiche ed elettorali del Pci sono sicuramente dovute al realismo togliattiano che, pur mantenendo un legame di ferro con l’Unione sovietica, si è adattato strettamente al terreno culturale nel quale l’Italia si è sempre adagiata. La formula berlingueriana, che de-scriveva il Pci come un partito insieme conservatore e rivoluzionario, dà ancora oggi una interpretazione as-sai efficace di quello che è stato l’approccio togliattiano. Se il vecchio sistema politico è andato in crisi, non si sono neppure poste le premesse per arrivare a un nuovo assetto. Le antiche forze politiche si sono divise e talune, come i socialisti, disperse. È venuta meno la stessa tenuta istituzionale del nostro sistema. La rivolu-zione giudiziaria non si poteva concludere e non si è conclusa con la nascita di un sistema politico più sano e trasparente e con un effettivo ricambio delle classi dirigenti, ma ha aperto un processo convulso che da una parte ha aperto le porte al populismo berlusconiano, dall’altra ha provocato una frantumazione politica senza precedenti. Non si è avuta quella evoluzione, che pure da tanto tempo ci si aspettava, la creazione cioè di un grande partito socialdemocratico di tipo europeo, formato in primo luogo dal Psi, dal Psdi e dalla maggioran-za del Pci da un lato, e di un partito cristiano democratico dall’altro, secondo uno schema simile alla Germa-nia. E la responsabilità è in primo luogo della sinistra e dei suoi leader. Craxi, pur essendo stato protagonista di grandi innovazioni, non ha compreso la portata dei rivolgimenti dell’Ottantanove, come Nenni non capì quelli del ’48. Occhetto, pur avendo capito la necessità di una rottura con il comunismo, ha pensato di co-struire le sue fortune sulla distruzione di tutti i partiti che avevano sino ad allora governato, compresi il Psi e il Psdi. La dura replica della storia è che oggi la sinistra riformista si riduce ai Ds, che hanno qualche punto in percentuale in più del Psi di Craxi, e allo Sdi, che ha un po’ meno del peso elettorale del Psdi. È stata que-sta situazione della sinistra riformista, che da sola non è in grado di offrire un’alternativa di governo, a porta-re, in funzione antiberlusconiana, ad un’alleanza assai larga ed eterogenea, che va dall’estrema sinistra co-munista agli eredi della sinistra democristiana, capace di vincere ma non di governare.
Un compromesso storico bonsai
È in questa situazione che è stato concepito il progetto dell’Ulivo. Al fondo di questa idea c’è stata l’aspirazione a superare le persistenti anomalie della politica italiana. Si trattava di un’operazione che non puntava a rincollare i vecchi cocci, ma a costruire una novità politica di straordinario rilievo. Di questo pro-getto la creazione della Margherita costituiva un momento fondamentale. Il centro sinistra, rappresentato da una Quercia contornata da cespugli, non poteva avere grandi capacità di attrazione, soprattutto nell’elettorato di centro, determinante in un sistema bipolare per far pesare il piatto della bilancia da una parte o dall’altra. Le ripetute crisi del Ppi facevano ipotizzare una scomparsa salutare di un partito cattolico, ma ponevano il problema di come utilizzare in chiave laica le energie intellettuali e politiche che questo straordinario supe-ramento di un approccio religioso alla politica sprigionava. Si trattava, quindi, di costruire una nuova casa nella quale si potessero ritrovare riformisti di diversa provenienza, dai liberali progressisti ai cristiani demo-cratici di sinistra, agli ambientalisti e ai socialisti. Questa nuova formazione non doveva però essere fine a se stessa, ma divenire il prototipo di un grande partito riformista che comprendesse anche i Ds. Sin dall’inizio, però, questa operazione ha mostrato i suoi limiti. La Margherita è apparsa sin dalla sua fondazione un partito troppo segnato da una larghissima presenza della sinistra postdemocristiana, a cui si contrapponeva una scar-sissima incidenza delle altre componenti riformiste. Il fattore fondamentale che avrebbe dovuto impedire alla Margherita di diventare un nuovo partito cattolico era costituito dalla guida di Rutelli che non veniva dalla storia della Dc e che aveva allora un profilo nettamente laico, pur avendo da qualche tempo dichiarato di es-sere cattolico. È stato invece proprio Rutelli, per emanciparsi da Prodi e acquisire un controllo del nuovo par-tito, a sospingere la Margherita verso lidi confessionali. Questo processo ha avuto la sua fase più significati-va, e in un certo senso conclusiva, con l’adesione di Rutelli all’invito fatto dal presidente della Cei, cardinale Ruini, ad astenersi dall’andare a votare per il referendum sulla fecondazione assistita. Con questo atto, sia pur allora formulato a titolo personale, si è consumata la trasformazione della Margherita in partito cattolico. Con questa scelta è entrato definitivamente in crisi il progetto originario dell’Ulivo, che presupponeva il su-peramento della questione cattolica. La ripresa dell’Ulivo avviene, quindi, su nuove basi completamente di-verse. Diventa un accordo politico tra un partito cattolico, com’è la Margherita, e un partito postcomunista, come sono i Ds: è un compromesso storico bonsai. Non è, quindi, una novità ma la somma di quel che resta di due antiche tradizioni della storia della nostra Repubblica non fa una novità, è un regresso nel passato. E’ questo il principale motivo per cui lo Sdi, pur invitato a parteciparvi, non aderisce alla nuova formazione. Il Partito democratico avrebbe potuto essere un’esperienza originale, legata alla spinta in atto nella socialde-mocrazia europea per andare oltre i suoi confini tradizionali. Lo Sdi non ha mai posto come pregiudiziale l’adesione del nuovo partito democratico al Pse, nella convinzione che non ci sarebbe potuto essere altro rife-rimento se non la socialdemocrazia, la più importante forza politica riformista in Europa.
La Costituente socialista
Oggi il partito democratico, con al suo interno una componente di cattolici che fanno politica in quanto catto-lici e sono sensibili, se non proclivi, agli orientamenti della gerarchie ecclesiastiche, non si pone in una posi-zione più avanzata, ma molto più arretrata rispetto alla socialdemocrazia europea. Anche per questo motivo è tornata sulla scena politica italiana la questione socialista. È un richiamo che è venuto da alcuni di coloro che sono rimasti delusi dal modo in cui si sta costruendo il Partito democratico, come Angius e Zani, e da coloro che da diverse posizioni, come Emanuele Macaluso, rigoroso riformista, e come Fabio Mussi, non credono all’idea dell’Ulivo. Come Sdi non solo non possiamo mantenere un atteggiamento di indifferenza rispetto a questa riproposizione della questione socialista, ma dobbiamo impegnarci attivamente in un confronto nel quale, non solo per il fatto di essere eredi della storia del movimento socialista ma anche per la nostra appar-tenenza all’Internazionale socialista e al Pse, siamo un interlocutore fondamentale, caricato oggi da nuove responsabilità. Da parte nostra non c’è alcuna volontà di fomentare scissioni nella sinistra italiana. Casomai siamo stati ripetutamente oggetto di iniziative di questo tipo, messe in atto allo scopo di dividere il movimen-to socialista. Il confronto che vogliamo promuovere non parte solo dall’esigenza di colmare un vuoto che si aprirebbe se i Ds confluissero con la Margherita in un partito che non aderisse al Pse, ma anche dalla neces-sità di svolgere un ruolo indispensabile di critica e di stimolo per un rinnovamento effettivo della sinistra ita-liana. Con la corrente di Fabio Mussi vi sono divergenze politiche che non nascondiamo. Vi sono, però, con-vergenze significative nella difesa dei principi di laicità, nell’ampliamento dei diritti civili, a cominciare dal riconoscimento delle unioni di fatto, e soprattutto dal comune riferimento alla socialdemocrazia europea. Del resto appare paradossale che proprio chi ci critica per l’apertura di questo nostro confronto considera essen-ziale però che la corrente di Mussi faccia parte del nuovo Partito democratico. Questo percorso non significa per lo Sdi l’arroccamento in un recinto dove coltivare la “fede socialdemocratica”. La socialdemocrazia eu-ropea non si identifica, infatti, con un apparato dottrinale. Noi abbiamo sempre condiviso l’idea di costruire una grande forza riformista. Quindi, a partire da un forte riferimento socialista che innanzitutto faccia ritro-vare l’unità dello Sdi con il Nuovo Psi di Gianni De Michelis e con i socialisti di Bobo Craxi, bisogna aprire un processo aperto a tutte quelle componenti progressiste, dai liberali riformatori agli ambientalisti riformisti, che non si ritrovano nel Partito democratico così come Fassino e Rutelli lo stanno costruendo. La stessa e-sperienza della Rosa nel Pugno, che vive ancora come alleanza elettorale e come azione comune nel Parla-mento e nel governo, è importante sia per le iniziative portate avanti con coerenza dai socialisti sia per le bat-taglie condotte con coraggio dai radicali. Il confronto critico con il Partito democratico non verterà su dispute ideologiche tra chi è più ortodosso e chi lo è meno rispetto al Pse. Si svolgerà, invece, sulla natura e sui pro-grammi del nuovo Partito democratico e sul grado di compromesso a cui saranno soggetti i principi fonda-mentali della socialdemocrazia europea.
La socialdemocrazia europea è all’avanguardia
La via che conduce ad una costituente socialista passa per il terreno riformista. La socialdemocrazia, infatti, ha un profilo assai avanzato ed innovativo, esprime piattaforme riformiste di notevole valore e si pone in una posizione di apertura verso le sfide della globalizzazione. Riscoprire la questione socialista quindi, significa assumere come base un riformismo assai simile a quello degli altri partiti socialisti, socialdemocratici e labu-risti dell’Europa occidentale. La socialdemocrazia è la principale forza riformista in Europa, perché è riuscita continuamente ad aggiornare la propria visione della società e la propria piattaforma programmatica alle tra-sformazioni che hanno attraversato più di un secolo di storia. Il modello dello Stato sociale, che è stato uno dei più grandi fattori di civilizzazione del ventesimo secolo, costituisce ancora oggi un riferimento fonda-mentale che caratterizza il modello sociale europeo rispetto a quello nordamericano. I socialdemocratici si basano su una visione dello sviluppo sostenibile che assicuri la piena occupazione, eviti che si creino emar-ginazione ed esclusione sociale, soddisfi i bisogni della generazione attuale senza compromettere le condi-zioni di vita di quelle future. Questa è l’idea che i socialdemocratici pongono alla base di una “Nuova Europa sociale”, che è la meta indicata dal Congresso del Pse di Oporto. Le trasformazioni in atto creano un grande potenziale per il miglioramento delle nostre società. Nello stesso tempo si avvertono i rischi e le incertezze che le trasformazioni possono indurre in tutti i campi. Questa visione delle cose porta a considerare la neces-sità di un cambiamento dello Stato sociale per adeguarlo a nuove necessità e a nuovi bisogni. La socialdemo-crazia europea non è più legata a una scelta di classe, ha da tempo accettato l’economia di mercato e i princi-pi della democrazia liberale. Conferma i principi di giustizia sociale e di solidarietà, ma nello stesso tempo vuole valorizzare la responsabilità individuale. Non pensa più a costruire un grande Stato che regoli l’economia e la finanza secondo un disegno politico calato dall’alto. Il mercato non viene visto come un puro strumento di allocazione delle risorse. Il mercato è istituzioni, tradizioni, cultura, autorità indipendenti di controllo, regole. Questo approccio della socialdemocrazia europea, che è maturato già alla fine dello scorso secolo, pone al centro della sua impostazione la necessità di contrastare nuove forme di esclusione dal lavo-ro, e di assicurare pari opportunità per tutti, come recita lo slogan europeo per il 2007. Considera fondamen-tale il ruolo delle donne, l’educazione dei bambini, l’integrazione dei disabili, l’uguale dignità tra coloro che hanno identità di genere o orientamenti sessuali diversi, il rispetto dei diritti fondamentali per tutti. La so-cialdemocrazia è a favore della competizione tra le imprese e contro la formazione di monopoli e di oligopo-li, per la cooperazione tra gli Stati e la solidarietà tra i cittadini. La tutela dell’ambiente è stata sempre un cardine dell’azione dei partiti socialdemocratici, fin da quando l’ex premier norvegese Brundtland promosse la conferenza mondiale di Rio e sostenne la necessità di uno sviluppo sostenibile. La socialdemocrazia con-sidera un dovere dello Stato assicurare un sistema di istruzione che sia inclusivo ed eccellente. La socialde-mocrazia europea non è quindi una vecchia forza appesa al passato, ma uno dei principali protagonisti dell’innovazione politica in Europa.
Scuola e ricerca sono la priorità
In Italia, riscoprire la questione socialista significa contrastare da posizioni innovatrici il conservatorismo che ancora è forte nell’estrema sinistra. Nel nostro Paese non si riesce a portare avanti una trasformazione dello Stato sociale, le cui risorse sono assorbite principalmente da pensioni e sanità. Occorre, invece, prende-re atto dei cambiamenti che sono intervenuti, a cominciare dall’esigenza di assicurare flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro. Finora nel nostro Paese si è incrementata la flessibilità, ma senza introdurre un nuovo sistema di ammortizzatori sociali, come indicava Marco Biagi nel suo “Libro Bianco”, e come, ad esempio, accade in Danimarca, dove esiste un ancora più elevato livello di flessibilità, ma non altrettanto disagio so-ciale. Occorre ribadire ai conservatori di destra e di sinistra che la flessibilità dell’impiego può e deve essere separata dalla precarietà del reddito, grazie all'intervento dello Stato, attraverso efficaci ammortizzatori so-ciali. Va sviluppata quindi una politica che si proponga la sicurezza e il pieno impiego nel mondo del lavoro secondo criteri che ormai sono accolti da tutta la socialdemocrazia europea, con un passaggio il più possibile rapido dalla perdita di un lavoro ad uno nuovo, minimizzando i rischi di perdita del reddito, massimizzando la formazione di nuove competenze professionali e puntando ad attivare la responsabilità individuale. L’obiettivo della flessibilità è garantire il rapido e possibilmente indolore trasferimento di risorse e persone da attività in crisi a settori e imprese in crescita, al fine di assecondare e favorire il progresso tecnologico, ve-ra fonte di ricchezza per tutta la società. È dunque necessario operare una redistribuzione delle risorse oggi destinate allo Stato sociale, a cominciare dalla previdenza. È importante ricordare che non si tratta di un diktat arbitrario dell'Unione Europea. Di fatto, l’Italia ha una spesa sociale complessiva comparabile a quella dei maggiori paesi europei, mentre è diverso il peso delle varie componenti, con un pesante ritardo per gli ammortizzatori sociali, dei quali la Cassa Integrazione rappresenta il principale se non l’unico elemento, ne-anche accessibile a tutti i lavoratori. La spesa per le pensioni, già superiore alla media europea, è destinata a crescere ulteriormente, a danno dei giovani che lavorando dovranno pagarle a genitori e nonni che già lascia-no in eredità un enorme debito pubblico. Noi ci proponiamo di indicare alcuni punti essenziali: - innalzare l’età pensionabile a sessant’anni ad esclusione dei lavoratori manuali, e puntare ad una soglia ancora più ele-vata, attraverso una scelta volontaria dei lavoratori, in un processo basato su incentivi e disincentivi; - equi-parare l’accesso alla pensione tra uomini e donne; - aumentare le pensioni minime, che sono spesso al di sot-to dei livelli di sussistenza. Ammortizzatori sociali moderni non significa solo contributi monetari, ma anche fornitura di servizi efficaci e di qualità. Il vero sostegno alla famiglia consisterebbe nel garantire la concilia-zione della vita familiare e lavorativa delle donne, sostenendo gli anziani non autosufficienti e costruendo più asili nido, non nel regalare pochi spiccioli in assegni familiari, che certo non contribuiranno a facilitare il lavoro delle donne, né le incentiveranno ad avere più figli. Consideriamo fondamentale l’impegno per la ri-cerca, la formazione e l’innovazione, secondo la tanto osannata e poco applicata agenda di Lisbona. Occorre mettere mano ad una grande riforma del sistema di istruzione scolastico ed universitario secondo alcune di-rettrici fondamentali: - un ciclo decennale di studi, dai cinque ai quindici anni, unitario e uguale per tutti; - un ciclo triennale di licei differenziato secondo grandi comparti, dal classico allo scientifico, dall’artistico al tecnico; - corsi di formazione gestiti dalle Regioni, di durata triennale che, previo un esame di ammissione, possano comunque consentire l’accesso all’università; - difesa della centralità della scuola pubblica statale e libertà per le scuole private, paritarie e non, ma senza oneri per lo Stato; - sostituire l’attuale insegnamento della religione con un corso di storia delle religioni che non abbia un approccio dottrinale ma un’impostazione aperta. - un sistema universitario misto tra pubblico e privato, che crei concorrenza tra di-versi atenei; - progressivo trasferimento di parte del costo dell’istruzione universitaria dalla fiscalità generale a coloro che ne usufruiscono, attraverso mutui trentennali ad interessi zero; - mantenimento del valore legale del titolo di studio per l’istruzione primaria e secondaria e abolizione di quello per l’istruzione universitaria; - abolizione degli ordini professionali con una liberalizzazione che si fondi sul mercato e in alcuni casi, come per i medici, su un’abilitazione fatta con esami di Stato gestiti dallo Stato. - una forte crescita della forma-zione continua degli adulti e il ricorso estensivo all'aggiornamento professionale dei lavoratori come strategia competitiva per le aziende e di formazione del cittadino per la società. Il sistema sanitario deve essere note-volmente migliorato. Vanno drasticamente ridotte le liste di attesa, migliorata l’assistenza soprattutto nei confronti degli anziani e, tra questi, in particolare di quelli non autosufficienti, incrementata la ricerca nel campo della salute e migliorata la prevenzione. La sanità deve restare pubblica, introducendo fattori di con-correnza tra le diverse strutture. La politica per gli alloggi, soprattutto per le nuove famiglie, dopo essere del tutto sparita, deve tornare ad essere un punto fondamentale delle iniziative di governo nel nostro Paese:
- vanno promossi programmi di costruzione di alloggi con fitti accessibili e con la possibilità, attraverso mu-tui, di acquisirne la proprietà;
- va dato un sostegno ai redditi più bassi, soprattutto nelle grandi città, per gli affitti delle case;
- va progressivamente abolita l’Ici sulla prima casa; -
va abolita la politica ricorrente del blocco degli sfratti, in quanto iniqua e controproducente, generando fe-nomeni diffusi di elusione e un livello significativamente più elevato dei fitti.
Responsabilità individuale e solidarietà sociale
Un programma che voglia conciliare responsabilità individuale e solidarietà sociale deve poter contare su una rigorosa politica economica e di bilancio. Le necessarie misure di risanamento dei conti pubblici devono essere accompagnate da una stretta alle incentivazioni, ai crediti d’imposta ed alle elargizioni a categorie ed imprese. Bisogna portare avanti la concertazione, ma al di fuori di una politica che sia ossessionata dalla ri-cerca di un patto neocorporativo. È anche in questo modo che si possono reperire risorse. La politica fiscale è sempre più diventata un tema sul quale si determinano gli orientamenti di elettrici ed elettori. Non si tratta di fare scelte di tipo ideologico. Un elevato livello di pressione fiscale sulle famiglie, e un livello più basso sul-le imprese, come si è visto nei paesi scandinavi, è assolutamente compatibile con la crescita. Questo non si-gnifica che ci si proponga in Italia di trasferire il modello scandinavo, dove un’elevata fiscalità ha una buona accoglienza sociale, data l’efficienza dei servizi pubblici. In Italia, come è noto, la pressione fiscale è consi-derata elevata e ingiusta soprattutto perché vi è spesso una cattiva qualità di molti servizi pubblici e una ele-vata area di evasione, ma anche perché la destra ha fatto una campagna propagandistica di tipo demagogico, volta a sollecitare le forme più miopi di egoismo individuale. È fondamentale migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione attraverso la valorizzazione delle capacità e un severo contrasto delle zone di i-nefficienza. L'abolizione di antichi privilegi e la diffusione delle nuove tecnologie sono un'occasione irrinun-ciabile di modernizzazione del Settore Pubblico, che può e deve diventare uno dei motori di crescita, dell'e-conomia e della democrazia. È un compito primario riuscire ad individuare strumenti che possano fronteg-giare il fenomeno dell’evasione, che per la sua entità non ha equivalenti in altri paesi sviluppati. A tal fine è necessario procedere con controlli che facciano chiarezza e trasparenza sulle fonti di reddito: non tanto sulla base di riferimenti standard – come si è fatto con gli studi di settore – ma attraverso accertamenti campionari che riguardino tutti i movimenti di denaro dei contribuenti. A situazioni di emergenza bisogna rispondere con misure di emergenza. I contribuenti onesti non hanno nulla da temere da controlli rigorosi. È necessario non solo procedere ad una ulteriore semplificazione degli adempimenti burocratici, ma sviluppare una politi-ca fiscale che pesi molto di meno sulle imprese, che sono i principali centri di creazione della ricchezza so-ciale. I processi di privatizzazione devono essere portati avanti in una stretta connessione con quelli di libera-lizzazione, per evitare che i monopoli pubblici si trasformino in ancor peggiori monopoli privati. La gestione delle reti deve essere nettamente separata dall’erogazione dei servizi e può essere sia pubblica sia a capitale misto. È soprattutto nel campo delle public utilities, a cominciare dall’energia e dalle comunicazioni, che è necessaria una separazione netta e senza possibili collusioni e conflitti di interessi. Da queste scelte dipende la stessa possibilità di attivare politiche che favoriscano l’innovazione senza tradursi in pure e semplici rega-lie. L’Italia ha bisogno di una moderna politica dei trasporti. È necessario contrastare tutte quelle spinte - che in nome di una difesa dell’ambiente fondata su scelte integralistiche e potenzialmente controproducenti - si oppongono alla Tav, e ci farebbero restare esclusi dai grandi corridoi europei del trasporto su rotaia e favo-rendo indirettamente l’inquinante trasporto su gomma. La tutela del patrimonio naturale va salvaguardata e va attentamente valutato l’impatto ambientale, ma l’ecologia non deve essere un pretesto per scelte di carat-tere ideologico contro l’innovazione e lo sviluppo. Il Sud è un tema che ormai appartiene alla retorica nazio-nale. Se ne parla molto e si fa poco. Per il Mezzogiorno servono soprattutto infrastrutture e sicurezza più che incentivi. Occorrono grandi investimenti nel campo della ricerca e dell’istruzione. La sicurezza nel Sud è un tema cruciale. Senza sicurezza non si potrà mai creare un ambiente favorevole allo sviluppo economico.
Più sicurezza e più giustizia
Il contrasto delle organizzazioni mafiose e del risorgente terrorismo va accompagnato da una severa politica contro la microcriminalità. Da tempo la socialdemocrazia europea considera fondamentali le politiche per la sicurezza dei cittadini. Sono soprattutto i ceti più deboli, in particolare gli anziani, ad essere colpiti dalla pic-cola criminalità. Non si tratta di aumentare le pene, ma di perseguire efficacemente anche i piccoli reati di violenza alle persone, come gli scippi, e di individuare per i baby criminali percorsi di pena alternativi al car-cere. La giustizia è la grande malata del nostro Paese. Non funziona, non riesce a smaltire in tempi ragione-voli i processi e non dà le garanzie che sarebbero necessarie, soprattutto a coloro che hanno bassi redditi. I socialisti da tempo indicano alcuni punti essenziali per la riforma della giustizia:
- separazione delle carriere tra giudice terzo e pubblica accusa;
- introduzione della figura di un manager che gestisca gli aspetti logistici della macchina giudiziaria;
- riduzione al minimo degli incarichi extra giudiziari;
- ampliamento dell’utilizzo dei giudici di pace, soprattutto per i piccoli processi riguardanti la giustizia civile.
Sempre in tema di libertà, in Italia esiste una concentrazione mediatica, economica, finanziaria e politica im-personata da Berlusconi. Poiché il mondo delle comunicazioni è decisivo nella nostra epoca, si tratta di un fenomeno che contrasta con i principi della democrazia liberale. Il conflitto di interessi va affrontato e risol-to, pur senza utilizzare armi improprie contro Berlusconi. In Italia occorre superare il duopolio Rai-Mediaset e introdurre e garantire un effettivo pluralismo.
La nuova frontiera socialista
Sono questi i punti politici e programmatici salienti sui quali lo Sdi si impegna. L’Italia si trova in una tran-sizione che appare infinita. Talvolta si ha l’impressione che, invece di andare avanti, si abbia una grande vo-glia di tornare indietro e persino di archiviare il bipolarismo, l’unico vero frutto positivo del collasso del vec-chio sistema politico. Il dibattito sulla transizione si è concentrato sulla modifica della legge elettorale. Non si può sottovalutare questo aspetto. L’attuale legge, infatti, non favorisce il bipolarismo. È stata scritta e ap-provata in fretta e male da un centro destra che si proponeva unicamente di limitare i danni di una sconfitta elettorale annunciata. Del resto siamo tuttora gravemente danneggiati, perché non ci viene riconosciuta la nostra legittima presenza al Senato che scaturisce da una rigorosa applicazione della legge. Lo Sdi è favore-vole ad una legge proporzionale che salvaguardi il bipolarismo con una chiara scelta del premier e delle coa-lizioni e con l’adozione di un forte premio di maggioranza. La transizione deve essere assicurata innanzitutto dalla politica. È necessaria una ristrutturazione e una ricomposizione in forme nuove delle forze politiche. Ed è più che necessaria l’affermazione della laicità nella politica italiana. Laicità, libertà e democrazia liberale sono un trinomio inscindibile. Finché nella politica italiana sarà forte il condizionamento delle gerarchie ec-clesiatiche, il panorama dei partiti non si avvicinerà ma si allontanerà sempre di più da quello europeo. È già avvenuto nel nostro Risorgimento, quando il potere temporale dei Papi costituì un grave ostacolo al raggiun-gimento dell’Unità d’Italia. Avviene oggi con un’influenza delle gerarchie ecclesiastiche, che allontana l’Italia dall’Europa democratica e moderna. Anche per questo dare vita a una nuova forza di ispirazione so-cialista, chiaramente collegata all’Internazionale e al Pse e aperta all’apporto e al contributo dei riformatori liberali e dei riformisti ambientalisti, è essenziale per la modernizzazione del nostro Paese.

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